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LA MAGICA KATE, TRA HARRY POTTER E TWILIGHT

Kate e il Regno Dimenticato: Amici e Nemici – Minas Tirith” (Tabula fati, 2017) è il primo volume della trilogia fantasy di Silvia Banzola sulla ragazza che si scopre all’improvviso erede di un regno magico, in un altrove popolato da maghi, orchi, vampiri e draghi, dove vivono persino i propri genitori che credeva morti.

Si riprende poco per volta dallo sbigottimento iniziale per la scoperta della propria reale (in entrambi i sensi) identità, calandosi nel nuovo ruolo e cercando alleanze per sconfiggere il mago oscuro Victor. A grandi linee lo schema fa pensare ai romanzi di Harry Potter, con un protagonista che scopre di avere poteri magici insospettati e un ruolo determinante in un mondo parallelo dominato dalla magia. Ci sono, però, elementi che richiamano maggiormente “Twilight” con il vampiro fascinoso e disposto a rinunciare per amore ai propri appetiti, di cui si innamora Angela, la miglior amica di Kate. Anche Kate trova se non, per ora, l’amore, una forte amicizia nel mago Daniel che compare in modo inaspettato nella sua vita e l’aiuta in più occasioni.

Il rapporto con potente drago Koanoz, vittima di un incantesimo che gli ha fatto perdere il controllo del fuoco, rendendolo involontariamente pericoloso anche per gli abitanti del villaggio che l’aveva allevato, mi fa piuttosto pensare a “Le cronache del ghiaccio e del fuoco”, se non a “Shreck” o a “Eragon”.

E che dire di Cagliostro, il gatto parlante che porta il soprannome di un alchimista eretico? Personalmente penso all’onirico Behemoth di “Psicosfera”, a sua volta derivato dall’omonimo gatto de “Il Maestro e Margherita” e dall’ipopotamesco demone biblico, ma mi viene anche in mente “Il gatto con gli stivali”. Del resto i gatti accompagnano da sempre le streghe.

Tra i personaggi singolari che si trovano nel volume, oltre a un inconsueto (per i fantasy) Minotauro, troviamo un principe delle rane blu, disperato per essere stato trasformato in principe umano, in un rovesciamento della celebre fiaba.

Il volume ha un finale aperto che dopo la conquista dell’amicizia del drago ci lascia in attesa di scoprire se Kate riusicrà a riconquistare il regno che non pensava di possedere.

La trilogia sarà presentata al Salone del Libro di Torino, preso lo stand del Gruppo Editoriale Tabula fati Solfanelli.

PICCOLI UOMINI CRESCONO

Ho già scritto molte volte come Stephen King sia un grande narratore dell’infanzia e delle sue paure.

Doctor Sleep. Ediz. italiana - Stephen King - copertina

Pare, poi, avere come motto i versi del poeta Alfonso Gatto “Ogni uomo è stato un bambino”. Anche quando parla di adulti non è difficile per il lettore immaginarli bambini e spesso King apre finestre sulle loro infanzie.

Alcune volte poi, King ci presenta dei personaggi da bambini e ce li ripropone poi da adulti. Esemplare in tal senso è il suo capolavoro “It”, in cui incrociamo i sette ragazzi di Derry nel 1957-58 e nel 1984-85.

Nel caso di “Shinning” (1977) il doppio piano temporale, 1975-76 e 2001, non nasce dall’inizio della stesura, ma si realizza con la pubblicazione del sequel “Doctor Sleep” (2013).

Se nel primo era protagonista l’intera famiglia Torrance, in “Doctor Sleep”, morto il padre, il figlio Dan assume un ruolo centrale. Come per “It” è occasione per mostrare il diverso approccio di un bambino e di un adulto verso l’orrore, ma anche per mostrarci come questi orrori dell’infanzia abbiano trasformato il ragazzino in un ubriacone, non privo però di voglia di riscattarsi e di notevoli poteri paranormali. Non poteva bastare a King il ricordo dell’infanzia di Dan per fare un romanzo: accanto a lui troviamo una bambina, Ambra, con poteri paranormali persino maggiori dei suoi.

Se l’Overlook Hotel era scenario e protagonista al contempo di “Shinning”, in “Doctor Sleep” ha ruolo assai minore. I veri nemici non vengono da lì ma dal Nodo, una banda di “vampiri d’anime” vaganti come zingari sui loro caravan, a caccia del “vapore” di ragazzini dotati di singolari doti ESP, da succhiare, torturare e uccidere o da assoldare tra le loro file.

Ambra, però, appare troppo potente, sebbene ancora bambina, per loro per entrambe le soluzioni: una

Stephen Kings Doctor Sleep [Edizione: Regno Unito]: Amazon.it: Film e TV

nemica da distruggere. Toccherà a Dan Torrance cercare di aiutarla, superando le tentazioni dell’alcol.

Dal romanzo è stato tratto un film, che si collega di più a quello realizzato da Kubrick che al romanzo stesso, dato che il regista aveva reinterpretato la trama a modo suo, ma che nel complesso appare forse più attinente all’opera di King rispetto al suo precedente.

Certo vedere, seppure per poco, Jack Torrance con una faccia diversa da quella di Jack Nicholson fa un po’ effetto.

Se “Shinning” era soprattutto la storia di una casa stregata, “Doctor Sleep” somiglia di più a una storia di vampiri, sebbene questi succhia anima somiglino forse più a dei Mangiamorte della Rowling che al Dracula di Stoker. Del resto, non si nutrono neppure di sangue e vivono tranquillamente alla luce del sole.

LA PANDEMIA E IL RAZZISMO

Il Pugno dell'Uomo (Urania) eBook: Del Popolo Riolo, Davide: Amazon.it:  Kindle Store

Niente dà felicità più della creazione. Solo nella creazione l’uomo manifesta la propria natura di poeta. L’arte è creazione e non c’è uomo più produttivo dell’artista.

È tutto vero. Però l’artista è schiavo dei mercanti e quindi non è davvero libero” scrive Davide del Popolo Riolo (pag. 75) nel romanzo “Il Pugno dell’Uomo” (Mondadori, 2020) con cui ha vinto il Premio Urania 2019.

Io sono, peraltro, solito dire che se l’arte è creazione, la forma più artistica di letteratura è quella che crea mondi. Ebbene, Davide del Popolo Riolo, con questo romanzo si pone di diritto nella categoria per me più elevata di autori, quella dei “creatori di mondi”, accanto a Stephen King, Rowling, Asimov, Lewis, Tolkien, Lovecraft, Scott Card, Le Guin, R.R. Martin, Galouye, Scalzi, Mièville, Herbert e tanti altri.

Il Pugno dell’Uomo”, infatti, immagina un pianeta lontano, nel tempo e nello spazio, in cui convivono varie razze umanoidi, tra cui umani di chiara origine terrestre, pallidi (o succhiasangue) che molto somigliano ai vampiri, pur senza rientrare negli stereotipi del genere (niente allergie all’argento, niente paletti di frassino) a parte l’abitudine di bere sangue umano, i canini retrattili e l’insofferenza alla luce solare. Accanto a loro le altre razze hanno ruoli solo di comparse, ma sono pur presenti e gli uomini-pesce mi fanno molto pensare alle creature della Leg Horn di Lukha B. Kremo.

Il conflitto di questi vampiri-alieni con gli umani si muove soprattutto su un piano socio-economico, un po’ com’è nel romanzo che scrissi con Simonetta Bumbi “Il Settimo Plenilunio” (Edizioni Liberodiscrivere, 2010) o in “Vlad 3.0” di Pierfrancesco Prosperi (Porto Seguro Editore, 2019).

Il romanzo mescola la tecnologia delle macchine a vapore dello steampunk con le atmosfere di quei romanzi che immaginano civiltà rifiorite dalle ceneri di mondi antichi (qui gli Antichi, venuti dalle stelle), come in “Universo senza luce” di Galouye e, soprattutto, in “Naufragio sul pianeta Tschai” e negli altri romanzi di questa saga di Jack Vance.

Chiacchierando con Davide del Popolo Riolo | ilcantooscuro
Davide del Popolo Riolo (Asti12 gennaio 1968)

Ne “Il Pugno dell’Uomo” è però forte la suggestione di un romanzo mainstream come “L’amico ritrovato” (1971) di Fred Uhlman, con la difficile amicizia tra due ragazzini, un umano e un pallido per Del Popolo Riolo, un ebreo e un nobile tedesco per Uhlman.

In effetti, il messaggio forte de “Il Pugno dell’Uomo” è quello della tolleranza, dell’anti-razzismo e della possibilità di convivenza tra specie aliene diverse. Se è possibile tra alieni, perché non dovrebbe esserlo tra umani?

Il Pugno dell’Uomo che dà il nome al romanzo è, infatti, un’associazione ultra-razzista che vuole liberare la Città dagli inumani e soprattutto dai succhiasangue. Scusa per attaccarli è una pandemia letale che si scatena tra gli umani, di cui i reazionari del Pugno dell’Uomo attribuiscono le colpe ai pallidi, fantascientifici untori, in realtà, ovviamente, innocenti.

Già, in questo romanzo premiato nel 2019 e quindi antecedente al Covid-19, si parla dei devastanti effetti sanitari ed economici di un’epidemia! E c’è ancora chi finge che il covid-19 sia stato qualcosa di imprevisto quando scienziati e scrittori scrivono di epidemie, passate e future, da sempre, basti pensare, tra i tanti, a “Il giorno dei trifidi” di Wyndham o “L’ombra dello scorpione” di King.

Insomma, una lettura interessante e intelligente, capace di divertire ma anche di far riflettere sul nostro mondo, riuscendo nel contempo a crearne uno nuovo, ricco e complesso. Esattamente quello che un romanzo dovrebbe sempre essere.

LA GESTIONE DEI VAMPIRI NEL COMUNE DI ROMA

Pierfrancesco Prosperi, classe 1945, è autore di tutto rispetto, che pubblica ormai da quasi dodici lustri (dal 1960), con al suo attivo numerosissimi romanzi, oltre 140 racconti apparsi sulle principali testate e antologie del settore (Urania, Galassia, Oltre il Cielo, Robot, I romanzi del Cosmo, Futuro, Futuro Europa, Interplanet) oltre che su vari quotidiani, e tradotti più volte all’estero e un’attività di soggettista e sceneggiatore di signori fumetti come “Topolino”, “Martyn Mistére”, “Intrepido”, “Il Monello”, “Zona X” e altri.

Il suo genere prediletto è l’ucronia, ma spazia in molti campi del fantastico, compresa la fantascienza.

Ne leggo ora questa insolita satira politica che è “Vlad 3.0”, sottotitolo “I vampiri di Roma” (Porto Seguro Editore, 2019), impreziosita grazie a un’attenzione alla storia, tipica di un autore di ucronie, si pensi, per esempio, alla scelta di Ariccia come rifugio per i Signori della Notte e all’interessante digressione sulla storia della cittadina e del suo ponte.

Pierfrancesco Prosperi - Letterelettriche EdizioniCon “Vlad 3.0Prosperi scherza con il romanzo gotico, riprendendone gli stereotipi sui vampiri e ridicolizzandoli con la loro trasposizione in ambiente romano, e, nel contempo, crea una spassosa satira della burocrazia, corruzione, rissosità e incompetenza dei politici nostrani, mostrandoci tutte le debolezze dell’amministrazione capitolina, quale che ne sia il colore politico. I riferimenti sono spesso reali, sia ai luoghi dell’urbe, sia ai partiti politici che la popolano. Solo i nomi dei politici e le loro azioni sono inventate.

La divertente idea di base è che i vampiri decidano di immigrare nella capitale e di stabilirvi la loro base, lasciando Romania e Transilvania. Ne nascono  problemi su come difendersi dalla loro violenza, sul loro riconoscimento come cittadini italiani, su come gestirne il pensionamento (dato che sono quasi immortali), e come garantire loro altri diritti. Si scontrano fazioni politicamente trasversali di personaggi pro e contro i vampiri. Dietro ogni tematica, sono evidenti temi centrali del dibattito politico attuale.

Ed ecco che Prosperi ci mostra un surreale capitolato di gara per assegnare a una ditta la devampirizzazione, ecco i proclami dei vari partiti, ecco gli articoli di giornali. E tutto questo con i vampiri divisi, alla “Twilight”, tra cattivi e buoni (che si nutrono di MetaSangue, sangue sintetico, un po’ come ne “Il Settimo Plenilunio” che scrissi anni fa con Simonetta Bumbi, tema poi ripreso da Calamandrei con “Sangue gratis”). C’è anche qui la figlia del protagonista che (come la Bella della Meyer) si innamora di uno dei vampiri (ovviamente di quelli buoni).

L’autore cita (pag. 36, per esempio) e dimostra concretamente di ben conoscere la letteratura gotica dal “Dracula” di Stoker alle creature di Matheson, King, Barker, Polidori, Rice, Newman, ma anche la produzione cinematografica di serie B che ne è derivata, creandone una rivisitazione che non potrà non deliziare gli appassionati del genere che vi rivedranno molti stereotipi ridisegnati con delicata fantasia, basti pensare a una delle prime apparizioni dei vampiri nel romanzo, che, in un quadretto che mi è parso delizioso, arrivavano fluttuando a mezz’aria e “tenevano le braccia leggermente sollevate, piegate vicino al busto, con le dita delle mani riunite a punta e dirette in basso. Come coniglio o marmotte sollevati sulle zampe posteriori”.

Esaminando le ragioni del successo del fenomenoTwilight” avevo immaginato che  l’adolescente sentendo un altro Vlad 3.0 - Porto Seguro Editorese stesso che gli cresce dentro, avesse inconsciamente paura del sé adulto, vedendolo come qualcosa di separato dal proprio io attuale, in qualche modo mostruoso, portandolo a identificarsi nel vampiro o, meglio, nel licantropo: ora sono così, mi vedi così, ma dentro sono diverso, domani potrei essere un altro.

Anche in questo romanzo di Prosperi i giovani cadono più facilmente di altri preda dei vampiri, attratti dal loro fascino trasgressivo, ma “Vlad 3.0” mira a far divertire, riflettere sul malfunzionamento delle nostre amministrazioni più che interrogarsi sulle pulsioni adolescenziali e fare riflessioni sulla natura umana, l’immortalità, la violenza dentro ciascuno di noi. Un umorismo più legato alla nostra realtà amministrativa che all’assurdità del vampirismo, come, per esempio, in serie comiche come la neo-zelandese “Vita da vampiro – What We Do in the Shadows” di Taika Waititi e Jemaine Clement in cui, pure, troviamo vampiri alle prese con i problemi della vita quotidiana.

Di “Vlad 3.0.” ha scritto anche Massimo Acciai su I Segreti di Pulcinella.

SCRIVERE IN UNDICI

Perchè non siamo fatti per vivere in eterno?I modi per collaborare in un’opera di narrativa possono essere molti. Da quando c’è il web, credo che la tentazione di scrivere assieme per gli autori sia aumentata, essendo più facile sentirsi, scambiarsi idee e testi. Non per nulla ricordo di aver tentato già all’inizio degli anni ’90 a scrivere qualcosa in una dozzina di autori. Gestire un numero così elevato di teste nella realizzazione di un’opera unitaria è tutt’altro che facile e, all’epoca non riuscimmo a realizzare nulla. Erano però gli anni di Luther Blisset e poi di Wu Ming e questi esperimenti qualcosa partorivano. Io stesso nel 2007 pubblicai un romanzo scritto in tre e illustrato da 17 artisti (“Il Settimo plenilunio”) e un’antologia di cose scritte a quattro mani (“Parole nel web”). Devo dire che nel caso de “Il Settimo plenilunio” ci fu molto lavoro preparatorio per decidere cosa scrivere e poi molti scambi di e-mail per capire come andare avanti.

Perché non siamo fatti per vivere in eterno?” (Porto Seguro, Settembre 2019) è un romanzo gotico collettivo, scritto da una dozzina di autori (“I già dimenticati“, nome da me suggerito), che nasce con la tecnica del round-robin applicata in modo quanto mai semplice.

Il primo autore (Massimo Acciai) ha scritto il primo capitolo (in cui un gruppo di ragazzi decide di partire per una gita) e l’ha passato al secondo (il “misterioso” K. Von Zin) che ha integrato quanto già scritto e sviluppato il seguito (immaginando una meta più lontana, la Transilvania e allargando il gruppo dei personaggi), passando poi il testo a chi veniva dopo, e così via fino all’ultimo. C’è stata, infine, un’opera di correzione del testo finale da parte dei due curatori Massimo Acciai Baggiani e Federica Milella.

Stupisce dunque che la storia sia riuscita a giungere a conclusione, dato che gli autori non hanno avuto alcuno scambio tra di loro! Eppure, ne è venuto fuori qualcosa: una storia nata come racconto di viaggio, mutatasi poi in storia gotica di vampiri, nello stile più classico.

Questo approccio, privo di scambi collaterali e di comunicazione nel gruppo, ha fatto sì che la storia divenisse qualcosa del tutto diversa da come era stata immaginata all’inizio. Difficile, io credo, per ciascun autore riconoscersi nel libro, che di fatto è figlio di tutti loro e di nessuno, ma sorprendente appare il risultato di un simile esperimento.

Qui il video della presentazione del 21/10/2019.

I ROMANZI DELLA TORRE NERA

A conclusione dei precedenti post sulla Torre Nera, vorrei ricordare qualcosa sulla struttura della saga.

I volumi principali sono:

  1. La torre nera I: L’ultimo cavaliere(1982, pubblicato originariamente come romanzo breve; edizione rivista nel 2003(The Dark Tower I: The Gunslinger)
  2. La torre nera II: La chiamata dei Tre(1987) (The Dark Tower II: The Drawing of the Three)
  3. La torre nera III: Terre desolate(1991) (The Dark Tower III: The Waste Lands)
  4. La torre nera IV: La sfera del buio(1997) (The Dark Tower IV: Wizard and Glass)
  5. La torre nera V: I lupi del Calla(il titolo annunciato era L’Ombra Strisciante[1][2]) (2003) (The Dark Tower V: Wolves of the Calla)
  6. La torre nera VI: La canzone di Susannah(2004) (The Dark Tower VI: Song of Susannah)
  7. La torre nera VII: La torre nera(2004) (The Dark Tower VII: The Dark Tower)
  8. La torre nera: La leggenda del vento(2012) (The Dark Tower: The Wind Through the Keyhole)

Come si diceva il volume conclusivo è il settimo romanzo e l’ottavo ritorna indietro nella trama.

Molti altri romanzi di King sono collegati al ciclo, ma direi che “Le notti di Salem” possa essere considerato come un prequel della serie, anche se si potrebbe leggere a metà, prima de “I lupi della Calla”, dato che sono soprattutto gli ultimi romanzi a farvi riferimento.

In un racconti della raccolta “Tutto è fatidico” compare Roland.

Altri romanzi connessi pare siano (ma devo leggerne ancora molti e verificare):

“Insomnia” (citato nel settimo volume e in cui è protagonista Patrick Danville, personaggio fondamentale del settimo romanzo)

It” (se non altro per la tartaruga e una certa visione del mondo e per una possibile identità tra Dandelo e It)

“L’ombra dello scorpione (che spero di leggere presto)

“Desperation”

Stephen King

“Cuori in Atlantide”

“Il talismano”

“La casa del buio”

“Mucchio d’ossa”

E, dicono, molti altri.

Come Asimov (che ha unito tra loro i suoi principali cicli), anche King, a un certo punto della sua carriera, infatti, pare abbia sentito l’esigenza di creare un filo conduttore che tenesse legate tra loro tutte le sue numerose opere e ha trovato questo filo nella saga della Torre Nera. Insomma, una lettura quasi infinita, come i molti “Quando” in cui si svolge.

IL RE È MORTO, SALVATE IL RE

Un grande scrittore si riconosce anche dal coraggio. Un grande scrittore non ha paura di non essere capito e, anche se scrive cose complesse, viene compreso. Nel settimo volume del ciclo “La Torre Nera”, intitolato anch’esso “La Torre Nera” (2004), Stephen King ci proietta subito nelle primissime pagine in una girandola di salti spazio-temporali, ci mostra una donna nera senza gambe e una bianca che non ne è priva e ci dice che sono la stessa persona, eppure non ci confonde. Tutto è chiaro e scorre bene. Almeno per chi, come me, ha già letto i precedenti sei volumi, ma direi anche per chi li dovesse ignorare (meglio però leggere i volumi in ordine, dato che formano un romanzo unitario). Spesso però gli autori, in questi casi hanno paura e si preoccupano di spiegare subito ai lettori cosa è successo prima, perché succedono certe cose e chi abbiamo davanti. Il risultato sono dei “sequel” in cui si perdono pagine e tempo nel tracciare inutili mappe di lettura.

Di recente, per esempio ho letto i 3 volumi di “1Q84” dove il pur grande Haruki Murakami, dimostra di non avere questo coraggio e scrive un terzo volume che, in prevalenza, ripete cose già dette negli altri due. Un altro esempio di questo difetto potrebbe essere il ciclo “Hunger games”. Non è il caso di King, che con coraggio ci lancia subito nell’arena. I re non cercano il consenso, lo hanno, perché gli spetta.

Il romanzo continua a muoversi tra mondi diversi (Medio-Mondo, Fine-Mondo, America, Rombo di Tuono…), epoche diverse, generi letterari diversi, ma dopo altri sei libri, sono tutti spazi-tempo che conosciamo, in cui il lettore si trova a casa e King sa essere un ottimo ospite, capace di far sentire a suo agio il lettore in qualunque casa lo ospiti.

Se “La Torre Nera” è la saga della schizofrenia, dei doppi, dei gemelli, anche questo settimo volume non manca di produrre i suoi esempi. Vi troviamo addirittura un triplo sosia freudiano di Stephen King (il personaggio più che l’autore, se c’è una differenza), un terzetto, Fimalo (Superego), Feemalo (Ego) e Fumalo (Id), che vuole imitare le tre parti della psiche dell’autore, ma che, essendo solo imitazione, non sono veramente King. L’autore però è qui comunque uno dei personaggi determinanti della storia. Addirittura dalla sua salvezza dipende il destino dell’universo, anzi di tutti gli universi retti dalla Torre Nera. Dovranno essere i suoi stessi personaggi a entrare nel suo “Quando” per salvarlo.

La visione dello spazio-tempo in questa saga di King, ricorda molto quella dell’ucronia nei miei romanzi, in particolare di quelli del ciclo di “Jacopo Flammer”. Per me, però, il tempo è un frattale, una serie infinita di linee che si dipartono da una serie infinita di punti delle infinite linee temporali, insomma, un “infinito alla terza potenza!!! La visione di King è più semplice: vede una principale linea spazio-temporale dalla quale si dipartono innumerevoli (non direi infinite) linee alternative.

La linea temporale principale è quella in cui vive Stephen King (il “lato americano”). Lì se uno muore, muore veramente. Nelle altre linee temporali non esiste una vera morte, in quanto nulla di ciò che avviene è definitivo perché in altre linee temporali (io direi “Universi Divergenti”, King li chiama “Quando”) quel fatto, quella morte, possono non essere avvenuti. È così che Jake riesce a tornare sebbene l’abbiamo visto morire.

Quello che avviene sul “lato americano” però è importante e determina tutto il resto. Per questo Roland deve a ogni costo salvare Stephen King, magari sacrificando se stesso o qualcuno dei suoi amici. Perché è King a scrivere la loro storia e se King morisse, il loro tempo si arresterebbe. Eppure King non è del tutto padrone del tempo del loro universo. Tutto è legato, lui può creare storie, ma quello che scrive è, in un certo senso, già scritto.

In questo romanzo compare anche un secondo “autore-personaggio”, Patrick Danville, un ragazzo tenuto prigioniero forse dall’infanzia dal vampiro Joe Collins. È debole, scheletrico, malato, ingenuo, ma ha una capacità incredibile nel disegnare. È veloce come un pistolero con la matita al posto della pistola! E i suoi disegni hanno il potere di creare o modificare la realtà. Il suo ruolo sarà determinante nella lotta contro il Re Rosso, antagonista principale di Roland in questo volume.

La Torre Nera” è il settimo e conclusivo volume della saga, sebbene ci sia un ottavo che racconta fatti antecedenti e moltissimi romanzi di King siano fortemente connessi con questi, innanzitutto l’imprescindibile “Le notti di Salem”, ma anche “Insomnia”, qui più volte citato.

Anche la saga di Harry Potter si conclude con il settimo volume e in entrambi si nota una moria impressionante di personaggi: sarà il Sette a portar loro sfiga o il fatto di essere giunti alla fine e di dover far piazza pulita?

Eppure King come la Rowling cedono alla tentazione del lieto fine.

Inevitabile, con il volume conclusivo di una lunga saga, parlare del finale e sempre i lettori si dividono tra quelli che approvano la scelta dell’autore e quelli che la disapprovano.

Vorrei cercare di dire il meno possibile in merito alla soluzione adottata da King per concludere le vicende di Roland, ma anche qui, come nel suo uso dello spazio-tempo, sono rimasto colpito dalla comunanza di visione con i miei romanzi, in particolare “Giovanna e l’angelo”.

Cercando di non entrare in dettagli, devo dire che il finale, pur unico, è, come i sosia di King, triplo. Non nel senso che King lasci tre finali alternativi, ma che per tre volte ho avuto la sensazione che la storia stesse per finire, ma il libro ha continuato ad andare avanti. La somiglianza con i miei finali, però, non è qui, ma nel fatto che il finale può essere considerato aperto, dato che molto altro ancora potrebbe succedere (ci sarebbe spazio sia per una saga prequel che per una sequel), e, soprattutto nel fatto che e è ciclico, nello stesso identico modo di “Giovanna e l’angelo”.

Che il finale (pubblicato nel 2004) non sia veramente la conclusione di questo ciclo (iniziato nel 1982 con “L’ultimo cavaliere” e a cui King e i suoi fan sono particolarmente affezionati) è dimostrato non solo dalla pubblicazione nel 2012 di un nuovo episodio, “La leggenda del vento” (sebbene, a quel che leggo, narri fatti antecedenti il settimo), ma dall’appendice che segue il finale. Anche qui King mi ha stupito, anticipando i miei desideri di lettore. Leggendo i primi sei volumi, in effetti, ero stato incuriosito dalle citazioni di “Childe Roland alla Torre Nera giunse” di Robert Browning, ma proprio finendo di leggere “La Torre Nera” mi è venuta una particolare voglia di leggere quest’opera (e avevo persino pensato di pubblicarla sul mio blog). Ebbene, King piazza il poema di Browning proprio alla fine del romanzo, là (temporalmente parlando) dove avrei voluto trovarlo!

Prima del “terzo finale” King blocca la macchina da presa, sale sul palco e si rivolge direttamente ai lettori per dir loro che in un romanzo il finale non è importante, perché un romanzo è come la vita, come un’avventura: va vissuto, va amata la strada che percorriamo assieme, non la meta, non la conclusione, non il finale, perché il finale è l’addio, la fine, la morte (dov’è il tasto per “condividere”?). Sarebbe come vivere una vita con l’obiettivo di morire! Invita allora il lettore a scegliere di fermarsi lì, di accontentarsi di quel finale aperto oppure di andare avanti (ma lo sconsiglia) e di affrontare il vero addio della storia. Ma King, come si diceva, non ama gli addii e il suo non lo sarà!

Tante profezie di insuccesso avevo subito, ero stato iscritto

Tante volte nella <<Banda>>, uno cioè dei cavalieri

Che volsero i passi alla ricerca della Torre Nera,

Che mi sembrava giusto fallire come loro,

E ora mi tormentava il dubbio: ne sarò capace?

(“Childe Roland alla Torre Nera giunse” di Robert Browning)

STORIE NATE DA UN MAZZO DI CARTE (ANZI DUE)

L’idea di scrivere un racconto lasciandosi ispirare da delle figure è senz’altro interessante e affascinante e, al giorno d’oggi, credo possa considerarsi quasi come un tipico esercizio da scuola di scrittura creativa. Io stesso mi sono trovato a scrivere lasciandomi ispirare da qualche dipinto.

Se anziché prendere una singola immagine, ne prendiamo alcune in serie, la storia può svilupparsi in modo suggestivo.

Delle immagini che possono svolgere questa funzione sono quelle delle carte da gioco. Quelle francesi possono ispirare fino a un certo punto, avendo ben poco più che tre sole figure, re, regina e fante, in quattro diverse varianti e altrettanti segni (o simboli). Le carte napoletane fanno la pari con queste, sebbene dispongano di una grafica più fantasiosa e di una diversa simbologia, oltre che di una tripletta un po’ diversa (re, regina e cavaliere).

Derivati dalle carte napoletane, ci sono però i tarocchi, che ai quattro semi aggiungono alcune figure ricche sia di significato, sia di allusioni visive: gli Arcani Maggiori (un tempo detti Trionfi), 22 carte (o Lame) che si sommano alle 56, dette Arcani Minori, che, similmente ai citati mazzi di carte da gioco, sono divise nei 4 semi della tradizione italiana. Le figure qui sono 4 (Re, Regina, Cavaliere e Fante) e le carte numerali 10.

Tale ricchezza rende queste carte adatte non solo al gioco, ma anche alla divinazione. La narrativa segue, in fondo, meccaniche interpretative non molto diverse.

Gli Arcani Maggiori sono: Il Bagatto, La Papessa, L’Imperatrice, L’Imperatore, Il Papa, L’Innamorato, Il Carro, La Giustizia, L’Eremita, La Ruota della Fortuna, La Forza, L’Appeso, La Morte, La Temperanza, Il Diavolo, La Casa di Dio, La Stella, La Luna, Il Sole, Il Giudizio, Il Mondo e Il Matto.

Come si può ben capire da questo elenco, nel mazzo si nascondono numerosi personaggi, situazioni, ambientazioni. Il gioco di prendere alcune carte e leggerle una dietro l’altra per raccontare una storia, sia essa la divinazione della cartomanzia o opera narrativa sorge spontaneo.

A tale esperimento si è prestato uno dei massimi autori italiani, Italo Calvino, che ammiriamo per ben più felici prove, che nel volume “Il castello dei destini incrociati” si destreggia con ben due mazzi, uno di fattura più raffinata con cui dà luogo alla serie di racconti che dà il nome al volume, e uno di fattura più rozza, che dà vita alla serie di racconti de “La taverna dei destini incrociati”, parte del medesimo volume.

Il meccanismo delle due raccolte è il medesimo: alcuni avventori si ritrovano nel primo caso in un castello e nel secondo in una locanda, tutti privi della voce. Alcuni di loro prendono a narrare la propria storia scegliendo alcune lame dei tarocchi e mostrandole una dopo l’altra. Il narratore, come un cartomante, interpreta per noi la loro vicenda. Le storie si intrecciano, alcune carte vengono usate da diversi avventori in modo differente.

Ritroviamo attorno ai due tavoli le vicende di alcuni personaggi ben noti, quali Elena di Troia, i paladini Orlando e Astolfo, Carlo Magno, Faust, Edipo, accanto ad altre vicende di figure che restano anonime, pur rivelandosi nelle vesti esemplari di cavalieri, principesse, vampiri, briganti, streghe o altro.

La forma narrativa appare, di conseguenza, un po’ distante, sia perché si ascoltano narrare eventi passati e non si vivono direttamente, sia per lo sforzo interpretativo simulato dal narratore, sia per il continuo spostarsi dell’attenzione dalle carte alla vicenda narrata, che all’inizio appare suggestiva,  ma che dopo i primi racconti, comincia un po’ ad annoiare, essendo il meccanismo ormai ben chiaro. Oltretutto il secondo gruppo di racconti riprende la medesima struttura del primo, portandoci solo all’ulteriore sforzo di immaginare un diverso mazzo di carte, con un diverso tipo di disegni per le medesime figure.

Nelle intenzioni originarie di Calvino c’era la volontà di farne anche una terza parte (“Il motel dei destini incrociati”), utilizzando questa volta non dei tarocchi ma le vignette dei fumetti, riordinate per descrivere storie diverse. Tale trovata (non realizzata), avrebbe però avuto il difetto di usare come mattoni delle storie elementi meno certi, definiti e riconoscibili, quali invece sono le 78 lame dei tarocchi, carte non certo diffusissime, ma note e riconoscibili.

Se l’esperimento all’inizio incuriosisce, il suo protrarsi però non mi pare giovi all’attenzione del lettore, nonostante le possibili numerose varianti e le citazioni dotte.

L’ECCLETTISMO DEL RE

Risultati immagini per stephen king i lupi del callaCredo che ben pochi autori sarebbero in grado di mescolare fantascienza, western, romanzo gotico, ucronia e fantasy. Ci vuole una grande penna per fare questo, un “re” della tastiera. Probabilmente ci vuole uno che si chiami King, Stephen King. Quello che ha fatto nel romanzo fiume che potremmo chiamare “La Torre Nera” e che riunisce ben otto lunghi romanzi di grande ecclettismo e poliedricità.

C’è ancora qualcuno che, quando gli dico che sto molto apprezzando questo autore, storce il naso e risponde che non ama l’horror. Certo King è quello di “Carrie” e “Shinning”, ma non potrebbe esserci errore (eresia?) peggiore di definirlo un autore horror. I suoi romanzi sono solo apparentemente di genere, tanta è la loro ricchezza e tanto in essi i generi sono mescolati, e solo talora, direi, sono davvero horror.

Per ora ho letto solo alcune delle sue opere, ma più vado avanti è più apprezzo la grandissima fluidità di scrittura, che gli permette di dilatare delle storie per centinaia o migliaia di pagine (come per “La Torre Nera”) senza creare mai momenti di noia o di fiacchezza. Del grande autore horror ha la capacità di tenere sempre altissima l’attenzione, ma questo lo fa con storie di bambini come il romanzo “La bambina che amava Tom Gordon”, in storie sullo spirito profondo delle nostre paure come “It”, in ucronie geniali come “22/11/’63”, in romanzi gotici come “Salem’s Lot”, che sono anche affreschi di vita di provincia americana, in thriller psicologici come “Mr Mercedes”, con i racconti di “Tutto è fatidico”, in uno dei quali compare anche Roland di Gilead in un momento antecedente la saga de “La Torre Nera”.

Leggendo il primo romanzo della serie “L’ultimo cavaliere”, che ci parla di infinitamente grande e infinitamente piccolo, di passato che è futuro, l’avevo definito un western-fantasy; leggendo il secondo romanzo “La chiamata dei tre”, mi ero appassionato vedendo mutare quel mondo pseudo-western in un immaginifico mondo fantascientifico con aramostre e porte del tempo, in una storia che ci parla di schizofrenia, droga, follie omicide; leggendo il terzo volume “Terre desolate” veniamo proiettati in un capolavoro fantascientifico popolato da antiche macchine pensanti che è un vero trattato narrativo della schizofrenia; leggendo il
quarto “La sfera del buio” ci ritroviamo nella medesima atmosfera del precedente per poi essere proiettati in un America ucronica.

Sono così, infine, giunto a leggere il quinto volume della serie “I lupi della Calla”. La storia narrata segue immediatamente quella di “Terre desolate”, eppure precede anche quella dell’ottavo volume “La leggenda del vento” e persino il secondo romanzo scritto da King “Salem’s Lot” o “Le notti di Salem” (1975).

Il primo volume è del 1982. “I lupi della Calla” è del 2003, l’ottavo volume è del 2012, a testimonianza del ricorrente impegno dell’autore su questa storia.

Vi compare (grazie all’amore di King per i collegamenti tra le proprie opere) per la prima volta nella saga un nuovo personaggio l’ex-prete Pére Callahan, che già avevamo incontrato ne “Le notti di Salem”, ma i riferimenti a opere di altri autori sono numerosissimi, dall’omaggio all’altra grande autrice del nostro secolo, che si ritrova nel nome delle bombe volanti intelligenti dette “Harry Potter”, in ricordo del famoso boccino da Qidditch inventato dalla Rowling, a quello a “2001 Odissea nello Spazio” di Clarke nel confronto tra il robot Andy e l’ex-eroinomane Eddie, alle spade laser di “Guerre stellari” a “Uomini e topi” di Steinbeck, all’”Ulisse” di Joyce a Elton John. Ci sentirei persino un po’ di Isaac Asimov, con la scomparsa dei robot, che caratterizza il passaggio dal ciclo dei robot a quello della Fondazione.

La vera ispirazione di questo volume sono però, soprattutto, “I sette samurai” di Akira Kurosawa e il loro remake americano “I magnifici sette”, vera ispirazione di questa storia in cui il pistolero Roland (che fa pensare allo Yul Brinner del film), affiancato da un improbabile quartetto composto dall’ex-tossicomane Eddie, dal ex-prete ubriacone Callahan, dalla schizofrenica Susannah priva delle gambe, al bambino Jake, per non parlare dello strano animaletto parlante simil-cane Oy, si preparano ad affrontare l’arrivo, che si ripete a ogni generazione nella valle di Calla Bryn Sturgis, di un’orda di esseri famelici, chiamati Lupi, per la maschera lupina che indossano sul volto, ma che si sospetta possano essere zombie inviati da vampiri o vampiri loro stessi.

Troviamo, insomma, in questo volume, grande esempio di mescolanza di generi, il romanzo gotico con vampiri, licantropi (richiamati se non altro dal nome delle misteriose creature), zombie, robot, pistoleri, donne guerriere lanciatrici di piatti fatali, gangster, bibliofili, viaggi nel tempo, mondi onirici. Insomma, tutto il fantastico concentrato con innegabile maestria in qualche centinaio di pagine!

La lotta contro i lupi si pone come un intermezzo necessario nella ricerca della Torre Nera, vera missione di Roland di Gilead, che non viene accantonata. Nelle loro escursioni – tramite “contezza” (qualcosa che mi fa pensare a la mia “La bambina dei sogni”, in cui, pure, guarda caso, compare una Torre Nera) o porte del tempo – nella New York del XX secolo, infatti, i nostri eroi hanno modo di difendere dai gangster il bibliofilo Calvin Torre (che, forse, è un richiamo a “La prosivendola” di Pennac oltre ad avere nel proprio nome il suffisso “Cal” che accomuna il villaggio e il prete e il nome della meta di Roland “Torre”). Calvin Torre è, infatti, il difensore,
forse inconsapevole, della Rosa, che, a sua volta, potrebbe essere la chiave per salvare la Torre Nera.

Nel volume non manca la minaccia dell’arrivo di una gravidanza diabolica, che fa pensare a “Rosemary’s Baby” di Ira Levin, ma di questo probabilmente sapremo di più nel prossimo volume, la cui lettura faticherò a rimandare ancora per un po’.

 

 

Stephen King

QUATTRO STORIE D’AMORE

Ho conosciuto Evelyn Storm quando ha partecipato, come illustratrice alla “gallery novel” “Jacopo Flammer nella terra dei suricati”. Quando ho scoperto che questa ragazza, oltre a disegnare, aveva anche scritto un libro, incuriosito dalla sua versatilità, ho voluto leggerlo.

 

Evelyn Storm nel volume intitolato “La voce del sentimento”, tramite quattro racconti lunghi, quasi con il respiro del romanzo breve, ci parla dell’amore sentimentale.

 

Il primo (“Ricominciare”) è una bella storia sui sensi di colpa. Una storia ambientata ai giorni nostri, prevalentemente in un bosco, luogo che trasporta la narrazione in una dimensione atemporale, in cui quello che conta non è il contesto ma, soprattutto, le emozioni dei personaggi, innanzitutto la protagonista che vediamo prima bambina alle prese con il senso di colpa per la morte del proprio gatto, quando comincia a stringere la sua amicizia con l’amato Roberto. La ritroveremo poi, anni dopo, sempre con Roberto durante un incidente nel bosco, che sarà causa per la ragazza di assai maggiori sensi di colpa. Questi affliggono anche un altro Roberto, del tutto uguale al primo, fino al punto di spingerlo a rivelarsi alla giovane, tre anni dopo, nel solito bosco. Chi è questo secondo Roberto? Stesso nome, stessa età, stesso aspetto, stesso profumo. È il primo Roberto morto nel bosco che ritorna? È un “regalo” del primo Roberto alla sua amata, come lei vorrebbe credere? È un pazzo psicotico che intende perseguitarla? È un nuovo amore che nasce dai sensi di colpa per superarli? È una proiezione di una memoria impazzita? Una metafora? Questa figura enigmatica, figlia del senso di colpa, penso, valga la lettura dell’intero volume e ci fa sperare in altre sorprese soprannaturali.

 

Non stupisce, dunque, che la seconda storia (“Patto di sangue”) narri di vampiri, demoni, streghe, fate, in una vicenda che inizia nel medioevo e si prolunga fino ai giorni nostri. Più che dalle parti del romanzo gotico alla Lord Byron, Polidori, Stoker, Le Fanu, Mistrali o magari della Rice siamo nel territorio delle avventure amorose dei vampiri della Meyer, nuovo filone romantico rosso sangue che da qualche anno imperversa e in cui le creature della notte non sono più apportatrici di orrore e angoscia come nel XIX secolo, ma amanti sanguinari e pericolosi. Qui non appare centrale l’amore di una mortale con un vampiro alla McCullen, ma quello di una vampira con un demone e ci si stupisce di vedere le prodezze di due amanti tanto immortali e feroci, consumarsi, dopo un classico corteggiamento, tra domestiche doccia e camera da letto, anziché su letti di lava infuocata o nel ribollir sulfureo di qualche solfatara, segno di una sempre crescente umanizzazione di queste creature la cui evoluzione letteraria ha ormai reso non più tanto oscure.

 

Anteprima. “La Voce del Sentimento” di Evelyn Storm

Evelyn Storm

Il terzo racconto (“Destini incrociati”) narra di un ragazzino, considerato un po’ effeminato, che si dibatte tra i suoi due grandi desideri: diventare un ballerino hip-hop e trovare l’anima gemella. Riuscirà a esaudire il secondo, grazie a una splendida ragazza russa che, solo per un attimo vedremo vacillare lasciandosi sfuggire una frase da pazza, che già ci fa immaginare il protagonista vittima di sue follie future, ma il ragazzino sorriderà, considerando questa piccola pazzia un segno di “umanità” della ragazza e in breve la storia scivolerà verso un inatteso lieto fine, seppure aperto verso un futuro che, si spera, potrebbe mostrarsi incerto. Attendiamo speranzosi un sequel dagli sviluppi horror!

 

Evelyn Storm

Il quarto racconto (“Amore, desiderio e… ghiaccio”) ci mostra una ragazzetta che viene aiutata nel corso di una lite con il fidanzato, di cui vorrebbe liberarsi, da un tipo prestante e dai suoi cinque amici. Il moderno cavaliere dall’armatura scintillante (metaforicamente parlando) ne catturerà subito il cuore, nonostante un atteggiamento un po’ tracotante, di uno che sembra guardrea il mondo dall’alto e con i suoi suggerimenti sembra quasi la leggendaria Maria Antonietta che consigliava al popolo senza pane di mangiare brioches. Eppure, questa figura comparsa dal nulla, si rivelerà per la ragazza l’amore della sua vita, oltre che, come lei, un amante del pattinaggio su ghiaccio. Sarà tramite un travestimento (guarda caso vampiresco) che riuscirà a rapirle il cuore.

 

Insomma, quattro storie che ci parlano della nascita dell’amore, un amore spesso adolescenziale (anche quando riguarda esseri immortali con centinaia d’anni alle spalle, ma aspetto da ragazzini), quattro storie che ci fanno credere, almeno per il tempo della lettura, che l’amore tra un ragazzo e una ragazza sia la cosa più importante del mondo.

Ricominciare” è, secondo me, il migliore in assoluto e avrebbe meritato di diventare un romanzo autonomo e spero che questo possa ancora essere fatto.

Peccato poi per il titolo della raccolta, che sembra più quello di una silloge di poesie e che, mi pare, si memorizza male. Avrei preferito qualcosa di più incisivo.