Posts Tagged ‘amore’

AMOR MATURO

Dopo Nel giardino di Emma” e “A guardare il cielo” torno a leggere un volume di Paolo Dapporto, apprezzato autore del GSF Gruppo Scrittori Firenze, “Stelle”.

Se il romanzo “Nel giardino di Emma” era tratto da uno dei racconti di “A guardare il cielo”, ho l’impressione sia lo stesso per questo breve romanzo. Alcuni passi mi suonano, infatti, noti, consueti. La scrittura di Paolo Dapporto, del resto, comincia a suonarmi familiare e questo non è difficile perché il mondo che descrive, toscano, mi è molto vicino e lo stesso le epoche di cui parla, avendo io vissuto le stesse età della vita con poco scarto rispetto a lui. Toni e sensazioni, dunque, suonano familiari ma non credo sia solo per quanto scritto ora. Credo che molto dipenda dalla capacità empatica di questo autore di raccontare di vita, amicizie, amori, fatiche, come da un amico a un altro amico.

La trama, cercando di non svelarne troppo, anche se non si tratta di un giallo, vede l’incontro, l’amicizia e l’amore di una coppia dai nomi biblici, Giuseppe (detto Pino) e Maria, lui cassintegrato, lei prostituta, che trovano un modo per sostenersi a vicenda e vivere assieme. Una storia che, nel suo piccolo, vuole forse insegnarci a superare i nostri pregiudizi.

Lettura veloce e piacevole, consumata nel mio lungo viaggio tra Firenze e Torino per partecipare al Salone del Libro di Torino, funestato e rallentato dalla tragica alluvione di questi giorni.

17/12/2022, Parterre, Firenze: Paolo Dapporto e Carlo Menzinger
Paolo Dapporto

SCOMPARIRE ALLA RICERCA DEL CLONE AMATO

Era un po’ che non leggevo nulla di Haruki Murakami (Kyoto, 12 gennaio 1949), autore sempre suggestivo anche se spesso con qualche debolezza narrativa. Ho da poco letto “A sud del confine, a ovest del sole” (1992), un’opera molto più mainstream di altre che avevo letto ed eccomi di nuovo a leggere qualcosa di suo con “La ragazza dello Sputnik” (1999).

Haruki Murakami

Nonostante il titolo, come per la precedente lettura, anche qui la fantascienza non c’entra per nulla. La protagonista, la giovane scrittrice Sumire, viene definita così dal coprotagonista voce narrante perché ha confuso il movimento letterario Beatnik con il celebre satellite artificiale russo. A dir il vero la confusione della ragazza non è del tutto immotivata. Leggo, infatti, che “La parola beatnik è stata inventata dal giornalista Herb Caen, del San Francisco Chronicle, in un suo articolo del 2 aprile 1958, come termine denigratorio per riferirsi ai beats, ovvero ai membri della Beat Generation, come unione di parole con il satellite sovietico Sputnik, per sottolineare sia la distanza dei beat dalla società statunitense corrente, sia il fatto che erano vicini alle idee comuniste” (da Wikipedia).

Il romanzo è uno dei più realistici di Murakami, anche se non manca un misterioso episodio in

cui Myu, la donna più matura di cui si innamora la giovane Sumire, rimasta bloccata su una ruota panoramica, sbirciando in casa propria con un binocolo vede se stessa fare l’amore con un uomo. Discesa dalla ruota si sdoppierà: una Myu rimarrà nel mondo reale ma con i capelli divenuti bianchi e una forte avversione per il sesso, mentre l’altra Myu, forse, continuerà una sua esistenza più libera in un altro spazio.

Quando Sumire misteriosamente scompare il narratore sospetta possa aver raggiunto, alla ricerca dell’amore, la Myu sdoppiata, perché rifiutata dalla Myu asessuata.

Lettura piacevole, scorrevole, con una trama più semplice e lineare di altre opere del giapponese come “Nel segno della pecora” (1982) con il ragazzino che fissa il pene di balena, l’autista con il numero di telefono di Dio e la pecora che entra nelle persone o  “La fine del Mondo e il Paese delle Meraviglie” con i suoi unicorni al pascolo o anche “1Q84” (2009) con  i Little People e le loro crisalidi d’aria. Siamo qui piuttosto dalle parti “Tokyo blues” (anche noto come “Norwegian wood”) come genere e come qualità non troppo lontani da “Kafka sulla spiaggia” che credo resti il suo romanzo che ho apprezzato di più.

Un autore, comunque, da continuare a leggere perché ogni sua opera apre un mondo nuovo.

AMORE OLTRE IL TEMPO

Ho sempre apprezzato le opere di Haruki Murakami (Kyoto, 12 gennaio 1949), sebbene spesso abbia trovato che alcune parti fossero un po’ prolisse.

Haruki Murakami

Tendo a considerarlo un autore di genere fantastico, anche se il suo approccio non è quello tradizionale e i suoi libri difficilmente riuscirei a collocarli nel fantasy, nella fantascienza o ancor meno in altri generi.

Ho letto ora un romanzo che è, invece, decisamente mainstream: “A sud del confine, a ovest del sole” (1992). Mi è parso forse, dal punto di vista narrativo, il suo romanzo più equilibrato, nel senso che nessuna parte, a differenza di quanto riscontrato altrove, pare debordare, allungandosi eccessivamente a danno della struttura complessiva.

Il titolo piuttosto surreale allude ai contadini che lavorano tutto il giorno dall’alba al tramonto, ma che, magari, un giorno possono decidere di cambiare vita, di andare cioè oltre quel confine temporale che è l’ovest in cui tramonta il sole, concetto espresso a un

certo punto dal protagonista.

Il romanzo parla, invece, dell’amore tra due bambini, Hajime e Shimamoto, entrambi figli unici in un tempo in cui questo era visto come strano e una sorta di “handicap” (così era anche quando ero piccolo io). Lei, in più ha anche un handicap fisico che la fa zoppicare.

L’amore infantile resta del tutto platonico e termina brutalmente per un tradimento di lui con la cugina della ragazza, ma poi i due si ritrovano molti anni dopo, quando lui ha già moglie e figli, trovandosi così tormentato tra due diverse forme d’amore. Oserà andare oltre il confine, a ovest del sole?

Il romanzo, tra i più semplici e diretti di questo autore, scorre piacevolmente con personaggi che restano nella memoria pur nella semplicità della loro vicenda.

LA VENDETTA DEL SIGNORE DI VENTIMIGLIA

Emilio Salgari

Ogni tanto rileggo qualche libro letto molti anni prima o addirittura durante l’infanzia, per vedere se mi restituisce sensazioni simili o per rinverdirne la memoria. È sempre una lettura nuova e diversa. Diverso è l’occhio e il modo di percepire le frasi. Di certo oggi mi interrogo sulla modalità di scrittura, aspetto che allora non mi interessava.

L’autore per eccellenza dei miei anni delle elementari fu Emilio Sàlgari (non costringetemi a chiamarlo Salgàri). Rileggo ora “Il corsaro nero” (1898), notando, come allora, la ricchezza delle sue descrizioni, sia dei dettagli (soprattutto fisici) dei personaggi, sia, in particolare dei luoghi, che descrive come se li avesse visitati (cosa che già da bambino sapevo non fosse vero).

La forza della narrativa di Salgari (Verona, 21 agosto 1862 – Torino, 25 aprile 1911), quella che te lo fa amare, io credo stia anche una questa ricchezza descrittiva che riguarda non solo immagini ma anche suoni e odori, navi, armi e piante, e che certo un moderno editor taccerebbe come digressioni o “spiegoni” che rallentano la trama. Rovistando trai ricordi d’infanzia, in effetti, credo che il mio sguardo a volte ci si attardasse ma altre volte vi scorresse veloce per precipitarsi verso le scene d’azione e i suoi dialoghi sanguigni. E anche in questi quante ripetizioni delle stesse idee! Eppure anche i grandi classici dell’antichità, da Omero in poi, erano scritti così. La ripetizione aiuta il lettore distratto, bambino o adulto che sia. È un difetto? Per un docente o un editor forse sì, ma per un lettore è un modo per calarsi con maggior facilità nella storia. Potenza narrativa, dunque è non difetto da autore di serie B. Una scrittura capace di raggiungere ogni cuore e ogni mente nella sua limpida immediatezza, ma che lo hanno condannato nel limbo della letteratura per l’infanzia.

Come autore apprezzo l’uso dei soprannomi per rendere facilmente ricordabili e identificabili i personaggi. Quanto è più facile memorizzare l’appellativo Corsaro Nero che non  Emilio, conte di Roccabruna (o Roccanera), signore di Ventimiglia e di Valpenta.

Un “soprannome” non molto politicamente corretto è quello di Moko, sovente definito Negro, ma erano altri tempi e nessun intento di insulto si coglie in questo termine che oggi suona un po’ razzista verso il personaggio, che ha pari dignità rispetto al timoniere Morgan (personaggio storico reale) o agli altri compagni filibustieri come il biscaglino Carmaux o il tedesco Wan Stiller.

Certo tre fratelli che usano i colori per farsi identificare hanno scatenato l’ironia di certi fumetti che leggevo allora.

Un aspetto di questo romanzo che non ricordavo dalla lettura infantile è l’ambientazione storica. Mi sfuggiva, per esempio, che Emilio di Roccabruna, assieme ai suoi tre fratelli, avesse combattuto per il Ducato di Savoia durante la Guerra d’Olanda (1672-1678). Già! Siamo in anni, quando Salgari scrive, in cui il Paese è da poco unificato sotto la guida dei Savoia e questo pare quasi un tributo dovuto ai nostri reali.

Da qui si dipana tutta la trama: il malvagio duca fiammingo Wan Guld, uccide a tradimento il maggiore dei quattro fratelli di Ventimiglia. I tre superstiti cercheranno di vendicarlo. Moriranno però, per mano di Wan Guld, prima il Corsaro Verde e poi quello Rosso.

Il fratello superstite giura di uccidere l’assassino e tutta la sua parentela ma ha la sventura di innamorarsi proprio della figlia del nemico. Da qui nasce il grave conflitto interiore del Corsaro Nero. Sarà più forte l’odio o l’amore?

Altro aspetto affascinante, soprattutto per un bambino, io credo sia il ricorso a un linguaggio speciale, come quello marinaresco, ricco di termini che al mio orecchio di fanciullo suonavano quanto mai misteriosi ma che anche oggi hanno per me un significato vago. È lo stesso fascino di autori come Tolkien o la Rowling quando inventano i loro neologismi. Come ho sostenuto scrivendo i romanzi di Jacopo Flammer, non è indispensabile creare neologismi per avere lo stesso effetto fascinante: basta usare un gergo inconsueto.

Il romanzo è il primo di un ciclo, “I corsari delle Antille” composto di vari romanzi alcuni apocrifi, pubblicati dopo la morte:

  • Il Corsaro Nero, 1898
  • La regina dei Caraibi, 1901
  • Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, 1905
  • Il figlio del Corsaro Rosso, 1908
  • Gli ultimi filibustieri, 1908.

E altri scritti da altri autori:

  • Il Corsaro Rosso, 1941, di Americo Greco.
  • Il Corsaro Verde, 1942, di Sandro Cassone.
  • Le ultime imprese del Corsaro Nero, 1941, di Autore sconosciuto.
  • La figlia del Corsaro Verde, 1941, di Renzo Chiarelli.

I DOLORI DEL GIOVANE GOETHE

I dolori del giovane Werther” (1774) di Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 – Weimar, 22 marzo 1832), una delle più celebri storie d’amore non corrisposto, ha visto nel corso dei decenni (ormai secoli) accrescersi un gran mucchio di critica letteraria, dunque questa mia lettura è in tal senso certo inutile e nulla di nuovo penso potrà aggiungere. Come di consueto, però, vorrei riportare qui alcune note di lettura. Innanzitutto, il notevole contenuto autobiografico che mi pare trasparirvi, tanto forte mi pare l’immedesimazione dell’autore con il proprio personaggio. Soprattutto nella prima parte. La sensazione che ho avuto è stata quasi quella di leggere un romanzo di genere fantastico (ucronia o fantascienza, fate voi) nel senso che partendo da un assunto reale, si sviluppa poi per vie del tutto immaginarie. L’assunto qui mi pare sia la vita dello stesso Goethe.

Come nelle più grandi opere che trattano dell’amore (ripensavo leggendo allo “Amleto” di Shakespeare), questo assume tutta la sua tragicità quando è messo a confronto con la morte. Qui, anzi, amore e morte paiono quanto mai correlati. L’amore è rivelato grazie alla morte.

La morte, poi, appare quasi un rito, per la meticolosità quasi burocratica con cui è preparata.

Un’affermazione che merita una riflessione è la seguente:

L’arte è come l’amore: un giovane innamorato si dedica interamente a una ragazza, passa tutte le ore della giornata con lei, a lei dedica ogni sua energia e i suoi averi, per dimostrarle che le appartiene completamente. A un certo punto si intromette un filisteo, un uomo che riveste una carica importante, e gli dice: «Mio caro signore, amare è umano, ma lei deve amare virilmente! Distribuisca le sue ore, ne dedichi alcune al lavoro e altre libere alla sua ragazza! Faccia un calcolo di ciò che possiede, provveda prima ai suoi bisogni; non le proibisco di farle qualche dono col rimanente, ma non tanto spesso; a esempio per il suo onomastico e compleanno ecc.». Se il giovane segue questo consiglio diverrà certamente un uomo utile e consiglierei a un qualsiasi principe di dargli un impiego; ma per il suo amore è finita e, se è artista, anche per la sua arte.”

Non sempre gli scrittori pensano quello che scrivono nei romanzi. Nulla di più sbagliato sarebbe credere che quanto afferma un

personaggio sia un’affermazione dell’autore. Il periodo che ho qui riportato, però, mi ha un po’ irritato per la sua assoluta falsità. “Per il suo amore è finita e, se è artista, anche per la sua arte”? Che assurdità! Come se l’arte e l’amore non possano convivere con una vita ordinata e sana. Al contrario. È solo grazie a essa che il vero artista può creare con serenità e libertà e che l’amore si fortifica ed evolve. Certo, se, invece, come in questo romanzo si viaggia verso un epilogo tragico, o addirittura verso il suicidio, il ragionamento funziona. Conclusione? Goethe, già con questa frase stava preparando il suo personaggio alla propria tragica morte. Suggerimento per gli autori: a volte occorre affermare assurdità se queste aiutano a entrare nella mentalità folle, malata o deviata del proprio personaggio. Può non essere facile e il lettore potrebbe fraintendere il pensiero e l’intenzione di chi scrive. Ma non dimentichiamo che questa è un’opera epistolare, dunque la voce narrante non può che essere terza rispetto al pensiero di Goethe.

Importante nel romanzo è anche il tema della pazzia e, in particolare, della pazzia d’amore. Ricercando il termine “pazzo” nel volume, vedo che compare innumerevoli volte.

Una frase che rende l’idea del conetto penso possa essere questa:

Guai a colui che assistendo a simile tragedia può dire: “Che pazza! Se avesse aspettato, se avesse lasciato trascorrere il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualcuno sarebbe giunto per consolarla!”. È proprio la stessa cosa che dire: “Che pazzo, è morto di febbre! Se avesse pazientato finché le forze gli fossero tornate, la linfa vitale risanata, il tumulto del suo sangue calmato, oggi sarebbe ancora in vita, e tutto sarebbe andato per il meglio!”.

Lettura tratta dal volume “I magnifici sette capolavori della letteratura tedesca” (E-Newton Classici – I Mammut).

VITE PARALLELE

Due storie parallele, quella di John (nome straniero ma italiano) sul Gran Sasso e quella di Teresa (italiana all’estero) a Berlino. L’anno è il 2016, come ripetuto all’inizio di ogni capitolo. Che queste due vite si dovranno raggiungere e congiungere il lettore lo immagina da subito, anche se sembrano tra loro davvero distanti e nulla sembra poterle unire.

Questa la struttura de “Il dito ritrovato” (Edizioni Solfanelli, 2020) della palermitana Francesca Picone (1980).

John è un musicista che fa uso di sostanze (“la cocaina aveva fatto scempio del mio corpo e io glielo avevo permesso”) e cerca una sua dimensione, trovandosi poi travolto dal terremoto abruzzese.

Teresa è una neolaureata che cerca un lavoro adeguato ai suoi studi nella capitale tedesca ma nel frattempo lavora come operaia in una fabbrica di cioccolato, dove, in un momento di particolare emozione per l’omicidio di una compagna di lavoro, si distrae e perde un dito nell’impasto per il cioccolato. Teresa patisce “l’abbandono della propria terra” (Napoli) e il “fallimento delle” sue “esperienze con gli uomini”.

Entrambi si rifugiano nel web, lui come Saxxoro33 (il sax è il suo strumento e la sua passione), lei come Teresina00. Ma non sarà la rete a farli incontrare, come parrebbe più ovvio.

Altre vite si incrociano alle loro. Edoardo con Teresa, uno che vede gli spiriti e si sente sempre spiato, eppure…. Ma anche con Lara, che le offre una vera amcizia.

John perde Frank, il fratello ciclista, che mette “fine alla sua vita con un’overdose di farmaci”, e la ragazzina amish Mary (che riapparirà poi a sorpresa) con cui aveva trascorso un anno.

Incontri che nulla di buono portano alle loro esistenze e alla fine John e Teresa restano sempre soli. Berlino, in particolare, non sembra a Teresa (abituata alla socievolezza partenopea) offrire occasioni di amicizia. Pare difficile trovare un “posto in una società massificata, dove era divenuto quasi impossibile distinguersi, preservare una salutare identità”.

Per John, il terremoto, nella sua drammaticità, spazzando via la sua stessa casa, diventa il momento di rottura che gli dà la giusta scossa per ricominciare, disintossicarsi e trovare nella musica e nell’insegnamento una ragione d’essere.

Francesca Picone

Sarà la perdita del dito a portare novità nella vita di Teresa, che deve nascondere l’incidente per paura di farsi licenziare.

Molti altri gli eventi nelle loro vite e ne ho già raccontato anche troppo.

Voglio solo concludere dicendo che è romanzo che si legge con interesse e partecipazione, ricco di situazioni e sviluppi che lo rendono lettura piacevole che a volte emoziona.

ADDIO ALLE BRACCIA AMATE

Copertina dell’edizione italiana del romanzo Addio alle armi di Ernest Hemingway, primo numero della collana Oscar Mondadori

Mi sto riconciliando con Ernest Hemingway, dopo i dissapori di gioventù. Quando lo lessi per la prima volta, molti anni fa, da ragazzo, non mi piacque o, forse, sarebbe più giusto dire, mi lasciò indifferente.

L’ho scoperto in tempi più recenti, apprezzando “Il vecchio e il mare”. Torno ora a leggerlo in una delle sue opere più importanti, “Addio alle armi” (1929 – “Farewell to Arms”, che si potrebbe anche tradurre come “Addio alle braccia” dell’amata). Si tratta, in sintesi, di un romanzo di amore e guerra ambientato durante il primo conflitto mondiale in Italia e vede come protagonista un ufficiale americano che collabora con gli italiani guidando un reparto medico ma che a seguito della disfatta di Caporetto diserta.

Leggendolo mi tornava sempre in mente il romanzo “Memories of a desert rat” (1996) scritto dal mio prozio Adrian Jucker. Questo per due motivi. Il primo è che entrambi scrivono di un anglosassone (americano Hemingway, inglese Jucker) che combatte in Italia (per Hemingway nella Prima Guerra Mondiale, per Jucker nella Seconda). Il secondo e più importante motivo è che in entrambi i libri ho avuto la sensazione come se la guerra fosse tutto sommato solo una parte marginale della vita di questi ufficiali al fronte, che, per l’appunto, continuavano a vivere, preoccupandosi di mangiare e bere bene, di incontrare donne, facendo amicizia e innamorandosi. Oggi tendiamo a dipingere le guerre come qualcosa di cupo e drammatico, ma sebbene Hemingway dichiari, persino nella prefazione, di essere contro la guerra, e sebbene il suo protagonista alla fine diserti, non mi ha fatto percepire in alcun modo il vero orrore del conflitto. Non per nulla in Europa ci si apprestava a combattere un’altra terribile guerra a pochi anni dalla fine della prima. Non era, io credo, ancora maturo nel mondo un autentico spirito anti-bellico, come abbiamo conosciuto nei decenni successivi al 1945. Spirito di cui mi pare ci stiamo ormai già dimenticando.

Per questo stesso secondo motivo, mi viene da pensare anche a “Guerra e Pace” (1869) di Lev Tolstoj: anche leggendo questo romanzo ho visto molta poca guerra, soprattutto nella prima parte! Penso allora a tanti film di guerra del secolo scorso e persino a certa fantascienza recente in cui non si fa altro che combattere o in cui si vede davvero molto più orrore che non in queste opere.

Il protagonista di “Addio alle armi”, Frederic Henry, dopo aver disertato ed essere fuggito ai carabinieri con un tuffo rocambolesco, fugge in Svizzera con la sua amata inglese, ma lì dovrà dire addio oltre che alle armi anche alle…. braccia di Catherine.

Lettura, oltre che importante, in ogni caso piacevole. Credo che proverò ad approfondire la mia conoscenza con questo americano, che mi era parso solo un tipo un po’ troppo amante della caccia, del bere e della bella vita, ma che, pare, abbia qualche cartuccia da sparare.

IL FANTASMA DELL’AMORE

Moonlight shadow - Banana Yoshimoto - Recensioni di QLibri

Come ci racconta Wikipedia “Moonlight Shadow” è il primo romanzo breve della scrittrice giapponese Banana Yoshimoto, scritto come tesi di laurea nel 1987. Il racconto è incluso nelle edizioni del romanzo Kitchen, in realtà composto da tre romanzi brevi, “Kitchen”, “Plenilunio” e appunto “Moonlight Shadow.

Si tratta in effetti di un romanzo talmente breve che la definizione di racconto si attaglia assai meglio. Lo avevo già letto in “Kitchen”, ma iniziandolo non ricordavo che ne fosse parte.

Racconto di un amore adolescenziale dal tragico epilogo e di un luogo incantato in cui è possibile incontrare ancora le persone amate perdute.

Una storia leggera e gradevole, arricchita da un piccolo tocco di magia, ma non un’opera memorabile. Giapponese (anche il mito descritto) ma molto occidentale. Letto in meno di mezz’ora.

Biografia di Banana Yoshimoto
Banana Yoshimoto (吉本ばなな Yoshimoto Banana), pseudonimo di Mahoko Yoshimoto (吉本真秀子 Yoshimoto Mahoko) (Tokyo24 luglio 1964) è una scrittrice giapponese.

UN RAFFINATO ROMANCE ORIENTALE

Il rapporto tra Viola e Matteo matura e, divenuto ormai un matrimonio con tanto di figli, affronta nuove difficoltà, compresa le seduzioni di nuovi amori. Il terzo volume di questa saga di Caterina Perrone, intitolato “Rivelazioni” continua a muoversi in un non-tempo che somiglia al XIX secolo, in luoghi che talora assumono precise connotazioni geografiche, come Cipro o il vicino Oriente, ma altre rimangono nella poeticità dei non-luoghi.

Nuovi personaggi e nuove relazioni si intrecciano e si aggiungono a quanto già conosciuto nei precedenti “Lo sguardo e il riso” (Porto Seguro, 2017) e “Danza nel deserto” (Porto Seguro, 2018), soprattutto figure di bambini.

Per questa terza prova, l’autrice fiorentina (di origini emiliane) lascia la casa editrice toscana per produrre in proprio il romanzo con la Girogiò (2020). Corredano, però, sempre il volume le belle illustrazioni del marito Gianni Mannocci, ricche di particolari e di dettagli ed eleganti come lo è la scrittura di Caterina Perrone.

L’autrice, dopo essere approdata al GSF Gruppo Scrittori Firenze ha anche partecipato, come me, all’antologia di quest’associazione “Accadeva in Firenze Capitale” (Carmignani Editrice, 2021) e sta ora curando con me per il GSF l’antologia per i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri “Gente di Dante”, di prossima pubblicazione con il Gruppo Editoriale Tabula Fati., dedicandosi quindi sempre più alla narrazione storica.

L'estate infinita di Cipro tra sole e mare | SiViaggia

L’AMORE NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO AMERICANI

Sappiamo tutti che la Storia la scrivono i vincitori, in particolare la Storia di guerra. Colpisce sempre, però, quando

Jamie Ford
Jamie Ford

capita di affrontarla da un altro punto di vista. Da decenni ormai gli indiani non sono più i cattivi nei western, ma altri cambi di prospettiva faticano a realizzarsi. La Seconda Guerra Mondiale forse c’era ancora troppo vicina perché qualcuno ne rovesciasse le prospettive.

Non parlo certo di pretestuosi negazionismi, ma del portare in evidenza colpe nascoste dei vincitori. L’orrore dei campi di sterminio nazisti, per esempio, non dovrebbe farci dimenticare che c’erano campi di concentramento anche nella “libera” America, in cui furono deportate intere famiglie di cittadini americani, colpevoli solo di essere di origine giapponese: uomini, donne, vecchi e bambini.

Il gusto proibito dello zenzero” di Jamie Ford (Eureka, California, 9/7/1968) non è un romanzo di denuncia e non è stato scritto da un giapponese, ma una storia d’amore alla Romeo e Giulietta, dove gli amanti non sono divisi dalle divergenze familiari ma da quelle dei popoli d’origine. Henry e Keiko sono, infatti, entrambi dei dodicenni americani, ma d’origine cinese lui, d’origine giapponese lei.

La Seconda Guerra Mondiale, che da noi tendiamo a vedere come un conflitto europeo esteso ad altre parti del mondo, nel romanzo appare come un prolungamento della guerra cino-nipponica. Quasi non si parla di tedeschi, inglesi, francesi e russi.

La narrazione ci mostra anche un diverso aspetto del razzismo americano, diverso da quello verso gli afro-americani: quello contro gli orientali.

Ecco quindi questa bella amicizia tra due ragazzini di dodici-tredici anni e un musicista jazz di colore adulto. Ecco una storia con la musica in sottofondo, che ci mostra in modo nuovo uno spaccato della provincia americana (Seattle) in due periodi, gli anni quaranta e ottanta del secolo scorso.

Mentre leggevo la mente mi correva spesso a un altro bel romanzo, “Venivamo tutte per mare” di Julie Otsuka, che ci narra come, a bordo di una stessa nave, siano arrivate in America tante ragazze giapponesi per sposarsi con un marito conosciuto per corrispondenza, che in America hanno vissuto e che allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale sono diventate il nemico, sono state rinchiuse in ghetti e lager o scacciate, perdendo tutto quello che avevano creato con

Il gusto proibito dello zenzero - Jamie Ford - copertina

anni di vita e lavoro.

Anche la giovane protagonista de “Il gusto proibito dello zenzero”, che neppure conosce il giapponese, finirà in uno di questi lager assieme alla famiglia e poi sarà allontanata. La giovane storia d’amore si spezzerà, come il metaforico disco a 78 giri, che appare nel romanzo, e le loro vite prenderanno strade diverse, pur restando i loro cuori uniti.

Il romanzo neppure accenna al forse ancora più grande orrore delle due atomiche sganciate su un Paese ormai sconfitto e si mantiene distaccato, senza denunciare o accusare, ma mostrando semplicemente l’ingiustizia e il razzismo nelle loro manifestazioni materiali.

Per chi volesse approfondire la Storia del conflitto da punti di vista diversi, suggerirei, per i coinvolgimenti americani nella gestione dei campi nazisti l’ucronico (ma tutt’altro che insensato) “Processo n.13” di Pierfrancesco Prosperi e,  sulla scelta di bombardare la popolazione civile tedesca, la  “Storia naturale della distruzione” di Winfried G. Sebald.

A proposito dell’autore, nell’intervista che chiude il volume, spiega di essere cinese ma che suo nonno adottò il cognome Ford per sembrare più americano e che la storia, per quanto inventate a alcuni collegamenti con ricordi familiari.

La traduzione italiana del titolo (“Hotel on the Corner of Bitter and Sweet”) è suggestiva e mi ha indotto alla lettura anche per la mia passione per lo zenzero, che, in realtà, vi compare ben poco, a parte un punto in cui si dice che viene utilizzato nella preparazione del gin, cosa che mi pare piuttosto strana. Semmai si usa per aromatizzarlo, non come ingrediente base.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: