4 – LA VISITA
Degli aerei sogni
son due le porte, una di corno e l’altra
d’avorio. Dall’avorio escono i falsi,
e fantasmi con sé fallaci e vani
portano: i veri dal polito corno,
e questi mai l’uom non scorge indarno.
(Odissea, libro XIX – Omero)
La giornata successiva passò convulsa, tra diecimila impegni che mi impedirono di pensare a Elena.
Uscendo dall’ufficio, esitai a disagio per qualche istante sotto il portone su cui campeggiava il logo stilizzato con le due zanne d’elefante incrociate, simbolo della mia ditta. Mentre sprofondavo con la metropolitana nelle viscere inquiete della città, decisi di uscire alla fermata dell’Isola dei Bambini Perduti per sentire come stesse la piccola orfana.
Arrivai davanti all’edificio ed entrai.
– Salve – salutai – cerco la signora Maria.
– Maria come? – mi chiese la donna in portineria, alzando gli occhi da una rivista dai titoli mirabolanti, che parlavano di amori estivi di vip di celluloide dall’indegna fama, piena di foto di attricette in costume da bagno. Indossava un camice bianco, ma non aveva l’aria molto professionale: sguardo distratto, capelli raccolti dietro la testa in uno scomposto chignon, indegno della memoria di Oscar Wilde. Anche se non le vedevo i piedi, li immaginai calzati da quelle brutte ciabatte bianche da ospedale, la cui variante in plastica colorata è ora diventata tanto di moda tra le ragazzine.
– Non saprei. Sono qui per una bambina, che lei…
– Ah. Allora non vuole Maria Truzzi, la cuoca. Lei cerca l’assistente sociale: Maria Fiorini – precisò lasciando cadere di nuovo lo sguardo, per una strana forma di magnetismo, su quella rivista, che a quanto pare suscitava in lei assai più interesse della mia persona o del suo lavoro.
– Sì. Certo. – «In quanti cercano la cuoca?» Mi chiesi. Quella donna mi irritava.
– A quest’ora dovrebbe essere nell’ultima stanza in fondo al corridoio, sulla destra, quella con l’immagine di un rinoceronte – mi spiegò, tralasciando a fatica le pagine dalle foto patinate sul bancone.
Ogni stanza era identificata da una piccola figura che rappresentava un animale. Bussai a quella con il muso cornuto.
– Avanti. Ah, è lei, Il Tato! Buonasera – mi accolse Maria con un bel sorriso. Era piuttosto carina, anche se non si curava molto. L’abbigliamento non era molto diverso da quello della portinaia, ma addosso alla ragazza faceva tutto un altro effetto – La bambina ha chiesto spesso di lei – aggiunse. – Non pensavo che sarebbe tornato.
– Neanche io. Neanche io. È che… quella bambina… uhm… mi è rimasta nel cuore.
– Amore reciproco, direi… Senta, non è che le interesserebbe… beh, ecco… lo so che sto correndo troppo, ma non avrò un’altra occasione per chiederglielo: sarebbe possibile prendere i bambini in affido … per un periodo. In una famiglia per loro è un’altra cosa….
– No… Non so neppure perché continuo a interessarmi alla bambina. Non c’è nulla che ci lega. Ora lei mi sta spiazzando. Davvero non ho mai pensato ad adozioni o altro… – mentii –Non… non saprei. Credo che sia una cosa lunga, la pratica – biascicai. Cercavo di difendermi, ma sentivo che qualcosa dentro di me aveva già ceduto. Non ero lì per caso. Qualcosa mi ci aveva portato. Non credevo nel destino, ma quella proposta mi toccava.
– Per l’affido temporaneo? No. Niente affatto. Una settimana. Due al massimo. Sempre che lei sia sposato, abbia un lavoro e una casa, nessun precedente giudiziario… Il tribunale può decidere d’urgenza per un collocamento presso una famiglia.
– Sì. Sono in regola. Ho tutti i visti e non ho ucciso nessuno per ora, non nel corso dell’ultimo anno. Quanti punti tolgono per un omicidio? – scherzai, non lasciandole il tempo di raccogliere la battuta, che già mi pareva fuori luogo – ma è che… che davvero… davvero mi pare un impegno troppo grosso, poi uno… uno finisce che… – mi stavo confondendo.
– Lei ci pensi su. Ho voluto parlargliene perché stare in famiglia per un bambino è sempre meglio. Ora venga a salutare la piccola. Sarà contenta di vederla.
La ragazza mi precedette. Anche da dietro Maria non era male, nonostante quel camice bianco. O, forse, grazie a quello, non saprei. La osservai camminare lungo il corridoio. Per fortuna non portava quelle orrende ciabatte che avevo immaginato addosso alla donna in portineria! Indossava invece delle Nike bianche (mi ostino a leggere niche, come la vittoria alata, non naichi, pronuncia americana che mi fa venire i brividi).
Mentre percorrevo quel corridoio, per un attimo ebbi la sensazione che tutto quel che c’era fuori da lì, la città frenetica, il mio lavoro, la politica, l’economia fosse lontanissimo e non avesse relazione con me. Per alcuni istanti mi parve che la mia vita fosse tutta lì.
Maria aprì la porta. Entrammo in un’altra stanza, quella del cervo.
La piccola stava seduta in un angolo, con una bambola in braccio. Non giocava. Teneva la bambola senza cullarla e senza guardarla. Come mi vide, parve illuminarsi. Si alzò dalla minuscola sedia montessoriana, corse verso di me e m’abbracciò, mentre mi chinavo verso di lei per accoglierla al volo.
Forse me l’aspettavo, ma la cosa mi sorprese. Non capivo come mai si fosse creato questo strano feeling. Cosa le avevo fatto, in fondo? Perché mi trattava come se fossi suo padre? Ero solo uno sconosciuto e non ero stato né particolarmente simpatico, né affettuoso con lei. Un’altra bambina si sarebbe già dimenticata di me.
– Non tornavi più – mi rimproverò.
– Hai ragione ma, sai, ho tante cose da fare.
– Ho conosciuto la tua bimba – mi sorprese Elena.
– Come? – chiesi allibito. Avevo capito che parlava di mia figlia. Qualcosa dentro di me sobbalzò.
Ancora una volta, come il giorno che l’avevo conosciuta, mi trovavo a pensare che quella bambina stesse fantasticando, ma la stessa allusione di Laura a un loro contatto mi fece sentire le ginocchia molli.
– Sì. L’ho sognata.
– Ah! – risposi sconcertato.
– Mi aspetta. Siamo sorelle.
Quelle parole mi presero alla gola come una morsa. La stessa idea di Laura. Come se avessero fatto lo stesso sogno. Come se si fossero sognate a vicenda o si fossero messe d’accordo.
– Laura mi piace – aggiunse.
Trasalii. Sapeva il nome di mia figlia, come Laura sapeva il suo! Questo era troppo! Troppe coincidenze. Poi, mi ricordai di averle parlato di lei. Forse le avevo detto anche come si chiamava. Certo. Dovevo averglielo detto io, però non me ne ricordavo. Per nulla. Ma doveva essere così. Lei se l’era ricordato. Per certe cose i bambini hanno una grande memoria.
– Mi porti da Laura? – chiese.
– Un’altra volta, magari. Oggi non si può.
Avrei voluto chiederle come si trovasse in quel posto, se stesse bene, ma preferii non farlo. Avevo paura della risposta e del ripetersi della richiesta che ne sarebbe derivata.
Anche questa volta non fu facile lasciarla.
Maria mi accompagnò fuori dalla stanza. Aveva un gradevole profumo di fresco, qualcosa a metà tra il talco e il biscotto. Molto adatto a quel posto. Mi piaceva il suo profilo affilato e dolce nel contempo.
– La bambina le vuole molto bene – disse con partecipazione.
– Non ce n’è motivo. Ci siamo solo incrociati per caso. Non mi conosce affatto.
– I bambini hanno una diversa percezione delle cose. Il tempo per loro è diverso. Sono per i colpi di fulmine – mi sorrise e provai un brivido: mi era parso quasi di cogliere un’allusione in quelle parole e in quello sguardo.
– Quanti anni ha sua figlia? – Chiese poi.
– Sei.
– È l’età giusta.
– Giusta per cosa? – chiesi sospettoso.
– Una bambina più piccola in casa non creerà conflitti. Sua figlia resterà sempre la primogenita, la padrona degli spazi domestici. Potrebbero star bene assieme. Anche a sua figlia farebbe piacere avere una sorellina, vedrà. Mettere in casa un nuovo bambino più grande del proprio cambia le gerarchie della famiglia e può essere più difficile, ma così questo problema non c’è.
Avevo la fastidiosa sensazione di parlare con una piazzista che cercasse di vendere la propria merce e l’ancor più fastidiosa sensazione di non riuscire a resistere alle sue lusinghe.
Ricorsi alla più banale delle scappatoie, ma che, in fondo, era proprio la verità e, nel contempo, la più pesante delle ragioni:
– Mia moglie – e con questa parola mi difendevo anche dall’attrazione verso Maria – non accetterebbe mai. Non potrei. In fondo è lei quella che sta di più con le bambine… cioè, volevo dire, con nostra figlia. Non posso sobbarcarla…
– Ci pensi. Pensateci. Fareste felice anche vostra figlia. In due stanno meglio. Elena è una bambina molto dolce. Vi troverete bene con lei.
– Forse troppo… – bisbigliai – e poi? Come andrebbe a finire? Come faremmo, quando qualcun altro la adottasse? Sarebbe un dolore per tutti.
Maria mi sorrise, ma non aggiunse altro. Capiva anche lei di non poter insistere. Quando sorrideva gli occhi le s’inumidivano e diventavano radiosi.
Me ne andai con la testa piena di pensieri e immagini: Maria, Elena, un diverso futuro, una famiglia diversa, più grande, più viva. Ero confuso e disorientato. Le cose che non riuscivo a spiegare mi lasciavano agitato. In strada rimasi immobile davanti al semaforo verde e solo quando tornò rosso e il fiume d’auto riprese a scorrere davanti a me, mi scossi. Quella bambina m’inquietava.
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