“Amazonia” è il catalogo della splendida mostra di fotografie di Sebastiao Salgado vista al Museo del Vapore di Milano il 20 Maggio 2023. Non solo immagini di grande potenza visiva, nell’elegante bianco e nero, ma anche molto istruttivo sulla vita delle popolazioni dell’Amazzonia, tanti popoli all’apparenza simili ma con importanti differenze. Un modo di vivere che non si penserebbe sia ancora possibile nel XXI secolo: cacciando e mangiando scimmie, pescando pesci con il veleno (ammalondosi quindi inevitabilmente). Un territorio purtroppo devastato, portando in crisi la vita indigena.
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25 Mag
L’AMORE NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO AMERICANI
Sappiamo tutti che la Storia la scrivono i vincitori, in particolare la Storia di guerra. Colpisce sempre, però, quando

capita di affrontarla da un altro punto di vista. Da decenni ormai gli indiani non sono più i cattivi nei western, ma altri cambi di prospettiva faticano a realizzarsi. La Seconda Guerra Mondiale forse c’era ancora troppo vicina perché qualcuno ne rovesciasse le prospettive.
Non parlo certo di pretestuosi negazionismi, ma del portare in evidenza colpe nascoste dei vincitori. L’orrore dei campi di sterminio nazisti, per esempio, non dovrebbe farci dimenticare che c’erano campi di concentramento anche nella “libera” America, in cui furono deportate intere famiglie di cittadini americani, colpevoli solo di essere di origine giapponese: uomini, donne, vecchi e bambini.
“Il gusto proibito dello zenzero” di Jamie Ford (Eureka, California, 9/7/1968) non è un romanzo di denuncia e non è stato scritto da un giapponese, ma una storia d’amore alla Romeo e Giulietta, dove gli amanti non sono divisi dalle divergenze familiari ma da quelle dei popoli d’origine. Henry e Keiko sono, infatti, entrambi dei dodicenni americani, ma d’origine cinese lui, d’origine giapponese lei.
La Seconda Guerra Mondiale, che da noi tendiamo a vedere come un conflitto europeo esteso ad altre parti del mondo, nel romanzo appare come un prolungamento della guerra cino-nipponica. Quasi non si parla di tedeschi, inglesi, francesi e russi.
La narrazione ci mostra anche un diverso aspetto del razzismo americano, diverso da quello verso gli afro-americani: quello contro gli orientali.
Ecco quindi questa bella amicizia tra due ragazzini di dodici-tredici anni e un musicista jazz di colore adulto. Ecco una storia con la musica in sottofondo, che ci mostra in modo nuovo uno spaccato della provincia americana (Seattle) in due periodi, gli anni quaranta e ottanta del secolo scorso.
Mentre leggevo la mente mi correva spesso a un altro bel romanzo, “Venivamo tutte per mare” di Julie Otsuka, che ci narra come, a bordo di una stessa nave, siano arrivate in America tante ragazze giapponesi per sposarsi con un marito conosciuto per corrispondenza, che in America hanno vissuto e che allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale sono diventate il nemico, sono state rinchiuse in ghetti e lager o scacciate, perdendo tutto quello che avevano creato con

anni di vita e lavoro.
Anche la giovane protagonista de “Il gusto proibito dello zenzero”, che neppure conosce il giapponese, finirà in uno di questi lager assieme alla famiglia e poi sarà allontanata. La giovane storia d’amore si spezzerà, come il metaforico disco a 78 giri, che appare nel romanzo, e le loro vite prenderanno strade diverse, pur restando i loro cuori uniti.
Il romanzo neppure accenna al forse ancora più grande orrore delle due atomiche sganciate su un Paese ormai sconfitto e si mantiene distaccato, senza denunciare o accusare, ma mostrando semplicemente l’ingiustizia e il razzismo nelle loro manifestazioni materiali.
Per chi volesse approfondire la Storia del conflitto da punti di vista diversi, suggerirei, per i coinvolgimenti americani nella gestione dei campi nazisti l’ucronico (ma tutt’altro che insensato) “Processo n.13” di Pierfrancesco Prosperi e, sulla scelta di bombardare la popolazione civile tedesca, la “Storia naturale della distruzione” di Winfried G. Sebald.
A proposito dell’autore, nell’intervista che chiude il volume, spiega di essere cinese ma che suo nonno adottò il cognome Ford per sembrare più americano e che la storia, per quanto inventate a alcuni collegamenti con ricordi familiari.
La traduzione italiana del titolo (“Hotel on the Corner of Bitter and Sweet”) è suggestiva e mi ha indotto alla lettura anche per la mia passione per lo zenzero, che, in realtà, vi compare ben poco, a parte un punto in cui si dice che viene utilizzato nella preparazione del gin, cosa che mi pare piuttosto strana. Semmai si usa per aromatizzarlo, non come ingrediente base.
24 Gen
LA PANDEMIA GLOBALE DEL 1978
Dopo aver letto il bel numero monografico dedicato a Stephen King dalla rivista “IF – Insolito & Fantastico” (Edizioni Odoya, 2019), mi è venuta voglia di leggere “L’ombra dello scorpione”, di cui hanno scritto in questo numero 23 soprattutto Salvatore Proietti e Roberto Risso.
Per Proietti questo romanzo è “forse la sua versione del ‘grande romanzo americano’” in cui “anche i linguaggi (a partire dal dialetto) si affastellano” e l’autore pare “sempre alla ricerca di significati multipli, contraddittori e sfuggenti”.
Dato che considero King forse il miglior autore vivente, non potevo perdermi un’opera simile, oltretutto in un momento storico come questo, in cui ce ne stiamo rintanati per paura della pandemia globale di covid-19. “L’ombra dello scorpione” (“The stand”, 1978) ci parla proprio di questo, di un’epidemia (ancor più) devastante, che decima la popolazione mondiale. Libro da far leggere a tutti gli incompetenti che osano dire che “nessuno poteva immaginarsi l’arrivo di una pandemia come questa”, quando esperti e scrittori ne annunciano l’arrivo almeno dai tempi della spagnola e ancora, probabilmente, questa non è la grande pandemia globale attesa, che dovrebbe portare almeno cento milioni di morti.
Leggo su wikipedia che “L’ombra dello scorpione (The Stand) è un romanzo post apocalittico scritto da Stephen King, pubblicato nel 1978. Il romanzo sviluppa l’ambientazione già presente nel racconto Risacca notturna e presenta per la prima volta l’antagonista per eccellenza di King, Randall Flagg, che apparirà anche in Gli occhi del drago e nella saga della Torre Nera. Nel 1990 ne è stata pubblicata una “Edizione integrale” (The Stand: The Complete & Uncut Edition), datata febbraio 1975 – dicembre 1988.”
Ne ho letto tale versione completa.
Devo dire che, forse, partivo con troppe aspettative verso questo romanzo, che, nella sua prima parte mi è parso un po’ troppo mainstream, storia di provincia americana, con tanti (troppi) personaggi, ognuno con una sua bella storia e profondità ma che stentano a confluire, come avverrà dopo molte pagine, in una narrazione unitaria. Diciamo che è un romanzo “corale”, ma in questo non mi è parso il migliore che ho letto. Meglio, per dirne uno, “Invasione” di Turtledove. Persino la malattia, ora che la stiamo già vivendo, mi è parsa fin troppo
“normale”. Poi, King prende velocità, compare l’uomo nero, compaiono un po’ di poteri ESP, la storia prende una sua unitarietà e un suo perché. Mi chiedo se non mi sarebbe piaciuta di più la versione breve del 1978, forse sì, anche se nessuna pagina in King è senza contenuti o emozioni, ma una maggior densità di trama non avrebbe guastato. Certo, andrebbe ormai letto in una prospettiva storica: nel 1978 era un romanzo che annunciava un futuro distopico che poteva parere fantascientificamente impossibile e la sua carica di novità era certo diversa.
Ho adorato la serie della “Torre nera”. Anche questa saga parte un po’ al rilento e se mi fossi fermato al primo volume, non avrei potuto apprezzarla. Altre volte, invece, King riesce a partire subito in quinta. Pensando alla “Torre Nera”, si dice Randall Flag, l’uomo in nero, sia lo stesso lì e qui, ma a me pare che lì sia quasi un altro personaggio, con altra funzione.
Anche qui abbiamo un “mondo che è andato avanti” in senso negativo. Ci sono le amicizie, che sono tra le cose più belle di King, ci sono personaggi ai margini della società con una loro dignità (il sordomuto, lo scemo, l’ultracentenaria….), c’è la violenza che ci caratterizza come specie, ci sono le armi, c’è la triste provincia americana, qui ancor più devastata, c’è la magia della mente, come spesso in King. Un grande libro importante, anche se non il migliore che io abbia letto sinora del re degli scrittori.
21 Nov
IL RE DEI BAMBINI

Dopo aver letto il bel numero monografico di “IF – Insolito e Fantastico” (n. 23 – dicembre 2019) dedicato a Stephen King, mi è venuta voglia di leggere ancora qualcosa di questo autore che considero forse il migliore tra i viventi e certo uno dei migliori in assoluto. Ho così preso un’altra “manciata” di suoi libri. Ho, dunque, ora letto “L’Istituto” (Settembre 2019), una bella storia ESP con dei bambini sfruttati da un ente segreto.
Stephen King spesso viene riduttivamente definito il re dell’horror. Non ho certo letto tutta la sua produzione, ma devo dire che ben poco di quello che mi è capitato di leggere rientrava in tale etichetta e se lo faceva aveva comunque ben altri contenuti ad arricchirlo. Sono andato su Wikipedia per vedere in che anno fosse stato pubblicato e ho letto nella prima riga “L’Istituto è un romanzo horror/fantascientifico di Stephen King, pubblicato in contemporanea negli USA e in Italia il 10 settembre 2019”. Certo Wikipedia non è il Vangelo (per chi ci crede), ma definire “L’istituto” un “romanzo horror/fantascientifico”? Preoccupato ho dato un’occhiata ai siti di Sperling & Kupfer (l’editore italiano), IBS e Amazon. Per fortuna, questa definizione non compare.
Veniamo al libro. Che cos’ha di fantascientifico? Forse, l’idea che possa esistere un istituto governativo americano che sfrutta le capacità psioniche (telepatia, telecinesi e precognizione) per propri fini e, in particolare, che possa essere previsto il futuro. Tutto ciò rientra, però, più nel genere paranormale, anche se vi è chi sostiene che i poteri ESP (Extra-sensory perception) abbiano un fondamento scientifico.
Quello che non vi trovo per nulla è l’elemento horror. Certo, i bambini, per potenziare i propri poteri, sono sottoposti a torture, ma King non indulge nei dettagli, né cerca di spaventare e in ogni caso sono quantitativamente marginali. Sarebbe come definire horror un romanzo sui campi di concentramento tedeschi, sui lager sovietici o su Guantanamo!
In questo romanzo, invece, King si conferma un maestro nel raccontare storie con dei bambini come protagonisti, come nel mitico “It”, in “L’autunno dell’innocenza – Stand by me” o nel meno noto “La bambina che amava Tom Gordon”, e si dimostra un attento conoscitore della mente umana e delle interrelazioni personali. I bambini per King non sono mai personaggi caricaturali, ma piccoli adulti, con grandi capacità potenziali che il pericolo e la difficoltà sanno tirar fuori. Bambini capaci di forti affetti e grandi amicizie, in cui la solidarietà può essere un’arma potente (qui esemplificata – e direi quasi metaforizzata – dal cerchio delle menti che attiva il “grande telefono”).
Che genere di romanzo è, dunque, “L’istituto”? Direi un ottimo thriller ESP.

Per chi ha già letto precedenti capolavori di questo autore, forse aggiunge poco, ma letto a sé, rimane comunque una splendida prova narrativa.
Un altro tema kinghiano che qui ricorre è la possibilità di mutare il futuro, già rappresentato in modo esemplare nella splendida ucronia fantascientifica “22/11’63”, con cui dimostra che mutare la storia in meglio a volte può avere conseguenze catastrofiche.
Non manca poi, come in altre opere, la descrizione della triste provincia americana, di un sud armato e sempre pronto a farsi giustizia da solo.
King non delude mai.
4 Apr
CARVER, MINIMALISTA MA NON TROPPO

Raymond Carver
Sono passati ormai sette anni da quando lessi “Il mestiere di scrivere”, una raccolta di scritti di Raymond Carver sulla scrittura. Ricordo che il volume, per quanto stimolante, non mi convinse del tutto, per la semplice ragione che intuii una profonda diversità tra la concezione della scrittura di Carver e la mia. Lui legato al racconto, al realismo, alla “gravità”, io che preferisco il romanzo, il fantastico e ricerco invano la leggerezza. Diciamo come consigli di scrittura preferisco e trovo assai più utili quelli di un genio come Stephen King (“On writing”) che i libri li sa scrivere davvero, li vende alla grande e si fa adorare da milioni di fan, o magari quelli, letti di recente, dei nostrani Ciampi, Agostinelli e Barbini (“Parole in viaggio”).
Mi ripromisi allora di leggere qualcosa di questo maestro di scrittura, ma come spesso avviene per letture “doverose” ma verso le quali non mi sento portato, sono passati così vari anni prima che ritrovassi quasi per caso un e-book selezionato tempo prima e lo cominciassi: “Principianti” (versione integrale di “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, prima versione tagliata ed editata da Lish).
Si tratta, come per “Il mestiere di scrivere” di una raccolta di scritti non nati per stare assieme in un volume. Lì erano articoli e piccole lezioni, qui si tratta di racconti.
Ebbene, come scrive questo Carver? Di sicuro bene, con tecnica e una certa creatività narrativa. Devo, anzi, dire che dai suoi consigli di scrittura mi sarei aspettato uno più legato alla quotidianità del vivere, mentre i suoi racconti, pur plausibili e realistici, ci parlano di situazioni ai limiti dell’ordinario (non certo “ai confini della realtà”, però), da storie di vita di coppia o familiari, al bambino investito da un’auto, a vicende di caccia, a piccole (neanche troppo) violenze domestiche. Insomma quando ne “Il mestiere di scrivere” affermava “Secondo me, la trama, una linea narrativa, è molto importante. Sia che scriva poesie oppure prosa, cerco sempre di raccontare una storia”, non lo diceva per dire e questo è la base di ogni buon libro, anche se alcuni lo dimenticano.
C’è l’America di provincia (che come ambientazione mi sta piuttosto antipatica a meno che non ne parlino McCarthy, King, Lansdale o altri del loro calibro), c’è del minimalismo narrativo, eppure, mi pare, che l’attenzione al dettaglio sia tutt’altro che marginale. Sarà, forse, che nella precedente versione di quest’antologia c’era la pesante mano dell’editor Lish, che ha tagliato senza pietà, mentre in questa che ho letto no. Forse, allora il minimalista era l’editor!
26 Mar
UNA STORIA DI GENTE IN QUARANTENA

John Kilian Houston Brunner (Preston Crowmarsh, 24 settembre 1934 – Glasgow, 26 agosto 1995)
“Il gregge alza la testa” è un romanzo di fantascienza sociologica distopica di anticipazione dell’autore inglese John Brunner, pubblicato nell’ormai lontano 1972, ma che descrive un mondo che somiglia in parte al nostro presente di infettati da covid-19, con la sua gente che non può uscire di casa senza le maschere filtranti, che si accaparra le scorte di cibo, che muore di mille malattie diverse, che non capisce che cosa succede; ma è anche un mondo che minaccia di essere maledettamente simile al nostro prossimo futuro con l’aria e l’acqua inquinata, con sostanze tossiche in giro ovunque, con grandi aziende che mentono per nascondere le proprie responsabilità, con uno stato di polizia giustificato dalla necessità di mantenere la quarantena.
La vicenda ruota attorno a dei fusti di sostanze velenose che, a causa di un terremoto, si riversano nell’ambiente, finendo soprattutto nel cibo destinato al terzo mondo. I prodotti contaminati portano la popolazione alla follia. Sorgono sospetti di guerra batteriologica. Alcune persone si organizzano per protestare prendendo come bandiera un tale, che però non è la loro vera guida, un certo Train, che viene incriminato per colpe non sue.
Romanzo, dunque, da leggersi, specie in questi giorni che, come i protagonisti, siamo bloccati in quarantena, per il messaggio di allarme che getta sulla nostra incapacità di gestire questo pianeta, anche se francamente l’azione è fiacca e, salvo alcune parti più brillanti o, soprattutto, di una crudezza scioccante, non riesce a tenere sufficientemente desta l’attenzione. Forse, perché come scrittura è già un po’ datato, forse perché la vita in quarantena, come stiamo sperimentando, non è certo la più elettrizzante.
Comunque, da leggere e conoscere.
18 Lug
IL RE DELLA MENTE
Sono davvero pochi gli autori intensi come Stephen King. Di norma preferisco i romanzi ai racconti ma persino in un’antologia come “Stagioni diverse”, Stephen King dimostra la sua assoluta superiorità non solo rispetto ai contemporanei ma alla maggioranza dei romanzieri di ogni tempo. Va detto che questi quattro racconti sono così lunghi da potersi definire romanzi brevi (neanche poi tanto brevi a dir il vero) e questo certo aiuta l’autore a dare a personaggi e trama la grande profondità psicologica che sempre lo distingue come gran conoscitore degli aspetti più oscuri della mente umana.
“Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank” è una magnifica storia carceraria di un bancario finito ingiustamente in carcere. L’ambiente del penitenziario crea in chi ci vive uno straniamento particolare e sembra quasi di leggere storie ambientati in altri mondi. Sorprende in King la capacità di inserire una gran quantità di dettagli mai inutili, ma sempre funzionali a una forte caratterizzazione della storia principale, senza diventare mai prolisso. Tutto è utile alla storia. Notevole la caratterizzazione sia del protagonista che del narratore, singolare la loro amicizia, affascinante la resistenza e la determinazione del protagonista.
“Un ragazzo sveglio” ci racconta di un ragazzino che va a caccia, a metà degli anni ’70, di criminali nazisti, ne trova uno e ci instaura un rapporto speciale, dapprima riuscendo persino ad assoggettare psicologicamente il vecchio gerarca, ma poi sviluppando in modo coerente eppure sorprendente, questo rapporto in qualcosa che diventa amicizia e collaborazione. Forse parte un po’ lentamente e l’episodio del gatto bruciato nel forno mi è parso un po’ sopra le righe, ma King realizza, nella prima parte, un altro capolavoro psicologico. Nella seconda parte mi pare, invece, che si faccia prendere un po’ la mano con la vicenda dei barboni assassinati. Diciamo che il profilo psicologico di un nazista che dirige un campo di concentramento mi pare diverso da quello di un serial killer di barboni e non credo che l’uno possa diventare l’altro. Se non altro perché il primo si muove in un contesto gerarchico, sociale e di regole che lo supporta e lui rispetta, mentre il secondo si muove in autonomia e contro ogni regola. Se, però, accettiamo questo sviluppo, la storia è certo avvincente e si evolve con originalità, riprendendo più volte slancio anche quando si ha l’impressione che possa essere ormai conclusa.

Stephen King
“L’autunno dell’innocenza – Il corpo (stand by me)” ha ispirato il film “Stand by me” che, quando lo vidi molti anni fa da ragazzino, mi impressionò al punto da indurmi a scrivere la prima recensione cinematografica che osassi inviare a un quotidiano (che ovviamente neppure mi rispose). Non ricordo bene che cosa mi colpì, nè che cosa scrissi, ma di certo lo trovai geniale nel suo modo di raffigurare quella fine d’infanzia da cui io stesso mi ero allora allontanato da poco.
Il ritratto di questo gruppetto di ragazzini in viaggio lungo i binari del treno alla ricerca del cadavere di un altro ragazzo morto è un esempio della capacità di penetrazione psicologica di Stephen King, questo autore che ha magistralmente raccontato la schizofrenia della colossale saga della “Torre nera” e che qui, ancora una volta dimostra di essere un fine conoscitore della mente umana e dei suoi meccanismi, soprattutto quelli legati alla paura.
Eppure questo terzo racconto, leggendolo oggi, mi è parso più lento e meno efficace dei due che lo hanno preceduto. Non mi hanno convinto, in particolare, le descrizioni troppo lunghe delle vite familiari dei ragazzini (non credo che nel film fossero così marcate). Nonostante questo, rimane comunque un’opera di gran lunga superiore a tante cose che si leggono in giro e, forse, sì, tutto sommato, si potrebbe dire che è un piccolo capolavoro anche questo, sebbene la qualità del volume vada progressivamente decrescendo dal primo al quarto racconto.
“Una storia d’inverno – Il metodo di respirazione” che chiude la raccolta è un racconto che racchiude al suo interno un altro racconto. Nel primo si parla di uno strano club che forse non è un vero club. Nel racconto che contiene si racconta di un medico che segue una donna madre nella sua gravidanza e, infine, nel parto.
Sinceramente la parte sul club mi ha persino annoiato, come se King viaggiasse in prima. Appena comincia il racconto della ragazza, ingrana subito la terza, ma comincia a farci una sorta di quadretto di come fosse difficile la vita per le ragazze madri negli anni ’30 del XX secolo e quanto arretrati i metodi medici per la preparazione al parto. Tutto molto interessante, ma poco “kinghiano”. Appena, però, si arriva al parto, King ingrana non la quarta, ma la sesta e ci troviamo davanti a un “seppur breve” momento di grandissima tensione emotiva, che forse ripaga di tutte le altre pagine.
Chiudono il volume le riflessioni di King (“Una parola di conclusione”) su come sia difficile pubblicare racconti come questi quattro perché troppo lunghi per un racconto e troppo corti per un romanzo.
“Devo dirvelo: da venticinquemila a trentacinquemila parole sono cifre in grado di far rabbrividire fino nelle ossa il più intrepido scrittore di fiction. Non c’è una definizione semplice e concisa di quello che è un romanzo o un racconto… per lo meno non in termini di conteggio di parole, né dovrebbe esserci. Ma quando uno scrittore si avvicina al limite delle ventimila parole, sa di essere sul punto di sconfinare dal paese del racconto, e ugualmente, quando supera il limite delle quarantamila parole, penetra nel paese del romanzo” scrive.
Spiega così come è arrivato a pubblicarli assieme in un unico volume. Personalmente avrei preferito pubblicarli come singoli romanzi brevi, ma lui ha molta più esperienza di me.
In questo finale, King racconta come accadde che fu etichettato (ed accettò la cosa) come autore horror, sebbene il suo editor lo sconsigliasse di seguire quella strada, poco remunerativa (cosa ben smentita dalle notevoli vendite dei suoi libri).
King è comunemente noto come “re dell’horror”. Certo lo è ma questo titolo è quanto mai riduttivo per lui. In questi racconti non c’è nulla dell’horror come lo immaginiamo, con fantasmi, vampiri, zombie. C’è semmai, come spesso è in King, l’orrore dell’abiezione della mente umana.
Il direttore del carcere che si rifiuta di verificare l’innocenza del suo prigioniero o il ragazzino che si appassiona delle atrocità dei campi di sterminio e si trasforma in un assassino ci fanno orrore, ma non certo paura. È questo l’horror di cui King è davvero re.
Nella postfazione King stesso scrive:
“Così sono stato etichettato e non me ne importa granché… dopotutto, scrivo per rappresentare qualcosa… per lo meno, quasi sempre. Ma è solo di orrore che scrivo? Se avete letto i precedenti racconti, saprete che non è così… eppure in tutte quelle storie sono riscontrabili elementi dell’orrore, non solo in Il metodo di respirazione… quella faccenda delle sanguisughe in Il corpo è piuttosto raccapricciante, come lo è l’immagine onirica in Un ragazzo sveglio. Prima o poi, Dio solo sa perché, sembra che la mia mente si volga sempre in quella direzione.”
Insomma, leggete questi piccoli grandi romanzi brevi e capirete che anche qui, in queste piccole cose, più che un Re dell’Horror, King è un Re della Psiche.
16 Apr
DUE COLOMBI IN MEZZO AL MARE DELLA STORIA
Leggere l’allostoria “Nuovo Mondo” (Bietti 2010) di Giampietro Stocco (Roma, 13 agosto 1961), mi riporta indietro nel tempo agli anni ’90, ma non tanto quelli del XV secolo in cui la storia è ambientata, ma a quelli del XX, in cui scrissi la mia ucronia “Il Colombo divergente” (Liberodiscrivere 2001).
I due romanzi, infatti, trattano entrambi una versione alternativa dell’avventura del navigatore ligure alla ricerca di una via per le Indie.
Mi si perdoni, allora, se nel leggere queste pagine colme di avvenimenti e colpi di scena, sono ritornato spesso con la mente a “Il Colombo divergente” e se questo commento di lettura, somiglia quasi a un confronto tra le due opere.
Vorrei rimarcare da subito alcune delle molte differenze, proprio a riprova della grande opportunità di scrittura che offre il genere ucronico, che fa scaturire racconti tanto diversi da una medesima vicenda.
Innanzitutto, va detto che ne “Il Colombo divergente” (come fa intuire anche il titolo), Cristoforo Colombo ha un ruolo assai più centrale che non nel “Nuovo Mondo”, dove moltissimi sono i personaggi che lo affiancano e che addirittura seguono vicende loro personali.

Giampietro Stocco
Se nel mio romanzo, si narra del primo viaggio in America, in quello di Stocco si parla soprattutto del secondo e in questo Colombo torna in buona compagnia, con Leonardo da Vinci. Molti altri sono, però i personaggi storici che si incontrano, da Niccolò Macchiavelli, al papa e ai vari regnanti dell’epoca.
Altra fondamentale differenza è quella che chiamo la “divergenza ucronica”, ovvero il momento in cui la storia immaginaria si discosta da quella reale.
Per tutta la prima metà, il mio romanzo narra le peripezie storiche di Colombo per giungere a San Salvador e solo da lì cambia il corso degli eventi.
Stocco, invece, ci proietta subito nell’ucronia.
In che cosa consiste poi, per i due romanzi, l’evento scatenante delle variazioni storiche?
Personalmente credo nella fragilità della storia e che basti pochissimo per mutarla, e così è il gesto di un indigeno dell’isola di San Salvador a far andare Colombo più a sud, sino a incontrare gli aztechi.
Stocco, invece, colloca la divergenza vari secoli prima e immagina che le spedizioni vichinghe verso il nuovo mondo non siano stati semplici episodi senza seguito, ma abbiamo portato alla creazione di una colonia normanna oltre il Mare Tenebroso (per me “Mare Oceano”) ovvero l’Atlantico.
Il Colombo di Stocco, dunque si trova davanti un “altro” mondo già mutato e ne conseguono eventi assai più clamorosamente divergenti, con ripercussioni immediate (nei primi anni dopo la “riscoperta dell’America) in tutti gli assetti geo-politici di Europa e America. Eclatante mi pare il processo per eresia al navigatore che vede riuniti una serie di personaggi e di eventi oltre ogni immaginazione (e che mi fa pensare a un altro mio romanzo ucronico “Giovanna e l’angelo” -2007).
Il Colombo del sottoscritto, invece, si ritrova prigioniero degli aztechi e nell’impossibilità di comunicare la propria scoperta, lasciando, per un po’, l’Europa immutata come l’aveva lasciata, seppure condannata, nei secoli, a ben diversi sviluppi.
Diversissimi sono di carattere questi due Colombo. Il mio è cocciutamente determinato a perseguire i propri obiettivi e a impedire un’invasione azteca del vecchio mondo, mentre quello di Stocco appare più schiavo degli eventi e pronto a tradire il vecchio continente, guidando lui stesso i vichinghi in una spedizione di conquista, coadiuvato nientemeno che dalle invenzioni belliche di Leonardo da Vinci, un po’ come si legge nei romanzi di Paolo Ninzatti “Il volo del leone” (2014) e “Le ali del serpente” (2017), in cui Venezia domina il mondo proprio grazie al genio di questo toscano. Le buone intenzioni che lo animano e che bastano a salvarlo durante il processo, mi sembrano, però, poca cosa rispetto al gesto.
Entrambi i romanzi hanno un tono cosmopolita. “Il Colombo divergente” si muove tra Italia, Spagna, Portogallo e Inghilterra nella parte storica per poi allargarsi in quella ucronica all’America Centrale e all’Africa, dove Colombo tornerà, dirottando le flotte dei mexica, e si scontrerà con berberi e arabi.
“Nuovo Mondo” vede come protagonisti tutti i regnanti d’Europa, ma arriva a coinvolgere in America non solo i vichinghi ma persino aztechi ed Inca e nel finale si immaginano già viaggi attraverso il Pacifico.
Se il mio Colombo ritrova l’amore in una donna berbera, quello di Stocco sposa una valorosa vichinga.
Se io avevo avuto dei dubbi sulla capacità dei miei mexica di copiare le navi spagnole, Stocco ci sorprende con nuove flotte vichinghe, macchine volanti e carri armati nati dai celebri disegni vinciani.
Diversa poi è la voce narrante (doppia, misteriosa e confidenziale nel mio, scritto in un’insolita seconda persona), impersonale per Stocco.
Entrambi riportano varie ipotesi e suggestioni meno “formali” sulla scoperta del continente.
Comune a tutti e due i romanzi credo possa essere il messaggio: la storia avrebbe anche potuto essere diversa. Non diamo mai nulla per scontato. Vincitori e vinti potrebbero invertire i loro ruoli. Da questo credo possa nascere sia una grande lezione di umiltà, sia la speranza per tutti noi, nel nostro piccolo, di incidere sulla storia o, quanto meno, di sognarla a nostro modo, perché, come dico sempre, l’ucronia è storia sognata.
Di questo sogno Stocco è uno dei maestri, non nuovo al genere. Di lui ricordo di aver già letto “Nero italiano”, in cui Mussolini non partecipa alla Seconda Guerra Mondiale.
10 Ott
UN FILM E UN ROMANZO UCRONICI DENTRO UN VIAGGIO NEL TEMPO ALLOSTORICO
I confini tra i generi letterari sono spesso labili e ci sono opere che si collocano a pieno diritto in diverse categorie o al confine tra due o più di esse.
Ho letto “Garibaldi a Gettysburg” (1993) di Pier Francesco Prosperi (Arezzo, 21 luglio 1945),, con l’intento di leggere un’ucronia, scritta da uno dei maggiori autori ucronici italiani.
Io stesso, prima ancora di leggerlo, lo citavo negli elenchi di romanzi ucronici, che in più occasioni mi è capitato di pubblicare.
Non amo parlare di libri che non ho letto, dunque da tempo mi ripromettevo di leggerlo o quanto meno di leggere qualcos’altro di Prosperi, che oltretutto, come me vive in Toscana e sarei curioso di conoscere meglio.
Posso ora dire che, in effetti, lo scenario che si prospetta, l’ambientazione, se preferite, è quella di un romanzo ucronico: si immagina che un evento preciso del passato sia mutato (una lettera non più resa pubblica), determinando così la partecipazione di Giuseppe Garibaldi alla guerra civile americana, assieme ai nordisti.
S’immagina anche che ci sia un gruppo di persone che decide di fare un film sul tema, una sorta di “pseudo-film” (creando questo neologismo da pseudobiblion, un libro immaginario descritto in uno reale). Nel film la partecipazione di Garibaldi migliora la performance dei nordisti, favorendone la vincita (che c’è stata anche nella storia reale). Il consulente storico di questo film, però, di ritorno dall’America a Venezia, scopre che la Storia ha preso un altro corso e, da esperto dell’epoca, capisce subito che è dovuto proprio alla partecipazione di Garibaldi alla battaglia di Gettysburg con i nordisti, determinando, con un suo errore, la disfatta della priopria parte. Ne deriva che l’America è ancora “sudista”, con tanto di forme di schiavitù, seppur più blande, apartheid e razzismo dilagante. Inoltre, anche nella Venezia del protagonista, Andrea, le cose sono cambiate: Veneto e Trentino Alto Adige sono ancora parte dell’Austria!
Fin qui siamo, in perfetta ucronia.

Pierfrancesco Prosperi
Mi è capitato, però, nel dare questa definizione dell’allostoria (sinonimo di ucronia): “L’ucronìa è una forma di narrativa che tratta di un mondo la cui Storia si è differenziata dalla Storia comunemente conosciuta, sostituendo a degli eventi storicamente avvenuti degli eventi ipoteticamente possibili” di precisare che per avere vera ucronia la storia dovrebbe mutare, senza artifici come macchine e viaggi nel tempo. In questo caso saremmo, infatti, nella fantascienza e non nell’ucronia.
Devo ammettere che è una limitazione un po’ da purista. Del resto una delle più belle ucronie “22/11/’63” di Stephen King prevede un passaggio temporale in uno sgabuzzino e un protagonista che cerca di salvare Kennedy mutando la storia.
Ebbene, per tornare a “Garibaldi a Gettysburg”, Prosperi inserisce quest’allostoria in un racconto di viaggi nel tempo, con tanto di relativa macchina.
Non solo. Il protagonista che si ritrova contro la propria volontà in un universo divergente, ricorda ancora il mondo da cui proviene e qui Prosperi ricorre al più classico dei meccanismi narrativi tipici dei viaggi nel tempo, da Wells in poi, ovvero di solito abbiamo un protagonista che visita il passato o il futuro e lo raffronta con il suo presente. Si pensi a “Le meraviglie del duemila” di Emilio Salgari, a “I sovrani delle stelle” di Hamilton, alla saga cinematografica “Ritorno al futuro” e, forse, a “Hyperversum” della Randall.
La sola differenza è che Prosperi manda Andrea non in un altro tempo ma in un presente ucronicamente mutato per effetto di un viaggio nel tempo.
Le scuole di pensiero sugli effetti determinati da un mutamento di un evento passato sul presente sono varie, ma si va dall’idea che nessuna variazione del passato possa poi mutare il presente, perché il tempo sarebbe rigido e quindi tende a ripristinare il suo corso. A questo pensiero si rifà chi sostiene che un singolo uomo non determina il corso della storia e che quindi in assenza di un grande personaggio, altri avrebbero comunque condotto la storia in una data direzione. Senza Napoleone, Einstein, Mozart o… Garibaldi la storia sarebbe stata, a grandi linee uguali.

Garibaldi
Un altro orientamento è che ogni minimo mutamento determina un effetto domino, facendo mutare molti altri eventi, che a loro volta ne fanno mutare moltissimi altri, in un crescendo esponenziale. È la teoria per la quale il battito d’ali di una farfalla in Sudamerica (o dove volete), provoca un uragano in Cina. Se Sparta avesse vinto a Tebe, allora non avremmo avuto il Rinascimento e senza Rinascimento niente Rivoluzione Francese (come in “Via da Sparta”) e niente elettronica.
Personalmente, partendo dal presupposto del tutto fantasioso che si possa mutare il passato, sono un pieno fautore di questa impostazione e, per esempio, con la mia saga “Via da Sparta” ho cercato di immaginare un mondo presente che fosse mutato il più possibile a seguito della vittoria (immaginaria) di Sparta a Leuttra contro Tebe.
Molti si collocano nel mezzo tra questi due estremi e Prosperi è, con questo romanzo, uno di questi.
Credo, infatti, che un’America sudista o non avrebbe partecipato alla Seconda Guerra Mondiale o, forse più probabilmente, si sarebbe schierata con Hitler. Inoltre, un’Italia priva di due regioni e un’Austria più forte grazie a queste, forse avrebbero avuto un diverso atteggiamento di fronte alla Germani in quel periodo. Immaginare quindi che i mutamenti si arrestino con la mancata annessione di Veneto e Trentino e con la vittoria sudista, ma non immaginare, per esempio, che la Germania domini almeno mezz’Europa, avendo vinto la guerra con l’appoggio americano, mi pare aver sottovalutato gli effetti dei mutamenti immaginati. E questo è solo un esempio. Immaginate, anche, quali aziende sarebbero divenute importanti in un’America “rovesciata”. Avremmo avuto la diffusione attuale di auto, elettronica, cellulari, computer? Sospetterei di no. E così via.

Giuseppe Garibaldi
Capisco, però, Prosperi. A lui interessava, immagino, descrivere gli effetti immediati della battaglia di Gettysburg con la partecipazione dell’Eroe dei Due Mondi. Meglio sarebbe stato, forse ambientare la storia, allora, solo un decennio o due dopo.
Comunque nelle opere di fantasia, vanno fatte delle scelte. Tornando al mio “Via da Sparta”, se volete, potrei dire che, in qualche modo ha lo stesso limite: presuppongo che Sparta sia riuscita a sopravvivere per ben 2400 anni, creando un Impero. Razionalmente sono convintissimo che sarebbe successo prima o poi qualcosa che l’avrebbe fatta cadere. Come a Prosperi interessava parlare di Garibaldi, a me interessava mostrare un mondo moderno dominato da Sparta. Dunque ragionare su alternative ai mondi creati è un puro esercizio di riflessione “ucronica” di cui spero Prosperi mi perdoni, se mai leggerà queste righe.
Vorrei poi notare in questo romanzo, oltre alla presenza di uno “pseudo-film”, di un vero e proprio pseudo-biblion, il diario del garibaldino Rossetti, in cui Andrea scopre come sono andate davvero le cose nel nuovo universo. Cosa che fa di “Garibaldi a Gettysburg”, oltre che opera ucronica e fantascientifica, un esempio di meta-romanzo (romanzo che contiene al suo interno sia un romanzo inventato, sia un film inventato) e, inoltre, rende obbligatorio un confronto con quella che è, direi, la più famosa ucronia, “La svastica sopra il sole” di Dick, in cui, in un mondo in cui i tedeschi hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale, compare un libro in cui, invece, hanno perso, ma in modo diverso che nel mondo reale.
La paternità dell’idea di scrivere un’ucronia sulla battaglia di Gettysburg va, peraltro, allo statista e premio nobel Winston Churchil, autore di “Se Lee non avesse vinto la battaglia di Gettysburg”, uno dei primi ad aver scritto ucronie nel secolo scorso. Il primo in assoluto a fare storia alternativa, penso sia, invece, stato Tito Livio (“Libro Nono ab urbe condita”).
Ancora una parola sul concetto di mondi paralleli cui fa ricorso Prosperi. L’autore parla di mondo parallelo per descrivere quello in cui si trova Andrea, rispetto a quello da cui viene. Personalmente, in tema di ucronie e viaggi nel tempo, preferisco parlare piuttosto di universi divergenti. La partecipazione di Garibaldi alla battaglia di Gettysburg, per esempio, fa divergere gli eventi storici immaginari da quelli reali. A mutare non è solo il mondo (inteso come pianeta Terra) ma l’intero universo (infinito o meno che sia) nel suo complesso. Il tempo diverge, dunque si crea un nuovo universo che non è “parallelo” al primo, ma appunto, divergente, in quanto ha almeno un punto di contatto (per esempio la fatidica lettera che consentì o impedì la partecipazione di Garibaldi alla battaglia). Già nel mio primo romanzo ucronico “Il Colombo divergente”, tale concetto era evidente sin dal titolo dell’opera. Nel ciclo di “Jacopo Flammer e i Guardiani dell’Ucronia” lo ho esplicitato, chiarendo anche l’idea che, per un autore ucronico, il tempo non è lineare ma un frattale con infinite divergenze.
Voglio chiudere questo commento forse troppo lungo, per dire che “Garibaldi a Gettysburg” sebbene mescoli ucronia e fantascienza e abbia una visione dell’allostoria un po’ diversa dalla mia, rimane comunque sia un interessante esempio di ucronia, sia un piacevole e interessante romanzo anche per chi non pratichi il genere e forse un buon modo per cominciare a conoscerlo.