Archive for agosto 2022

DOV’È IL TEMPO CICLICO?

Wikipedia recita così “Il serpente Ouroboros è un romanzo fantasy dello scrittore inglese E. R. Eddison, pubblicato per la prima volta nel 1922. Che precede il ciclo di Zimiamvia, dello stesso autore. (… omissis…)

Il serpente Ouroboros narra le vicende di un mondo situato nello spazio più profondo: qui due potenti forze si contrappongono mentre si prepara una guerra tra imperi, uno scontro tra guerrieri e stregoni, tra onore e perfidia.

Nel frattempo si intraprende un viaggio che ha per meta una montagna incantata dove sarà possibile trovare la salvezza… o la distruzione.”

Più espressamente su Anobii si legge:

“Come in un sogno, Il serpente Ouroboros ci trasporta in una terra lontana governata dalle leggi della magia, dove due regni sono in lotta per la gloria o la distruzione totale. Il duello mortale tra Gorice, il Re stregone di Witchland, e Goldry, Signore di Demonland, segna l’inizio di una guerra che coinvolgerà eroi, mostri, incantatori e principesse, trascinati nel vortice delle armi fino all’inaspettato finale. Pubblicato nel 1922, il romanzo fonde in una nuova forma letteraria elementi dell’epica classica, delle saghe nordiche, dei poemi cavallereschi e del romanzo gotico: è l’atto di nascita del fantasy, molti anni prima che Tolkien, amico e attento lettore di Eddison, creasse la Terra di Mezzo. L’ipnotico stile dell’autore evoca la presenza del soprannaturale e le passioni barbariche rimanendo fedele allo spirito delle antiche leggende.”

Eric Rücker Eddison (24 novembre 1882, Adel, Leeds, Regno Unito; 18 agosto 1945, Marlborough, Regno Unito)

Si tratta senz’altro di una pietra miliare del fantasy. L’ho letto dopo averne sentito parlare con toni entusiastici da tre appassionati, ma devo dire che l’opera non mi ha preso in alcun modo. L’ho ascoltato, come spesso faccio, con il sistema TtS, distraendomi continuamente, forse per le descrizioni troppo lunghe e dettagliate, forse per la mancanza di personaggi che spiccassero, forse per una trama poco nitida che stenterei a riassumere in qualche modo. Inoltre, vi compaiono personaggi definiti demoni e streghe ma che si comportano ben poco come tali, quasi che simili nomi siano loro attribuiti senza particolare riferimento a ciò che questi (e altri termini) comunemente significhino.

Ci sono alcuni passaggi più intensi, ma si perdono in un insieme che mi pare privo di mordente.

Il titolo appare suggestivo, richiamando un antico simbolo l’urobòro, un serpente o drago che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine.

Il simbolo pare molto antico e presente in molti popoli e in diverse epoche. Rappresenta il potere che divora e rigenera se stesso, l’energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, la natura ciclica delle cose. Simboleggia quindi il tempo ciclico, l’eterno ritorno e l’immortalità.

Nel romanzo compare un anello che ne ricopia le fattezze, ma non vi ritrovo granché della magia che si sarebbe potuta raffigurare con un simile simbolismo.

SE ACCADE DI NUOVO QUEL CHE ACCADDE

Che cosa si nasconde dietro l’apparentemente vita grigia del primario Giacomo che è appena andato in pensione?

Nelle 114 pagine di “Accad(d)e” (Policromia, 2020), il romanzo breve di Maria Fonte Fucci, si scoprono poco per volta i dolori che hanno devastato la sua famiglia e lo hanno portato a una vita tutt’altro che invidiabile. Si scopre che cosa ha ridotto sua moglie all’ombra di se stessa, che cosa ha guastato i rapporti con il figlio e, soprattutto, si scopre una storia inaspettata di inusitata violenza che pare relegata a un passato ormai lontano, quando questo pare volersi replicare orrendamente nel presente.

Con pagine intense e vive, Maria Fonte Fucci ci svela poco per volta i suoi personaggi e ci regala un thriller cupo e sanguigno che si va facendo via via più avvincente.

Maria Fonte Fucci

L’EMOZIONANTE MAGIA DI UN FARO

Che Marco Toninelli (Lecce, 15/09/1948) sia uno che sa scrivere l’avevo capito subito, leggendo il suo mainstream-fantascientifico “Rockland” (Sillabe di Sale, 2017) con quel paese improvvisamente isolato dal mondo e ne avevo avuto conferma leggendo la storia dell’avvocato che decide di vivere come un barbone nel più recente “Molo 11” (Sillabe di Sale, 2021).

Ho letto ora il suo primo romanzo “Il Faro di Finisterre” (Sillabe di Sale Editore, 2016), che narra una storia di migranti moderni con i toni del fantasy.

Pare, infatti, che una caratteristica di Marco Toninelli sia quella di saper raccontare storie attuali, spesso amare, mescolandole con toni un po’ magici e spesso poetici.

Si veda, per esempio, l’incipit de “Il Faro di Finisterre”:

In antiche notti dimenticate un grande fuoco urlava al mare sotto la luna.

Uomini con gli occhi rossi e la pelle bruciata attizzavano il falò con le mani di ferro. Scintille di brace precipitavano giù dalla infinita, buia scogliera”.

Nell’introduzione si legge, poi:

Ma il vero protagonista di queste pagine è il faro.

Non è solo un luogo, una costruzione. È una possibilità.

È una delle finestre sul confine dell’universo da cui è possibile scorgere tutte le possibili albe passate e future.

È dove confluiscono fiumi di aria e di luce, da dove è possibile vedere oltre l’orizzonte”.

Il Faro di Finisterre

Il faro dove si svolge la vicenda sorge su un luogo antico, in cui si svolgevano riti perduti che sembrano avere un loro influsso sul presente. Riti di iniziazione che si ripetono, modernizzati, nel presente.

Il romanzo racconta, in modo emozionante, l’incontro tra la famiglia del guardiano del Faro e una famiglia di migranti, giunta da sola su una piccola barca da pescatori, salvata e accolta in una solidale mescolanza delle due famiglie, che divengono una sola, lasciando da parte ogni diffidenza.

La sorte degli altri migranti non è altrettanto felice e il professore di filosofia ed esperto falegname Kamil, scoprirà che altri non hanno avuto la sua stessa fortuna, che molti altri migranti vivono in un dedalo di grotte fetide denominate “L’Inferno”, sfruttati dalla malavita locale.

Marco Toninelli

Con l’aiuto del guardiano del Faro e delle loro famiglie cercheranno di creare una nuova comunità che unisca migranti e locali, creando sinergie economiche e ridando dignità a chi l’ha persa. Lo scontro con il potere e la malavita è inevitabile, ma il loro sogno utopistico è potente e li spinge ad andare avanti e a combattere nonostante le difficoltà, perché, in fondo “il futuro è semplice, abitato solo dalla speranza”.

Difficile per Kamil scegliere tra la “difesa della dignità, dell’indipendenza e della sicurezza della propria famiglia e la disponibilità verso la comunità a cui appartiene”.

Insomma, “Il Faro di Finisterre” è un romanzo che sa emozionare parlandoci di persone vere, con forti sentimenti, ma anche delle storture del nostro mondo, delle sue ingiustizie, dei suoi limiti come del suo grande potenziale che solo la collaborazione e la solidarietà tra i popoli e le singole persone potrà attivare.

INDAGINI A FIRENZE CAPITALE

Quanti romanzi e quanti racconti ho già letto del fiesolano-sardo Alberto Pestelli? Difficile tenere il conto, perché spesso i suoi romanzi brevi escono in trilogie. Mi riferisco, in particolare, alle indagini della famiglia Fantini, che credo assommi a quattro trilogie.

Credo, peraltro, che La sala delle agitate, uscito, come di consueto in self-publishing con YouCanPrint, nel dicembre 2021, sia il più inteso e maturo dei suoi libri.

Il volume è il secondo della serie iniziata con “Gli addormentatori di via del Cocomero” con cui il nostro farmacista (speziale) scrittore non abbandona i toni del giallo investigativo delle detective story della saga dell’Etrusco tra i nuraghes, ma scopre una vena storica che arricchisce di contenuti la sua narrativa, portandoci qui a scoprire una Firenze all’inizio di quella breve esperienza storica che la vide capitale d’Italia, periodo cui come Gruppo Scrittori Firenze abbiamo dedicato il volume “Accadeva in Firenze Capitale” (Carmingnani, 2021). Non per nulla, tra i revisori dell’opera del Pestelli, leggiamo anche il nome del curatore storico di tale antologia Sergio Calamandrei. Indegnamente leggo anche il mio nome nei ringraziamenti finali e ne ringrazio l’autore, sebbene sono certo che tale opera sarebbe potuta nascere felicemente anche senza il mio, citato, sostegno.

L’opera prende ispirazione e si snoda dall’immagine di un dipinto omonimo di Telemaco Signorini del 1865 (in copertina) che ritrae una sala in cui vivono alcune pazienti affette da problemi mentali. Scopriremo che una di queste sventurate è implicata in una complessa vicenda di omicidi, scambi di persona, intrighi e tradimenti cui fa da sfondo una vivace e realistica ricostruzione della Firenze di quegli anni.

Alberto Pestelli

A indagare troviamo anche un collega dello Speziale degli Innocenti (come si definisce l’autore), il farmacista Efremio Primo Innocenti, che affianca l’Applicato di Pubblica Sicurezza Romualdo Noferini. Si conferma, dunque, l’impostazione che caratterizzava anche la precedente saga di indagini in cui accanto agli investigatori ufficiali, si uniscono parenti e amici, tipica della narrativa del Pestelli.

Mentre il mistero si dipana possiamo quindi nel contempo scoprire la Firenze che fu e i complessi rapporti familiari dei personaggi. La famiglia è, infatti, sempre al centro delle opere di questo autore che con “La sala delle agitate” ha dato prova di saperli gestire anche come elemento dell’intrigo giallo e non solo come rapporti tra gli investigatori come già avveniva nelle vicende del clan Fantini.

UN FANTASY STORICO SULL’UOMO VITRUVIANO

Leonardo da Vinci e l’uomo del disegno” (Libreria Salvemini, 2019) di Luigi De Rosa è un romanzo molto particolare. Si tratta, infatti, di un raro esempio di fantasy storico. In parte è un romanzo storico molto ben documentato e dettagliato sulla vita del genio toscano, dall’altra è opera di pura fantasia che volutamente rifiuta ogni legame con la realtà.

Difficile equilibrio tra storia e fantasia che è più sovente sperimentato dagli autori di ucronia, che, peraltro, esplorano possibili sviluppi alternativi degli eventi, mantenendo, di norma, una certa logica e razionalità. Anche il romanzo di De Rosa, peraltro, una volta definiti i confini fantastici in cui si muove, si presenta come logico e razionale.

Occorre insomma accettare l’esistenza della magia, della telepatia, dei draghi, della reincarnazione e di qualcos’altro e allora questo fantasy storico scorrerà liscio come l’olio, portandoci a scoprire un Macchiavelli dai poteri telepatici, un Leonardo che nasconde tra le vesti un rettile parlante capace di mutarsi in drago, il disegno dell’Uomo Vitruviano che prende vita.

Luigi De Rosa, nato a Firenze nel 1995, pubblica il suo primo libro nel 2016, un fantasy intitolato “La Maledizione di Bes” 

Assisteremo peraltro alle storiche rivalità tra Michelangelo e il vinciano, incontreremo Botticelli, Zoroastro da Peretola, Isabella d’Este, Francesco Gonzaga e molti altri personaggi storici, visti a volte con sguardo fantastico ma senza toglier loro il reale spessore storico che li caratterizza.

Opera difficile, insomma, ma che Luigi De Rosa ha saputo affrontare con estro in questo che è il suo secondo romanzo e che fa seguito a un’opera solo fantasy.

CONGELARSI AL CALDO

L’opera visionaria “Ghiaccio Nove” (1963) di Kurt Vonnegut (Indianapolis, 11 novembre 1922 – New York, 11 aprile 2007) è un metaromanzo in cui si parla di Jonah (nome che in inglese si dà a chi porta sfortuna), uno scrittore che ha deciso di scrivere un libro dal titolo “Il giorno in cui il mondo finì”, incentrato interamente sulla giornata del 6 agosto 1945, quando fu sganciata la bomba su Hiroshima.

Jonah intende mostrarvi la vita degli scienziati che contribuirono alla creazione della bomba atomica durante quella giornata nefasta.

Indagando su Felix Hoenikker scopre che, cercando un sistema per solidificare il fango e consentire così ai marines di attraversarlo senza difficoltà, ha creato il “Ghiaccio Nove” che fa solidificare l’acqua ad alte temperature. Non solo una piccola quantità ma tutta l’acqua in contattato con una particella di Ghiaccio Nove si solidifica. Dunque, se mai una cadesse nell’oceano o anche in un fiume collegato con il mare, questi si solidificherebbero all’istante, per intero.

Kurt Vonnegut

Alla morte dello scienziato ciascuno dei tre figli ne riceve un campione, che portano pericolosamente in giro sino alla drammatica catastrofe finale.

Come poche altre opere mostra i pericoli della scienza, la follia della guerra e della politica e, in generale, la stupidità umana.

VITE PARALLELE

Due storie parallele, quella di John (nome straniero ma italiano) sul Gran Sasso e quella di Teresa (italiana all’estero) a Berlino. L’anno è il 2016, come ripetuto all’inizio di ogni capitolo. Che queste due vite si dovranno raggiungere e congiungere il lettore lo immagina da subito, anche se sembrano tra loro davvero distanti e nulla sembra poterle unire.

Questa la struttura de “Il dito ritrovato” (Edizioni Solfanelli, 2020) della palermitana Francesca Picone (1980).

John è un musicista che fa uso di sostanze (“la cocaina aveva fatto scempio del mio corpo e io glielo avevo permesso”) e cerca una sua dimensione, trovandosi poi travolto dal terremoto abruzzese.

Teresa è una neolaureata che cerca un lavoro adeguato ai suoi studi nella capitale tedesca ma nel frattempo lavora come operaia in una fabbrica di cioccolato, dove, in un momento di particolare emozione per l’omicidio di una compagna di lavoro, si distrae e perde un dito nell’impasto per il cioccolato. Teresa patisce “l’abbandono della propria terra” (Napoli) e il “fallimento delle” sue “esperienze con gli uomini”.

Entrambi si rifugiano nel web, lui come Saxxoro33 (il sax è il suo strumento e la sua passione), lei come Teresina00. Ma non sarà la rete a farli incontrare, come parrebbe più ovvio.

Altre vite si incrociano alle loro. Edoardo con Teresa, uno che vede gli spiriti e si sente sempre spiato, eppure…. Ma anche con Lara, che le offre una vera amcizia.

John perde Frank, il fratello ciclista, che mette “fine alla sua vita con un’overdose di farmaci”, e la ragazzina amish Mary (che riapparirà poi a sorpresa) con cui aveva trascorso un anno.

Incontri che nulla di buono portano alle loro esistenze e alla fine John e Teresa restano sempre soli. Berlino, in particolare, non sembra a Teresa (abituata alla socievolezza partenopea) offrire occasioni di amicizia. Pare difficile trovare un “posto in una società massificata, dove era divenuto quasi impossibile distinguersi, preservare una salutare identità”.

Per John, il terremoto, nella sua drammaticità, spazzando via la sua stessa casa, diventa il momento di rottura che gli dà la giusta scossa per ricominciare, disintossicarsi e trovare nella musica e nell’insegnamento una ragione d’essere.

Francesca Picone

Sarà la perdita del dito a portare novità nella vita di Teresa, che deve nascondere l’incidente per paura di farsi licenziare.

Molti altri gli eventi nelle loro vite e ne ho già raccontato anche troppo.

Voglio solo concludere dicendo che è romanzo che si legge con interesse e partecipazione, ricco di situazioni e sviluppi che lo rendono lettura piacevole che a volte emoziona.

UNA RIVISTA PER IL FANTASTICO ITALIANO

Il 23 Luglio 2022, in occasione del raduno nazionale della World SF Italia tenutosi a Pistoia, in cui si è anche parlato del passato e del futuro del fantastico italiano, il presidente dell’associazione Donato Altomare, il curatore Luca Ortino e gli editori della Edizioni Scudo, Giorgio Sangiorgi e Luca Oleastri hanno presentato il primo numero della rivista di fantascienza dell’associazione, che ho ora avuto il piacere di leggere.

Da notare, innanzitutto che “World SF Italia Magazine” (Edizioni Scudo) è una rivista illustrata a colori, disponibile in cartaceo ed e-book. Illustratore è soprattutto l’editore Luca Oleastri (che conobbi in occasione della mia gallery novel “Il Settimo Plenilunio”, scritta con Simonetta Bumbi, di cui realizzò la copertina e numerose delle 117 illustrazioni).

Introduce un editoriale del presidente Donato Altomare che specifica trattarsi di una “rivista dedicata principalmente ai Soci World ma che può anche accogliere interventi di non soci a riprova che la nostra opera è essenzialmente quella prevista dallo statuto: diffondere il fantastico e la fantascienza,

specie quella italiana”. Perché, afferma orgogliosamente, “Siamo la spina dorsale della fantascienza italiana, siamo quelli che proponiamo e che realizziamo. Siamo quelli che stanno scrivendo la storia della moderna fantascienza italiana.” Se questo era vero prima, ora grazie a questa nuova rivista “World SF Italia Magazine” lo è ancor più.

Questo primo numero è fortemente (e volutamente) al femminile, privilegiando nella scelta le autrici dell’associazione.

Apre il volume il racconto “Cybo” di Nicoletta Vallorani, bell’esempio di fantascienza di ambientazione italiana con una moderna peste e un’ambientazione al NeoLeonka che di certo vuole richiamare il mitico centro sociale milanese Leoncavallo. Correda il racconto un’intervista all’autrice (autrice anche di noir e prima donna a vincere il Premio Urania nel 1992) di Filippo Radogna, ormai sempre più calato nel ruolo di intervistatore della World SF Italia.

Con il racconto “Il dito” di Fabio Calabrese ci spostiamo dalle parti del sovrannaturale con un vampiro che si vuol fare reimpiantare un dito.

Con “Arancia meccatronica” ritrovo un racconto di Maddalena Antonini che già avevo letto nell’antologia “Cosmoril 16” (Tabula Fati, 2021), con questi elettrodomestici intelligenti (e un po’ petulanti) che dialogano con il loro padrone. Le tematiche alimentari mi hanno anche ricordato “Space Food”, del socio Andrea Coco, per non dire “I girasoli di Shaah-Mall-a” (Tabula Fati) della stessa Antonini.

Anche lei è poi intervistata dal nostro Filippo Radogna, dove della fantascienza scrive “Penso sia il genere letterario più libero in assoluto, permette di muoversi in tutte le direzioni spaziali e temporali, interiori ed esteriori, permette l’elemento sorpresa a tutti i livelli”.

Ed ecco una nuova importante autrice della World SF Italia, Franci Conforti con il suo “Per sempre” una fanta-detective-story con personaggi cibernetici e una giovane prostituta che dipinge e dice «Ho bisogno di persone vere per disegnare quello che non si vede».

Il saggio di Franco Piccinini “Le esplorazioni lunari dell’immaginario scientifico” mi richiama subito una recente lettura dell’opera di un altro socio, Carmine Treanni, “Sulla luna”, di cui riprende alcuni dei temi relativi al grande sogno degli anni ’60, di cui avevo scritto anche a proposito dell’antologia “Mille e una luna”. Piccinini ci parla soprattutto del grande direttore di rivista Campbell “Per lui la cosa più Astounding era il progresso e si persuase che era il momento di diffondere in modo semplice e adatto alle masse la cultura scientifica”.

Suggestiva (anche per scenari ucronici”) è l’osservazione di come i russi avrebbero potuto battere gli americani anche nella corsa alla Luna, che invece vinsero questi ultimi perché “Li aiutò il fatto che Korolev si ammalò e morì nel 1966, mentre lavorava al progetto del super-razzo che doveva mandare una Vostok sulla Luna.” Non c’è verso: la Storia la fanno gli uomini. A volte l’azione di un solo uomo può mutarla.

Segue quindi uno spazio di riflessione sul fantastico che mi pare voglia diventare fisso “La versione di Gilles – Rubrica a cura di Sergio Giuffrida”.

Su analogo solco seguono le riflessioni di “Lo scrittore” di Mauro Antonio Miglieruolo, su cosa sia scrivere oggi.

Come non ritrovarsi nelle parole introduttive su cosa sia uno scrittore “Lo scrittore è l’onnisciente per antonomasia, non Deus (cioè narrazione), ma Dio (cioè creazione). Creatore in quanto onnisciente, che crea nei limiti dei suoi propri limiti. Creatore dunque che, come tutti i creatori, crea quel che può creare e non altro.” Io dico sempre, infatti, che la letteratura deve essere creazione e che la letteratura fantastica è quella che crea in massimo grado e dunque la più nobile delle forme letterarie. Vi lascio scoprire dal testo la differenza tra bracciante, autore, scrittore e creatore.

Si arriva quindi a un racconto della scomparsa segretaria della World SF Italia Manuela Menci, introdotto dal marito Giovanni Mongini, su viaggi spaziali, vita aliena e argilla da inconsuete proprietà.

È una caccia al tesoro inserito in un concorso spaziale il racconto di Andrea Coco “Vacanza Premio”, con i personaggi di “Space Food”.

Di nuovo una donna, Marina Alberghini, è l’autrice di “Un peccato ancestrale”, che ci parla di divinità giunte dallo spazio, senza disdegnare di spiegare fantascientificamente anche alcuni passi della Bibbia, a partire dalla nascita di Adamo ed Eva, qui alle prese con il dio alieno Marduk. Si tratta di un’occasione per esplorare il ruolo della donna nella religione, nella filosofia e nel pensiero occidentale in genere.

Franco Giambalvo intervista poi Mario Luca Moretti sul saggio da lui scritto con Giovanni Mongini “Remake & Rebbot”. “Remake e reboot, termini che significano qualcosa che viene riproposto dopo la sua prima apparizione al cinema”.

Nella sezione “Voci dal confine” troviamo una conversazione del curatore Luca Ortino con Eraldo Baldini.

In chiusura troviamo il racconto “La breccia” di Bruno De Filippis, che ha da poco vinto il Premio Vegetti con il suo “Toba”. Entrambi ci parlano di mondi alternativi e multiverso.

Bella e completa l’analisi della saga Matrix che fa Davide Longoni, non fermandosi ai film, ma analizzando anche videogiochi e fumetti.

Chiudono il volume le considerazioni del curatore Luca Ortino.

Insomma, una rivista ricca, varia, ben rappresentata, interessante e intelligente, che si legge con piacere.

E ora aspettiamo con curiosità il prossimo numero.

GLI UNIVERSI DIVERGENTI DI DE FILIPPIS

In occasione dell’assemblea annuale della World SF Italia, l’associazione nazionale degli operatori del fantastico tenutasi a Pistoia il 23 luglio 2022, ho incontrato Bruno De Filippis con cui, sebbene si faccia entrambi parte di questa associazione, non ricordo di aver mai parlato prima. L’occasione è stata il Premio Vegetti, tenutosi durante il raduno pistoiese, in cui De Filippis ha vinto il premio più ambito, quello per il miglior romanzo di fantascienza con il suo “Toba” (Lastaria Edizioni, 2021), opera che ci parla di mondi paralleli e viaggi nel tempo.

Ho colto subito l’occasione per leggerlo, restando colpito dalla moltitudine di temi in comune con varie mie opere.

Quelle che lui chiama Terra 2, Terra 3, Terra 4 e così via, altro non sono, infatti, che gli universi divergenti del mio ciclo su “Jacopo Flammer e i Guardiani dell’Ucronia”: mondi ucronici nati da una divergenza temporale, mondi in cui la storia ha preso un diverso corso.

Il protagonista Claudio non solo si sposta tra questi universi divergenti, ma viaggia anche nel tempo con la mente, ritrovandosi nel corpo di altre persone, come gli Antichi di Lovecraft. La cosa strana è che quanto lo fa il suo corpo si mescola con quello dell’ospite. In particolare, si ritrova in una preistoria di 75.000 anni fa (Jacopo Flammer invece arriva ben 750.000 anni indietro) e si trova a combattere con una tigre dai denti a sciabola, in un’epoca in cui l’uomo non aveva ancora completato l’estinzione dei grandi mammiferi.

I suoi viaggi nel tempo creano mondi ucronici come con l’attentato alla vita del Presidente Truman, poco prima che questi impedisse a McArthur di usare la bomba H, creando così l’universo divergente detto Terra 51.

Se di solito nelle storie sui viaggi nel tempo gli autori si preoccupano dei paradossi temporali e di rimettere a posto il tempo alterato, “Toba” e i miei romanzi hanno in comune la medesima visione: i viaggi nel tempo creano universi divergenti, ma non mutano quello di provenienza del viaggiatore, che continua a esistere.

Al centro della trama c’è una grande catastrofe, che si ripete nelle varie epoche: l’eruzione del vulcano Toba, cui, forse, nel passato l’umanità è riuscita a sopravvivere per un pelo senza estinguersi ma che potrebbe ripetere la sua azione apocalittica.

Nei suoi mondi paralleli, De Filippis immagina delle realtà che mi hanno ricordato quella della mia saga “Via da Sparta”, soprattutto per le case che si estendono sottoterra e per la critica del sistema matrimoniale monogamico (i matrimoni sono a scadenza ma possono essere prorogati e “qualcuno ha formulato, di vietare per legge la quarta proroga della stessa unione. Patrick pensa che sia utile, per evitare quella che è stata definita la “sindrome di Stoccolma” dei matrimoni, vale a dire la situazione nella quale uno dei due, succube dell’altro, accetti un prolungamento che in realtà non vuole”). Se in “Via da Sparta” si immagina una struttura politica molto diversa dalle attuali, anche in “Toba” troviamo un sistema meritocratico per l’elezione dei politici, con delle pagelle per le loro varie capacità.

Quando leggo di telepatia e di Talia, non posso non pensare a “La bambina dei sogni” e a “Psicosfera”.

Un’altra visione che condivido è espressa da De Filippis con questa frase “Noi cambiamo. Le cellule della pelle si rigenerano continuamente. Anche le ossa si dissolvono e si ricostruiscono a ciclo continuo, tanto che, dopo sette anni, non è rimasto neppure un frammento della struttura che avevamo prima. I ricordi scompaiono, le sensazioni si volatilizzano, le esperienze ci modellano continuamente: come possiamo pensare di essere la stessa persona di dieci anni fa o di un anno fa o anche di qualche minuto prima?” ricca di implicazioni narrative oltre che scientifiche.

Come finisce questo romanzo? In un libro con tanti mondi paralleli (meglio sarebbe dire divergenti) come potremmo avere un solo finale? Bruno De Filippis ce ne offre ben tre e conclude affermando, da buon ucronico alla “Slidding Door”: “Noi umani vogliamo sempre tutto ed il contrario di tutto e, scelta una strada, non facciamo che chiederci cosa sarebbe successo se avessimo preso l’altra.”

Bruno De Filippis
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