VIA DA SPARTA
di Carlo Menzinger di Preussenthal
Credeva in infinite serie di tempo,
in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli.
Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano,
si tagliano o s’ignorano per secoli comprende tutte le possibilità.
(Jorge Luis Borges – Finzioni – Il giardino dei sentieri che si biforcano)
IL SOGNO DEL RAGNO
1 – LA TESSITRICE
Dopo che tutte le fanciulle e tutti i giovani non sposati
sono stati rinchiusi in una sala oscura,
ciascuno portava con sé senza dote quella che aveva afferrato.
(Ermippo di Smirne[1])
Aracne viveva in un tempo che non le apparteneva. In un tempo che non è neanche il nostro. Aveva diciassette anni, ma non si sentiva giovane e non considerava la sua un’età felice. Se quella mattina le avessero detto che al calar del sole un gruppo di ragazzi l’avrebbe costretta a fare sesso in mezzo alla strada, non si sarebbe stupita.
Non indossava nulla, ma era accaldata. Una goccia di sudore scivolò lungo il ragno tatuato sulla fronte. La ragazza la asciugò con il dorso della mano. Anche questa era tatuata. Il disegno raffigurava due anelli intrecciati. Non aveva altri tatuaggi. Non era stata lei a sceglierli. Per quel che ricordava, li aveva sempre avuti.
Aracne inspirava a fatica l’aria, densa del respiro pesante delle altre donne. In quello spazio stretto e tetro come il ventre afflosciato di una vacca morta di fame nessuna finestra si affacciava sull’esterno, ma Aracne sapeva che era sera. Lo capiva dal peso della propria stanchezza. Aveva passato l’intera giornata a quel telaio infernale cui era legata tutti i giorni della settimana, ormai da molti anni. Troppi, rispetto ai pochi che aveva. Odiava quella stanza sotterranea, illuminata solo dal tremolare di torce puzzolenti, il cui fumo le bruciava gli occhi arrossati. Lei e le sue compagne tessevano senza posa per le brame del signor Zotikos. Non era il vero padrone. La filanda era gestita da sua moglie, che seguiva l’amministrazione per conto della Gerusia, ma tutte loro chiamavano quel buco la Filanda di Zotikos, anche se lui era più che altro il cane da guardia dell’amministratrice. Abbaiava e, a volte, mordeva. Dove non bastava la sua frusta, arrivava con l’unico pugno che gli era rimasto e a volte con i denti. Le tessitrici, ridendo, dicevano che con la padrona uggiolava, ma la cosa ad Aracne sembrava improbabile. Le donne lo descrivevano carponi leccare le natiche della moglie e sghignazzavano cercando di non farsi sentire. Anche Aracne rideva, ma la padrona non le interessava: la vedevano di rado e quindi consideravano il marito come il loro capo. Zotikos aveva lasciato l’esercito in seguito alla perdita di un braccio. Diceva che l’avevano “sfrondato” in battaglia, e da allora si occupava della fabbrica. Non lo faceva volentieri, perché per lui era un ripiego, attività poco onorevole per un militare, e quindi maltrattava piuttosto spesso le sue collaboratrici, sfogando la propria frustrazione. Pretendeva da loro un rigore e una disciplina cui si era abituato sotto le armi, ma le donne non erano soldati e non sembravano volergli dare soddisfazione. Questo lo irritava molto. Anche se non le mordeva, questo cane, per come le trattava, era come se lo facesse.
Aracne uscì in strada con grande sollievo, sebbene sapesse che, passata la notte, sarebbe dovuta tornare al telaio e così ancora il giorno dopo e quello dopo ancora, per un tempo che non prevedeva alternative né fine. Respirò a fondo l’aria della sera, riprendendo un poco di forza. Il vento raffreddò il sudore sulla pelle nuda.
I suoi lineamenti delicati, resi ancor più affilati dalla stanchezza, lasciavano sui muri ombre taglienti più lunghe di lei, già alta e slanciata. Presto
sarebbe stato buio. Doveva affrettarsi. Camminando rasente alle pareti, come sua abitudine, quasi sperasse in tal modo di confondersi con la sua stessa ombra e di non essere notata, si avviò a qualche isolato da lì, verso la stanza del gineceo che divideva con Anthousa, una ragazza sua coetanea. Un bugigattolo scuro, una topaia nel quartiere più sporco, lontano dal mare, in quel grande edificio seminterrato popolato solo di schiave ilote, scarafaggi e sordidi sorci. Avrebbe preso dalla mensa un po’ di zuppa nera e si sarebbe subito buttata sul pagliericcio, per riprendere un po’ di energia, pensava.
Era difficile, per chi la incontrasse, nonostante la spossatezza che la pervadeva, non notare la bellezza dei suoi occhi verdi da gatta e i lunghi e foltissimi capelli neri, che teneva raccolti alla buona in un’ampia coda di cavallo, perché proprio non aveva il tempo di pettinarli come avrebbero meritato. Il laccio sulla nuca lasciava liberi solo i capelli sulla fronte con cui cercava di nascondere il tatuaggio, quel ragno di cui si sentiva prigioniera. Quanti giorni erano passati dall’ultima volta che li aveva potuti lavare? Non lo ricordava neppure. Avrebbe voluto farlo, ma la sera era sempre troppo stanca. Forse, pensava, era meglio così: non voleva sembrare bella. La sua bellezza la affaticava ed era fonte di guai. Aveva però l’incoercibile splendore dei diciassette anni. I suoi capelli, simili a un’immensa criniera, attiravano l’attenzione. Quel maledetto ragno che le avevano tatuato sulla fronte e da cui prendeva il nome calamitava gli sguardi. Pensandoci ci spinse sopra una ciocca di capelli della frangia. Come avrebbe voluto qualcosa con cui nasconderlo meglio! Sparta, però, non ammetteva l’uso degli abiti, né tantomeno di cappelli o veli per la testa. Mollezze inaccettabili e immorali.
Il sentiero polveroso e secco non era deserto, ma i passanti erano abbastanza rari e si affrettavano verso le rispettive abitazioni, essendosi ormai quasi fatto buio. La notte i controlli si allentavano, le pattuglie si facevano rare, i giovani in libertà andavano in caccia di sesso, risse e avventure. Nel silenzio si poteva sentire, sebbene lontano, il rumore della risacca. Gli abitanti di Neapolis amavano il loro mare e ne erano orgogliosi.
Con un fremito Aracne notò un gruppo di ragazzi venirle incontro. L’aria della sera era ancora calda, quasi afosa, e i giovani giravano senza tuniche o mantelli, com’era uso in estate in tutto l’impero di Sparta. Nudi, come anche lei era.
Senza tanti complimenti si avvicinarono e, girandole attorno, la squadrarono. Erano in quattro e mostrarono tutti di apprezzarne la sensualità. Non solo a parole. Strusciarono i loro corpi nudi contro la sua pelle, altrettanto esposta, esplicitando le proprie pulsioni.
– Vi prego, ragazzi – tentò di fermarli Aracne – apprezzo le vostre attenzioni, ma sono davvero molto stanca. Potete trovare ragazze più belle e riposate di me senza problemi, che sapranno farvi divertire assai meglio. Sarà per un’altra volta, via.
-Perché mai? A noi piaci così! Vero, ragazzi?
-A me piaci tu. Non voglio un’altra ragazza. A me piaci tu. A me piaci tu, tu, tu – canticchiò uno di loro, tastandole i capezzoli con le dita, prima pigiandoli e poi pizzicandoli.
-Tu, tu, tuuu! – fecero eco altri due.
-Guardate che bel bosco frondoso che ha laggiù! Ne avete mai visto uno così peloso?
– Sottobosco frondoso e rigoglioso, direi, ci manca però qualche albero.
-A quelli ci pensiamo noi, vero ragazzi?
-Oh sì!
-Oh sì, sì, sì! – cantilenarono in coro.
-Non sono una buona amante, vi assicuro – tentò ancora di difendersi, ma sapeva già che le sue erano solo parole al vento. Le uscirono fiacche, senza speranza di essere ascoltate. Sentiva già la loro eccitazione premerle dura contro le gambe e nel solco tra le natiche. Aveva mani che la toccavano ovunque, soprattutto tra le cosce.
Due uomini di passaggio si avvicinarono, lanciarono uno sguardo distratto e proseguirono il loro cammino continuando a chiacchierare delle loro
cose. Sull’altro lato della strada una donna aprì un portone e, dopo aver occhieggiato per un attimo la scena, rientrò in casa. Nella bella stagione a ogni angolo si potevano vedere corpi nudi stringersi in veloci amplessi sul selciato. Ogni bella ragazza sapeva che difficilmente di sera avrebbe potuto percorrere una via per intero senza dover cedere ad almeno un rapporto sessuale. Era diritto di ogni uomo o ragazzo prendere ogni donna volesse, purché fosse un’ilota[2], una schiava pubblica, com’erano la maggior parte degli abitanti di Neapolis. Diversa era la storia per le donne degli spartiati[3], i padroni della città e dell’Impero. A Neapolis, comunque non ce n’erano molte e difficilmente andavano in giro da sole a quell’ora. I ragazzi non avevano dovuto controllarle il tatuaggio con gli anelli intrecciati sulla mano per capire che era un’ilota. Una schiava si faceva riconoscere dal portamento e dall’aspetto. Per quanto bella fosse Aracne, non poteva competere con la maestosità delle spartiate, le padrone di Sparta, che camminavano con il passo felino delle regine.
Aracne notò i passanti, ma non fece nulla per attirare la loro attenzione, perché sapeva di non potersi opporre alla volontà di quei ragazzi. Essere presa così, in mezzo alla strada, dopo una dura giornata di lavoro, però proprio non le andava giù. Quelli poi non erano giorni buoni e la ragazza aveva una gran paura di restare incinta.
-Forza! Non farci aspettare – la incitò un terzo ragazzo dai pettorali ben palestrati e ancora lucidi d’olio – non vedi che siamo pronti per te. È ora di fare un po’ di rimboschimento alla tua bella foresta – aggiunse mettendo spavaldo in mostra ciò che, pur distogliendo lo sguardo, Aracne già vedeva bene ergersi tra le sue gambe.
Il quarto, quello che ancora non aveva parlato, le si appiccicò contro il ventre, agguantandole le natiche con entrambe le mani, e prese a lambirle il collo – è ora di iniziare la semina – le sussurrò nell’orecchio mentre lo leccava.
Aracne, sentendo tutte quelle dita sulla pelle, cercò di divincolarsi a quella presa anche troppo esplicita, ma il primo che aveva parlato si mise alle sue spalle e la bloccò. La ragazza ebbe un sussulto quando sentì la pelle del ragazzo aderire contro la propria schiena nuda. Il ragazzo che l’aveva afferrata prima le si strofinò contro, scivolandole tra le gambe, sempre senza mollare la presa sul sedere. Uno le affondò la lingua in bocca. Il suo alito di cipolla e vino la disgustò. Un altro le baciava il collo. Li sentiva ovunque attorno a lei. Non le parevano più solo quattro. Le pareva un’intera enomotia[4] o forse una falange oplitica al completo. “Non di nuovo” pensò “non un’altra volta!” Eppure sentiva che, suo malgrado, anche lei si stava eccitando. Il fatto di essere stata scelta per quella veloce orgia stradale, poi, un poco la inorgogliva. La faceva sentire bella e desiderata, nonostante la stanchezza e il fastidio per la mancanza di libertà e di scelta in questi amplessi obbligati e violenti. La prima volta che le era capitato era spaventata. Ora, dopo che qualcosa del genere le capitava quasi ogni sera, nonostante a volte riuscisse a eccitarsi e a provare piacere, si sentiva soprattutto stanca e infastidita da questi assalti.
Una donna che chiudeva le imposte, guardandoli, scosse leggermente il capo, mentre il primo ragazzo già la possedeva, penetrandola con vigore. Il loro sudore si mescolava al suo. Sotto quella spinta non riuscì a trattenere l’eccitazione, si arcuò, buttando la testa all’indietro e quasi si gettò sulla bocca di un altro ragazzo che prese a baciarla, mentre scopriva che le sue mani cercavano di affondare nella carne del ragazzo che le stava davanti, attirandolo a sé. Contro la sua stessa volontà stava godendo. Spasmodicamente. Voluttuosamente. Appassionatamente. Quando tutti e quattro, infine, furono soddisfatti, la lasciarono sfiancata in terra e se ne andarono.
Solo uno di loro, le rivolse ancora la parola, salutandola con un:
-Alla prossima, bel boschetto!
Poi si misero a canticchiare ridendo:
-A me piaci tu. A me piaci tu, tu, tu.
Mentre il suono della loro voce si perdeva nella notte estiva, Aracne rimase ancora qualche secondo in terra. I suoi capelli neri erano sparsi sul
selciato, formando un’ampia chiazza scura che dall’alto, nell’oscurità crescente, la facevano quasi sembrare un cadavere bianco immerso nel suo sangue. Il respiro era affannato. Si sentiva sconvolta e ancora preda di quell’eccitazione indesiderata. Era troppo stanca e provata per rialzarsi subito. Sentiva il pavimento ruvido del marciapiede macchiarsi di sangue sotto la pelle nuda delle natiche e della schiena. Non era vergine. Neanche prima. La sua verginità era un ricordo d’infanzia. Il sangue veniva dai tagli provocati dallo sfregamento contro il terreno. I ragazzi non l’avevano picchiata, anche perché lei si era opposta solo a parole, sapendo di non averne diritto, ma, nell’eccitazione, non c’erano andati leggeri e l’avevano sbattuta contro il muro e il selciato. Un sasso le si era infilato nella schiena, scorticandola. Il sangue veniva da lì. Non badava però al dolore. Non a quello. Il sole era ormai tramontato e l’aria si era fatta un po’ meno calda, ma non fu per questo che Aracne ebbe un brivido che le percorse tutto il corpo. Mentre la possedevano, era quasi riuscita a dimenticarsi della sua paura, ma, adesso, da sola, il timore di essere rimasta incinta, la prese. Di nuovo. Quante volte doveva provare quell’angoscia? Quante altre volte avrebbero abusato così del suo corpo? Quante altre volte una creatura non desiderata sarebbe cresciuta nel suo ventre?
Avrebbe dovuto aspettare un altro mese per conoscere la verità, ma era fin troppo sicura di quale sarebbe stata.
Vedendola in terra, una donna che passava le chiese:
-Tutto bene?
-Sì, grazie, sono solo un po’ stanca.
Osservandola un attimo, alla donna fu chiaro cosa fosse successo e aggiunse:
-Fortuna che ormai sono troppo vecchia: essere presa così per strada mi lasciava sempre sconvolta! Ora capita di rado e quasi mi dispiace – ammiccò – però vivo più tranquilla.
Aracne ne scrutò distrattamente i seni afflosciati e i peli del pube appena ingrigiti.
-A volte vorrei essere già vecchia, per camminare in pace – le disse.
-Non dirlo troppo forte, non sia mai che gli Dei ti sentano! La gioventù ha i suoi problemi ma anche le sue gioie!
-Certo, lo so, e la vecchiaia ha i suoi dolori – erano frasi fatte, piccoli riti tra sconosciuti – ma vorrei poter essere più libera e decidere per me, per il mio tempo e il mio corpo.
-Dovevi nascere uomo, allora – rise la donna, allontanandosi con un gesto di saluto – e magari spartiate!
La ragazza le sorrise, tirandosi su a sedere, ma non era d’accordo. Gioie? Quali erano le gioie della gioventù? Non l’aveva mai capito. Non le sembrava neanche che gli uomini se la passassero tanto meglio. Neppure loro disponevano veramente di loro stessi, anche se ne avevano, forse, l’illusione. Non certo gli iloti come lei. Non lì a Neapolis, all’ombra del Vesuvio, né in nessun luogo di Sparta, dal Mare Oceano alle più sperdute province della Chitrinodermia[5].
Aracne si rialzò e tornò al gineceo, a quella stanza poco illuminata che considerava la sua casa. Il sangue delle scorticazioni aveva già smesso di scorrere. Erano solo dei graffi. Non era certo quel sangue a preoccuparla. Pensava invece con angoscia a quello mestruale che tra pochi giorni forse non avrebbe visto.
Il gineceo non aveva porte. Si poteva entrare in ogni momento. La sua stanza si apriva sul corridoio, come gli alloggi delle altre donne. Quando arrivò in camera, la sua compagna di stanza già dormiva e la ragazza raggiunse il catino. L’acqua corrente non era un lusso da iloti. Con una spugnetta bagnata Aracne si sciacquò come poté e scivolò silenziosa sul pagliericcio abbracciandola senza svegliarla. Rinunciò persino a passare dalla mensa in cerca della zuppa fredda cui aveva pensato uscendo dal lavoro. Le era passata la fame.
COSI’ INIZIA “IL SOGNO DEL RAGNO” DI CARLO MENZINGER DI PREUSSENTHAL – PORTO SEGURO EDITORE – SETTEMBRE 2017
NOTE
[1] Ermippo di Smirne – FHG III, 37 = Ateneo, XIII 555b-c
[2] Iloti: il termine significa “conquistati”. Erano gli schiavi “pubblici” di Sparta. Non appartenevano, cioè a nessuno, ma all’intera città. Gli Iloti (in greco Εἱλῶται o Εἱλῶτες) erano, nel sistema sociale di Sparta, una parte della popolazione del territorio dominato dalla polis greca vivente in stato di schiavitù. Forse sarebbero i discendenti di chi abitava la Laconia prima dell’invasione e della conseguente sottomissione da parte dei Dori, verificatasi attorno al X secolo a.C., cui poi si aggiunsero, nel VIII e VII secolo, gli abitanti della Messenia, dopo la conquista della loro regione per opera di Sparta. Secondo un’ipotesi, l’etimologia del nome deriverebbe da Elo, una città della Laconia conquistata all’inizio dell’espansione spartana.
[3] Spartiati: cittadini di pieno diritto nell’antica Sparta.
[4] Enomotia: unità base della falange, composta da 23 opliti posti su 3 file di 8 uomini, comandati da 2 ufficiali Enomotarca, posizionato in prima fila e Ouragos, posto in ultima fila; due Enomotiai formavano una Pentecoste comandata da un Pentecontarco.
[5] Chitrinodermia: Asia (Terra degli uomini dalla pelle gialla)
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