Archive for luglio 2022

LA VITA: UN FLORILEGIO DI RACCONTI

Eccomi per la seconda volta a leggere un libro di Paolo Dapporto, socio come me del GSF – Gruppo Scrittori Firenze.

Se la precedente lettura “Nel giardino di Emma” era un romanzo dal forte sapore autobiografico, questo secondo volume “A guardare il cielo” (titolo che deriva dall’ultima frase del libro) è, invece, un’antologia di racconti, peraltro anche questa con un forte sentore di vita vissuta.

Nel giardino di Emma” è lo sviluppo di un precedente racconto, che mi pare di aver individuato proprio all’interno di “A guardare il cielo”.

È sempre difficile commentare un’antologia dato che contiene tante storie, anche quando hanno un filo conduttore comune. Molti racconti sono, infatti, romanzi in nuce (come nell’esempio citato) e appare riduttivo quindi un commento che tutti li abbracci.

Rubo allora qualche parola a Chiara Recchia che ne ha scritto la prefazione che così comincia “Un florilegio di racconti, un fior da fiore dai propri libri editi e non”. Già, perché questi non sono racconti qualsiasi, scritti per il volume, “ma una scelta”.

Come spesso accade in simili volumi sono “Moltissimi i personaggi, maschili e femminili, di diversa età, cultura e condizione sociale” ma “L’Autore sembra essere quello principale, presente in quasi tutti i racconti come io-narrante”. Opera autobiografica, appunto, o almeno che sembra tale. Anche perché le diverse vicende dell’io narrante sembrano collegarsi e ricondursi a una medesima personalità, se non persona.

Un altro elemento importante di queste storie ce lo ricorda Paola Bray, autrice della seconda prefazione: l’amore “presente nelle sue mille sfumature”.

Come già ebbi a scrivere commentando “Nel giardino di Emma”, anche qui ogni racconto mi suscita sensazioni e ricordi personali: effetto della vita vissuta che pare sempre diversa ma poi, nelle cose importanti, quelle di cui scrive Dapporto, somiglia ognuna a quella di un altro. Soprattutto poi se i luoghi sono gli stessi o quasi, i tempi della narrazione gli stessi o quasi di quelli della mia vita.

Ecco quindi l’apertura con la storia sul bridge, che per me ha il volto di mia nonna, accanita giocatrice di cui non possono non ricordare la frase “chi non sa giocare a carte si prepara una ben triste vecchiaia”. Potrebbe esser questa la risposta da dare al protagonista quando s’interroga: “Perché continuo a giocare a bridge? Non ho mai avuto una grande passione per le carte e spesso mentre gioco i miei pensieri navigano altrove.” Ohiohi, che terribili compagni di gioco quelli che non si concentrano! Meglio in effetti non giocare.

E quanto è vero e attuale il secondo racconto con quel vecchio che si vende casa e va a vivere in ospizio per paura che figlia e genero lo interdicano per portargliela via! Come possono essere difficili i rapporti familiari e quanto bene questa storia ce lo mostra.

Possono poi i semplici versi di una poesia (qui “L’aquilone di Giovanni Pascoli) suggestionarci al punto da volerci far mutare aspetto (e capigliatura)?

“Colori” con il ragazzo che comunica i propri sentimenti all’amica lesbica mediante i colori delle reazioni chimiche mi ha, invece, richiamato alla mente il romanzo “Il linguaggio segreto dei fiori” di Vanessa Diffenbaugh, con la giovane fioraia che si esprime combinando nei mazzi fiori dai diversi simbolismi. Quante diverse forme può esprimere il linguaggio e quanto può essere difficile comunicare davvero, qualsiasi strumento si usi!

E l’alcool? Si può avere un naturale tasso alcolico che ci fa risultare ubriachi all’etilometro anche senza aver bevuto? Altro tema di un altro racconto.

La storia successiva parla di vita militare, di una cane quasi “mascotte” dell’esercito, ma getta anche lì un’osservazione sui tempi che furono e sullo strano rapporto tra destra e sinistra che c’era ai tempi in cui ancora frequentavo il liceo classico: “i fascisti e i comunisti erano gli unici individui che avevano il coraggio delle proprie idee”, per questo per un fascista “i comunisti erano nemici che stimava”. Un tempo. Quando ancora la politica era fatta di idee e, ancor più di ideali. Ora, invece… beh, lo sapete, no?

Ed eccoci quindi dalla caserma alla Casa del Popolo, quella di Rifredi che ancora ogni tanto frequento, se non altro per qualche presentazione letteraria, ma qui, invece si parla soprattutto di biliardo. Un gioco per fisici, ma che il nostro Dapporto, pur essendo un chimico, pare apprezzare altrettanto.

Paolo Dapporto

E poi ecco quei due ragazzi in viaggio per la Francia in cerca di lavoro ma soprattutto di avventure… femminili, durante il Tour de France, uno di quegli eventi popolari che ci sono ancora ma che allora avevano tutto un altro sapore.

Arriva poi un racconto sulla Seconda guerra mondiale, sul voltafaccia italiano, con i nemici all’improvviso diventati amici e viceversa, con Firenze invasa e un ragazzino maltrattato, perché a quei tempi non era poi così strano dire davanti a un bambino, che in fondo è “solo un’altra bocca da sfamare”, indesiderata: “Questo bambino è un mostro”.  Altre sensibilità. Oggi quel dottore si sarebbe beccato una denuncia.

Dopo il bridge introduttivo, troviamo poi un interessante lezione di poker. Due giochi che sono davvero scuole di vita, in modi diversi.

Ed ecco un’aula di chimica che forse ricorda una che Dapporto ha avuto davvero.

Ecco poi un nonno alle prese con un nipote e una fiaba che è un mix di favole reinventate.

Si può stare senza sesso e senza fumo? Tutte e due forse è troppo sembra dirci il racconto che segue.

Ricordate la caduta del muro di Berlino? Se avete la mia età, penso proprio di sì. Un po’ meno quando fu eretto. Una città spezzata in due. Famiglie e vite divise. Una delle tante follie della storia. Il racconto di Dapporto ci mostra un personaggio che qualcosa prova a ricucire.

Eccoci a “Meriggi d’estate” che io credo sia la base del romanzo “Nel giardino di Emma”: per saperne di più leggete la recensione che ne ho fatto.

Si può dissacrare una gara di tuffi? Si può! Leggete come.

“La forchetta” è un piccolo giallo concentrato. Intelligente. Dapporto, se non erro, di gialli ne ha scritti vari. Non amo il genere, ma questo penso dia una buon’idea di come possano essere i suoi romanzi.

Segue una storia d’amore a pagamento. Amore, più che sesso, badate.

Può un orto riempire il vuoto di una vedovanza? Ecco il tema successivo.

Difficile il rapporto con le ragazze per un adolescente. Se poi si mette di mezzo, in un altro racconto, anche un fratello!

Il tema dei bambini con difficoltà, disprassici in particolare, sembra stare a cuore a Dapporto. Compare qui in almeno due racconti.

Se parla di gioco o di sport, Dapporto mi pare riesca sempre a condire la sua storia con qualche figura femminile e quel che ne consegue, come nel racconto “Il 9, il 7 e Flora”.

Allo stesso modo le incomprensioni tra i sessi compaiono più volte, come con questa ragazzina che, come quella del racconto precedente, ricorda Audrey Hepburn. Una bellezza elegante e semplice che sembra proprio affascinare il nostro autore.

Del resto “l’amore è una malattia ma non troppo grave” e se ti fa volare come gli amanti di Chagall sembra piuttosto una magia.

E le canzoni di quegli anni? Ce le ricorda in “Sassi”.

Ed eccoci nel mitico quartiere Lippi, dalle parti delle case dei greci, quella che ora chiamiamo Firenze Nova, ma che allora era popolato di gente verace.

E la scuola che tanta parte aveva “Nel giardino di Emma” riappare in una storia di un ragazzo un po’ secchione ma rimandato in italiano per aver mal interpretato una frase del De Santis, un tipo che ha condizionato non poco la scuola italiana, ma che, in effetti, non brillava sempre per chiarezza espositiva.

Conclude il volume la narrazione di un bel rapporto tra un nonno molto presente e impegnato ad aiutare un nipote con qualche difficoltà d’apprendimento, ma capace di un grande affetto.

E, in conclusione, è proprio questo che traspare da queste pagine e le rende piacevoli e intense: il grande amore dell’autore per le vicende e i personaggi di cui scrive.

Lieto che il Gruppo Scrittori Firenze abbia penne così al suo interno.

QUADRUMANI SENZA GRAVITÀ

Ho deciso di affrontare il Ciclo dei Vor di Lois McMaster Bujold (Columbus2 novembre 1949) partendo dal volume che ne costituisce il preludio: “Gravità zero”. Ne avevo peraltro già letto un romanzo intermedio nella saga, “I due Vorkosigan”.

Come promemoria di lettura, riporto l’elenco delle opere in ordine cronologico degli eventi narrati (da Wikipedia):

  • Gravità zero (Falling Free, 1988) – Premio Nebula per il miglior romanzo
  • L’onore dei Vor (Shards of Honor, 1986)
  • Barrayar (Barrayar, 1991) – Premio Hugo e Locus
  • L’apprendista ammiraglio (The Warrior’s Apprentice, 1986)
  • Le montagne del dolore (The Mountains of Mourning, 1989), romanzo breve – Premio Nebula e Hugo
  • Il gioco dei Vor (The Vor Game, 1990) – Premio Hugo; la prima parte del romanzo era apparsa su rivista come Miles Vorkosigan – L’uomo del tempo (Weatherman, su Analog, febbraio 1990)
  • Cetaganda (Cetaganda, 1995)
  • La spia dei Dendarii (Ethan of Athos, 1986)
  • L’eroe dei Vor (Borders of Infinity, 1989) – antologia che raccoglie Le montagne del dolore, Il labirinto (Labyrinth, 1989) e I confini dell’infinito (Borders of Infinity, 1989)
  • Il nemico dei Vor (Brothers in Arms, 1989)
  • I due Vorkosigan (Mirror Dance, 1994) – Premio Hugo e Locus
  • Memory (Memory, 1996)
  • Komarr (Komarr, 1998)
  • Guerra di strategie (A Civil Campaign: a Comedy of Biology and Manners, 2000)
  • Festa d’inverno a Barrayar (Winterfair Gifts, 2003), romanzo breve
  • Immunità diplomatica (Diplomatic Immunity: a Comedy of Terrors, 2002)
  • Il segno dell’alleanza, (Captain Vorpatril’s Alliance novembre 2012)
  • The Flowers of Vashnoi, (The Flowers of Vashnoi maggio 2018)
  • La criocamera di Vorkosigan (Cryoburn, 2010)
  • La regina rossa (Gentleman Jole and the Red Queen, febbraio 2016).

Che dire intanto di questo primo libro? Sicuramente l’idea di fondo un gruppo di persone create geneticamente per vivere nello spazio a gravità zero è senz’altro valida. La soluzione genetica è che, non essendo necessario camminare, costoro al posto dei piedi hanno due altre mani. Sono, insomma, dei quadrumani e vengono detti “quad”.

Che una nuova specie umana per vivere nello spazio differisca solo per questo forse sarebbe un po’ poco, ma è già qualcosa.

Assistiamo quindi alla classica situazione di un gruppo di persone che abituata a vivere in modo molto diverso (senza gravità e con quattro mani) guarda con stupore quello che per noi è il mondo ordinario. Stratagemma narrativo comune, nelle sue varianti, per la letteratura fantastica.

Il romanzo, pur essendo stato pubblicato nel 1988, si presenta con forti componenti di descrizione tecnico-scientifica che ricordano la hard SF degli anni ’50 e ’60. Anche l’insistenza sull’uso della terza e quarta mano da parte dei quad, appare un po’ pesante e poco fluida. Peraltro, alcune riflessioni, come quale strumento potrebbe suonare un quadrumane e come, sono interessanti.

Buona l’idea di questo esperimento genetico che una volta venuta meno l’esigenza che lo aveva avviato, deve essere smantellato senza badare al fatto che il suo frutto sono persone anche se considerate come degli “scimmiotti”.

Lois McMaster Bujold

Suggestiva anche l’idea di spostare questi esseri a “gravità zero” su una stella con un solo gigante gassoso e molti asteroidi, dove possano prosperare avendo riserve di materiali ma non un pianeta su cui poggiarsi, che potrebbe essere appetibile per altre specie “terricole” che potrebbero insidiarli.

Importante la speculazione sull’uso della genetica applicata all’uomo, che già avevo notato ne “I due Vorkosigan”.

Nell’insieme, però, forse per le troppe riflessioni dei protagonisti su cosa fare e cosa non fare, la poca azione e una certa ripetitività, il romanzo non appassiona.

LA FANTASCIENZA CUORE RAZIONALE DELLA LETTERATURA FANTASTICA

Tornando dal Convegno della World SF Italia tenutosi a Pistoia presso la Biblioteca San Giorgio il 23 Luglio 2022, colpito da due affermazioni fatte rispettivamente da Franco Piccinini e dal Presidente dell’associazione Donato Altomare durante l’evento “Dove va la fantascienza italiana – storia e prospettive”, ho fatto alcune riflessioni sulla fantascienza.

Semplificando molto (mi perdonino Piccinini e Altomare) Piccinini ha affermato che dovremmo cominciare a considerare la fantascienza non più come un genere letterario ma come una letteratura, un po’ come quella realista, verista, futurista, ecc.; Altomare invece, provocatoriamente, ha detto che la fantascienza è ormai morta perché la distanza tra l’immaginario e il reale si è ridotta quasi a zero privandoci di occasioni di creatività.

Inoltre, nel corso del Convegno si è più volte ripetuto il concetto di come erroneamente la fantascienza sia stata considerata, soprattutto in Italia, letteratura di serie-B. Si citava per esempio Mike Bongiorno che parlava nientemeno che di fantascemenza, dando voce all’ignoranza popolare.

Durante il Convegno, turbato da queste affermazioni, mi sono sentito in dovere di intervenire affermando, innanzitutto, che occorre fare il possibile per nobilitare questa narrativa. Ho ricordato che personalmente ho più volte affermato che se l’arte è creazione, la forma letteraria che maggiormente crea (ambientazioni, personaggi, situazioni, trame…) è proprio il fantastico. Tra i generei del fantastico la fantascienza è quella che dovrebbe creare con maggior razionalità e ingegno, partendo da basi scientifiche, come è nella sua natura.

Se ci allacciamo qui all’affermazione di Piccinini, comprendiamo in effetti, il salto di qualità che dovrebbero fare la fantascienza e i suoi autori: diventare un vero movimento letterario, se non addirittura, appunto una letteratura, che abbia come fine primario apparentemente quello opposto di verismo e realismo, ovvero raffigurare la realtà attraverso l’immaginazione, speculare sul passato, il presente e il futuro. Diventare la letteratura che si interroga sugli infiniti “se”. Al suo interno potrebbe allora avere numerosi generi, per esempio:

  • L’ucronia che si interroga su i “se” del passato: come sarebbe stata la storia se qualcosa si fosse svolto in modo diverso, come sarebbe il presente e come sarebbe potuto diventare il futuro.
  • La fantapolitica, la fantascienza sociologica, la distopia, l’utopia potrebbero speculare sul nostro presente e la sua organizzazione sociale.
  • La climate fiction potrebbe aiutarci a studiare le sorti del nostro mondo.
  • La space opera potrebbe indagare sulla possibilità di entrare in contatto con mondi alieni.
  • La fantascienza più classica potrebbe continuare nella sua speculazione sui possibili futuri, su ipotesi ancora difficili da dimostrare di numerose discipline, non solo fisica, chimica, biologia, medicina, genetica e ingegneria ma anche economia, finanza, linguistica, sociologia, storia, politica.

Allora sarebbe chiaro che la fantascienza non è affatto morta. Semmai, e potrebbe essere un bene, andrebbe uccisa come genere (soprattutto se questo deve essere di serie B) per farla rinascere come movimento culturale, come letteratura del fantastico, come la colonna portante della letteratura del fantastico, al cui interno dovrebbero trovare spazio anche altre forme letterarie con l’immenso pregio di essere creative, di creare nuovi mondi, nuovi esseri viventi, nuovi tipi di umanità. Si potrebbe così ridare dignità anche al fantasy, al gotico, al soprannaturale, alla fantareligione, all’horror, solo per citarne alcuni.

La fantascienza deve anche rinascere cambiando prospettiva. Durante il Convegno ho notato un’eccessiva insistenza sugli sviluppi della tecnologia e su come la fantascienza li abbia anticipati, commentati, analizzati, criticati e su come oggi questo sia sempre più difficile da fare. È vero che anche durante il Convegno si è più volte detto che compito della fantascienza non è certo quello di anticipare il futuro o gli sviluppi scientifici e tecnologici ma di speculare su questi. Gli autori di fantascienza non sono e non devono essere maghi con la sfera di cristallo che cercano di predire il futuro.

Non credo, però, che dovremmo lasciarci limitare, come autori di fantastico, da questa difficoltà di rappresentare le nuove tecnologie e dal loro essere già oggi troppo “fantascientifiche”. La fantascienza deve piuttosto muoversi proprio nei campi più inesplorati della conoscenza umana. Quanto c’è ancora da scrivere sui poteri della mente? Quanti possono essere gli infiniti futuri? Quante possono essere le diverse forme di vita su altri pianeti o magari al di fuori di essi? Non abbiamo bisogno di immaginare viaggi spaziali per farlo. Per quante creature la fantascienza abbia già immaginato, quante variabili sono ancora del tutto inesplorate? Forse la fisica quantistica è troppo complessa per prestarsi a una letteratura popolare, ma quante idee sta già generando. Quanti infiniti effetti possono avere diversi sviluppi tecnologici? E perché poi non avvalersi dell’ucronia, unita alla FS, per tornare indietro nel tempo e immaginare mondi senza alcune tecnologie ma che si sviluppano grazie ad altre? Perché non andare ancora più indietro e non immaginare diversi sviluppi dell’evoluzione. Sfruttiamo poi ogni disciplina della scienza. Il funzionamento delle astronavi non può più essere il cuore della fantascienza.

Non mi venite a dire, allora, che la fantascienza è morta per mancanza di idee.

Che cosa le manca davvero? La dignità di essere letteratura e di poter attrarre a sè grandi autori. Molti nomi mainstream hanno già scritto opere fantastiche ma senza usarne l’etichetta, che li avrebbe sminuiti. Quello che vorrei è che si possa fare fantastico e fantascienza a testa alta, certi di scrivere per la più nobile delle forme letterarie, la più creativa, la più razionale, riflessiva, capace di interrogarsi sul mondo, l’uomo e l’universo e cercare risposte ai grandi interrogativi. Le altre letterature non potranno allora che apparire per quello che sono sempre state: forme inferiori d’arte.

L’importante sarà quindi avere il coraggio e la forza di portare in alto una bandiera che dica: la miglior letteratura deve essere creativa, la letteratura per eccellenza è la letteratura fantastica. Il suo cuore razionale e pulsante è la fantascienza.

L’OSCURITÀ NARRATIVA DI PAMUK

Il libro nero” (1990) di Orhan Pamuk (Istanbul, 7 giugno 1952)  mi è parso un romanzo ben scritto e ricco di spunti ma è stata una di quelle letture che proprio non mi hanno preso, una di quelle che ti scivolano via e ti chiedi “ma che cosa ho letto?” e magari dopo qualche tempo anche “ma io questo libro l’ho già letto? Di che cosa parlava?”

Già, perché di cosa parli “Il libro nero” già ora mi è poco chiaro. Sono, infatti, tante storie legate assieme da fragili fili che non sembrano in grado di formare una trama.

Mi rifaccio allora a quanto si legge su anobii nella Descrizione dell’opera: “In una Istanbul labirintica e malinconica descritta con straordinaria vivezza e precisione, un giovane avvocato, Galip, parte alla ricerca della moglie scomparsa.

Okay, sì, in effetti, comincia così. Un altro personaggio importante pare essere Celâl, il fratellastro della moglie Rüya, un giornalista importante, amato e odiato, ma comunque molto letto.

Ecco allora tante storie, a volte solamente raccontate e non connesse con l’esile trama. Da un libro su mondi in qualche modo “esotici” come potrebbe essere la Turchia mi aspetto magari di poter imparare qualcosa di altre culture, ma qui ci sono sì alcuni termini tipici del mondo turco e islamico ma anche questi sono segni lievi sulla carta che volano subito via.

Molte sono, peraltro le riflessioni interessanti. Alcune sulla letteratura, come quelle in merito al fatto che nessun libro ne anticipi un altro (affermazione sulla cui correttezza ci sarebbe da discutere): a proposito di “Le Grand Pacha” di Ferit Kemal sostiene che “è sbagliato e risibile alla stessa stregua di sostenere che da questo sottile saggio sarebbe tratto «Il Grande Inquisitore» dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij”. “A proposito delle geremiadi su ciò che l’Occidente avrebbe rubato all’Oriente, o viceversa, mi torna sempre in mente una mia vecchia idea: e questo universo dei sogni che definiamo mondo è una casa in cui vaghiamo disorientati come sonnambuli, le diverse letterature non sono altro che tanti orologi appesi alle pareti delle stanze tra cui ci spostiamo. Di conseguenza:

1. È stupido sostenere che uno di essi, che ticchetta in una qualsiasi delle stanze di questa casa dei sogni, sarebbe giusto mentre un altro sarebbe sbagliato.

2. È anche stupido sostenere che uno di essi sarebbe cinque ore avanti rispetto a un altro, dal momento che, in base a una qualsiasi logica diversa, si potrebbe sostenere allo stesso titolo che invece è indietro di sette ore.

3. È altresì ancora più stupido concludere che gli orologi si imiterebbero a vicenda, in considerazione del fatto che uno di essi segna le nove e trentacinque e che, dopo un po’, la stessa ora viene indicata da un altro.”

Orhan Pamuk  (Istanbul7 giugno 1952)

Seguendo lo stesso ragionamento arriva a dire che sarebbe sbagliato credere che le passeggiate di Maometto descritte da Ibn Arabi nel 1128 e la sua Nizam sarebbero stati il modello per la Commedia di Dante Alighieri e la sua Beatrice.

Ecco poi la citazione “I nostri ricordi li abbiamo perduti al cinema. I film non guastano soltanto la vista ma anche la mente del bambino. (Ulnay)” e alcune considerazioni sul cinema: “Non c’è dubbio che il metodo cinematografico, tramite l’incisività del viso di tante belle donne, la musica simmetrica e travolgente degli organi di chiesa, le ripetizioni di immagini che costituiscono reminiscenze di inni, raffigurazioni splendide, accattivanti per l’occhio, alcol, armi, aerei, vestiti, si è dimostrato più drasticamente funzionale e definitivo della metodologia sperimentata dai missionari in Africa e America latina.

Ecco il personaggio che vive ne “La ricerca del tempo perduto” di Proust. Ecco quello che cerca qualcuno che poi è se stesso.

Ecco idee suggestive come raccontare le persone attraverso i loro volti, ma poi non ne colgo gli attesi sviluppi.

Ecco le tre spose che raccontano dei loro matrimoni. Ecco la storia del boia e delle sue vittime. Ecco la testa recisa che singhiozza (e penso agli ironici zombie di “Carlito’s diet”). Ecco la testa cui il boia disegna un sorriso con il coltello e poi gli casca nel pozzo.

Ecco alcune considerazioni sulla religione mussulmana (hurufi), sulla politica turca che aspira a somigliare a quella occidentale ma poi i turchi si lasciano suggestionare dai colpi di stato.

Ecco la donna (la moglie di Galip) che riappare dopo 18 anni e reclama l’amore di Celâl. Ecco il lettore (Galip) che vuole uccidere Celâl perché con i suoi scritti ha ingannato la Turchia.

Ecco il principe che passa il tempo a narrare storie a uno scriba.

Ecco tante altre idee, immagini e suggestioni.

Ecco, insomma, un libro ricco di trovate, ma così disomogeneo, disorganico, confusionario da risultare nonostante alcuni colpi genio, alquanto noioso.

Forse, rileggendolo? Non credo.

Del resto, quando lessi il suo “La nuova vita” ne ricavai impressioni analoghe. Ne scrivevo infatti: “pagine di astrattezze, continue riflessioni e osservazioni personali del protagonista Osman, fastidiosi elenchi, nella quasi totale assenza di azione, a meno di non considerare tale la descrizione di banali gesti quotidiani.”

Insomma, via, salvo che non osi leggere ancora qualcosa di suo, Pamuk mi pare autore con buone idee ma incapace di metterle in pratica in modo accettabile, per i miei gusti almeno. Evidentemente a Stoccolma la pensano diversamente, visto che gli hanno dato il Nobel.

LE TENEBRE NELLO SPECCHIO

Joshua Di Bello, chi è costui? Nessuno e molti. Sulla quarta di copertina di “Vitreo” (Opera Indomita, Giugno 2022) si legge “Joshua Di Bello esordisce nel mondo della scrittura nel 2016, interpretando se stesso nel romanzo Gli affamati (Homo Scrivens) del collettivo letterario Gruppo Nove”.

Credo, in realtà, che dietro questo pseudonimo si nasconda un gruppo di autori che a tale collettivo fa capo.

E cos’è “Vitreo”? Un breve thriller-detective story con toni da horror soprannaturale, con una serie di morti inspiegabili così numerose da ricordarmi il mio “Ansia assassina” (Liberodiscrivere, 2007), anche se credo non superi il suo record di decessi.

Significativa la citazione iniziale, presa da Dylan Dog che a molti già spiega il tipo di atmosfere che si

possono aspettare. Tutto gira attorno a una miniera di quarzite dalle strane proprietà e alla litigiosa famiglia Smokey.

Non manca l’investigatore che con così tanti casi pensa al serial killer ma brancola nel buio e in un letale gioco di specchi.

Lettura veloce che fa divorare le pagine una dietro l’altra, con un ritmo serrato e unitario nonostante le molte mani che credo siano dietro quest’opera singolare.

ENERGIA PULITA PER TUTTI

Come definire il romanzo “La formula del sole” (2020) di Milena Beltrandi?

Direi che è soprattutto un thriller avventuroso, ma il tema sottostante, la scoperta di una portentosa formula per la produzione di energia pulita ha toni fantascientifici se non da climate fiction.

Le etichette, però, si sa, non hanno mai molto senso perché ogni libro è sempre un po’ di questo e un po’ di quello. Possono aiutare comunque il lettore a sintetizzare un’idea del testo che potrebbe leggere.

Storia avventurosa, dunque, ricca di eventi e colpi di scena, con dei personaggi molto umani e in continua azione.

Una curiosità per questi tempi di conflitto: tra gli antagonisti troviamo degli ucraini cattivi, che spesso sono definiti più genericamente russi.

Già, perché nel 2020 chi di noi faceva poi molta distinzione tra di loro?

A investigare ritroviamo l’agente speciale Milo, che avevo già conosciuto in “Una crociera pericolosa”, romanzo sempre edito nel 2020. Non saprei dire quale libro venga prima dell’altro, ma sono comunque del tutto autonomi.

In comune hanno la capacità di Milo di risolvere con coraggio e arguzia i molti problemi che si trova ad affrontare.

Qui accompagna un professore di chimica e i suoi studenti nella difficile impresa di non far cadere la

Milena Beltrandi

preziosa formula energetica in mani sbagliate prima del suo brevetto. Sono in molti, infatti, ad ambire al potere e alla ricchezza che questo ritrovato offrirebbe e altrettanti sono quindi i pericoli da affrontare. Anche i “piccoli chimici” si riveleranno però ossi duri per i delinquenti che tenteranno di affrontarli.

Un romanzo quanto mai attuale oggi, con i prezzi dell’energia che vanno alle stelle e il mondo in guerra per il gas.

IL SOGNO DELLA LUNA

Quanti insuccessi prima di far mettere piede a Neil Armstrong sulla Luna! Da quando, ancora bambino nell’estate del 1969 mi lasciai incantare dalla telecronaca fiume del primo allunaggio umano sul nostro satellite, quel ricordo ha alimentato la mia fantasia e il mio amore per i viaggi spaziali e la fantascienza.

Da bambino mi ero molto interessato a tutto ciò che era girato dietro alle missioni Apollo e alle parallele imprese russe in quella incredibile sfida spaziale.

Non mi ero reso conto (o non me ne ricordavo più) di quanti fallimenti avessero preceduto i pochi successi della nostra ancora primitiva storia dell’esplorazione spaziale. Ero cosciente che l’allunaggio fosse stato il frutto fortunato di un’impresa quanto mai ardita, con rischi che oggi non credo oseremmo più correre, spinta dal vento per una volta fausto della competizione politica.

Leggendo il bel saggio “Sulla luna” (Edizioni Cento Autori, 2019) di Carmine Treanni ho così potuto scoprire i tanti retroscena di questa mirabile e per ora irripetuta impresa di inviare una “sporca dozzina” di ragazzotti americani su quel pallido volto notturno che tanto ha ispirato poeti e romanzieri.

Il saggio di Treanni, per l’appunto, alterna la narrazione della storia della conquista del nostro satellite a quella della letteratura che vi è fiorita attorno, rendendo il volume due volte interessante. Tre volte, anzi, se si considera che si conclude con la descrizione dei progetti futuri di esplorazione.

Era fallace l’articolo de “Il giorno” che titolava il 16 Luglio 1969: “Addio fantascienza!” pensando che il metter piede su quella roccia polverosa avrebbe spento ogni ardore creativo dei narratori: è vero che i viaggi spaziali si sono rivelati assai deludenti per chi ci vedeva in questo millennio viaggiare di stella in stella, ma la fantascienza ha saputo trovare molte altre “mete”, molti altri temi.

Carmine Treanni

Il sogno della Luna rimane una delle più belle imprese dell’umanità che “decise, dopo una sanguinosa e terribile guerra mondiale, di rivolgere il proprio sguardo verso le stelle” in un affascinante succedersi di prime volte: il primo razzo, il primo satellite artificiale, il primo essere vivente nello spazio, il primo uomo in orbita, il primo rendez-vous spaziale, la prima donna nello spazio, la prima “passeggiata spaziale”, il primo allunaggio, il primo uomo sulla Luna. E quante difficoltà, quanti problemi con una tecnologia ancora così primitiva.

Ed ecco che la penna di Treanni ci ricorda spettacoli e libri fondanti per la nostra cultura: Luciano di Samosata, l’Ariosto, Cyrano di Bergerac, il barone di Münchhausen, Jules Verne, Emilio Salgari, Wells, Mélies, Hamilton, Williamson, Heinlein, Clarke, Campbell, Simak e tanti altri dopo di loro. Serie TV come le indimenticabili “Spazio 1999”, “UFO”. In merito ricordo una bella antologia che raccoglie vari racconti sulla Luna: “Mille e una luna

Insomma, un bel volume da leggere, conservare e magari rileggere, per non dimenticarci mai che, sì, sulla Luna ci siamo stati. Se abbiamo fatto questo, cos’altro potremmo fare un giorno? E per chi sostiene che non è vero, Carmine Treanni ha scritto un capitolo apposta che aiuta a capire quanto si sbagliano i negazionisti.

I LUMACONI E IL LARDO DI COLONNATA ALLA CONQUISTA DELLA TERRA

I girasoli di Shaa-Mall-a” (avrò scritto bene il titolo? Mica facile!) di Maddalena Antonini, edito nella collana “Sci-fi Collection” di Tabula Fati nel 2017 è, a prima lettura, un romanzo di fantascienza umoristica, che fa pensare a romanzi come “Guida galattica per autostoppisti” o a serie TV come “Orville”, ma che nasconde al suo interno alcuni messaggi profondi. Come scrive la stessa autrice nella postfazione, è un romanzo “che assomiglia a una favola ed è pieno di buoni sentimenti”, ma nasconde dentro di sè alcuni significati da scoprire, per esempio dei riferimenti numerici alla cabala, dei simbolismi da scovare, dei messaggi etici. Sempre nella prefazione leggiamo che “il tema centrale della storia infatti è sicuramente l’empatia, quindi l’amore, che ho esposto in modo volutamente graduale”. Già, perché “l’unica cosa che esiste veramente nell’universo è l’emozione”.

Il tutto è anche, in parte una sorta di prematuro “testamento spirituale” e nel contempo “un omaggio alla cucina toscana” (che mi porta alla mente “Space food” di Andrea Coco, che ha in comune con questo libro una strana presenza di cucina italiana nello spazio profondo. Ma, soprattutto, non vi dimenticate che “L’Umorismo è la Grande Legge dell’Universo secondo Waa-Sha”.

La trama? Senza spoilerare troppo, immaginatevi una donna e un uomo che vengano rapiti da brutti

Maddalena Antonini

alieni simili a lumaconi giganti che si riveleranno poi molto più amichevoli e socievoli di quanto pareva a prima vista. Immaginatevi poi il tentativo di comprensione reciproca tra alieni e terrestri. Si rischia, però, la catastrofe, perché, “gli Americani ci bombarderanno, è una cosa che fanno spesso, una specie di abitudine per loro anche sulla Terra” spiega Linda agli alieni che la tengono prigioniera.

Il tutto scritto con i toni leggeri dell’umorismo, con abbondanti citazioni di musica rock. E con tanta cucina toscana, in particolare i crostoni con il lardo di Colonnata. Almeno questa ve la devo spiegare: la cucina toscana viene in realtà dallo spazio! E il titolo? Cosa fanno i girasoli? Seguono la nostra stella in cielo. E in un mondo con più soli? Si attorciglierebbero nel disperato tentativo di cercare la luce. E qui c’è dietro una metafora, ovviamente.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: