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L’ISOLA DEL CORSARO INGLESE

L’isola dei pirati” è un romanzo di Michael Crichton (Chicago 23/10/1982-Chiacago 4/11/2008)  pubblicato postumo, dopo che è stato rinvenuto all’interno del suo computer.

Ricorrendo proprio ieri il settimo anno dalla morte dell’autore, sono lieto di segnalarlo come ricordo di questo maestro di bestseller, noto soprattutto per opere come “Jurassic Park”.

Si tratta di un gradevolissimo romanzo di avventura ambientato in Giamaica nel 1665, con una discreta ricostruzione storica della pirateria in quel periodo, che, per esempio, chiarisce la differenza tra pirati e corsari e i rapporti di questi con le corone europee.

Si presenta come una storia incalzante e vivace, in cui continui colpi di scena si susseguono e vediamo in azione personaggi ben caratterizzati. Insomma, una versione più moderna e scattante degli amati romanzi di Emilio Salgari, con tesori da conquistare, fanciulle da salvare, intrighi, tradimenti, agguati, battaglie navali. Una scrittura fluida e gradevole, che non fa pensare a un romanzo solo abbozzato, ma un’opera ormai conclusa (non ho idea quanto abbia però dovuto lavorarci sopra l’editor).

Michael Crichton

Imperdibile per chi ama il genere.

 

P.S. Una curiosità personale: mentre finivo di leggere questo romanzo ho cominciato a leggere “La chimica della morte” di Simon Becket e mi sono trovato, come in una misteriosa trasposizione a leggere in entrambi le avventure di un protagonista di nome “Hunter”. Qui è il corsaro Charles Hunter, lì è l’anatomapatologo forense David Hunter. Parenti?!

 

P.P.S.: Ormai leggo sempre più con il sintetizzatore vocale: questo libro, letto su carta, ho impiegato oltre due mesi a finirlo, mentre se fosse stato un e-book probabilmente l’avrei finito in meno di dieci giorni. La lentezza non dipende certo da quanto fosse avvincente la storia (lo era) ma dallo strumento di lettura (cartaceo). Con il TTS dell’ebook riesco a trovare molte più occasioni di lettura.

I ROMANZI DELLA TORRE NERA

A conclusione dei precedenti post sulla Torre Nera, vorrei ricordare qualcosa sulla struttura della saga.

I volumi principali sono:

  1. La torre nera I: L’ultimo cavaliere(1982, pubblicato originariamente come romanzo breve; edizione rivista nel 2003(The Dark Tower I: The Gunslinger)
  2. La torre nera II: La chiamata dei Tre(1987) (The Dark Tower II: The Drawing of the Three)
  3. La torre nera III: Terre desolate(1991) (The Dark Tower III: The Waste Lands)
  4. La torre nera IV: La sfera del buio(1997) (The Dark Tower IV: Wizard and Glass)
  5. La torre nera V: I lupi del Calla(il titolo annunciato era L’Ombra Strisciante[1][2]) (2003) (The Dark Tower V: Wolves of the Calla)
  6. La torre nera VI: La canzone di Susannah(2004) (The Dark Tower VI: Song of Susannah)
  7. La torre nera VII: La torre nera(2004) (The Dark Tower VII: The Dark Tower)
  8. La torre nera: La leggenda del vento(2012) (The Dark Tower: The Wind Through the Keyhole)

Come si diceva il volume conclusivo è il settimo romanzo e l’ottavo ritorna indietro nella trama.

Molti altri romanzi di King sono collegati al ciclo, ma direi che “Le notti di Salem” possa essere considerato come un prequel della serie, anche se si potrebbe leggere a metà, prima de “I lupi della Calla”, dato che sono soprattutto gli ultimi romanzi a farvi riferimento.

In un racconti della raccolta “Tutto è fatidico” compare Roland.

Altri romanzi connessi pare siano (ma devo leggerne ancora molti e verificare):

“Insomnia” (citato nel settimo volume e in cui è protagonista Patrick Danville, personaggio fondamentale del settimo romanzo)

It” (se non altro per la tartaruga e una certa visione del mondo e per una possibile identità tra Dandelo e It)

“L’ombra dello scorpione (che spero di leggere presto)

“Desperation”

Stephen King

“Cuori in Atlantide”

“Il talismano”

“La casa del buio”

“Mucchio d’ossa”

E, dicono, molti altri.

Come Asimov (che ha unito tra loro i suoi principali cicli), anche King, a un certo punto della sua carriera, infatti, pare abbia sentito l’esigenza di creare un filo conduttore che tenesse legate tra loro tutte le sue numerose opere e ha trovato questo filo nella saga della Torre Nera. Insomma, una lettura quasi infinita, come i molti “Quando” in cui si svolge.

PERCHÉ ROLAND DESCHAIN NON È HARRY POTTER

Credo che le due più grandi eptalogie scritte a cavallo del cambio di millennio siano la saga di Harry Potter e quella Roland Deschain di Gilead, la prima realizzata da J.K. Rowling, la seconda da Stephen King. Non conosco il numero di copie vendute da King per la saga della Torre Nera che ha per protagonista il pistolero di Gilead, ma sebbene immagino siano moltissime, credo che difficilmente possano essere comparate per quantità con quelle del maghetto di Hogwarts. Del resto la fama della saga fantasy della scrittrice inglese è planetaria anche grazie agli otto film tratti dai sette romanzi, mentre altrettanto non è ancora stato fatto con l’opera dell’americano.

Entrambi comunque hanno il vantaggio di aver scritto in lingua inglese, cosa che è già un primo passo avanti verso il successo.

Che cosa ha reso però Harry Potter un bestseller più della Torre Nera?

Tempo fa avevo esaminato quelli che mi parevano i principali ingredienti della saga fantasy inglese e, in seguito, ho ripetuto l’analisi anche su altre opere (per esempio “Il cacciatore di aquiloni”, “La setta degli assassini”, “Amabili resti” “It”, “Il seggio vacante”, “I miserabili”). Quale scritto però si presta meglio del ciclo di King per un’analisi di questo tipo, se non altro per l’ampiezza comparabile delle due saghe e per la base fantasy di entrambe, con lunghe parti ambientate nel mondo “reale”?

Gli elementi che avevo individuato nella saga di Harry Potter sono: trama, strutturazione, ambientazione costante, ripetitività e ritualità, magia come estraniazione dalla realtà, mondo magico come mondo parallelo, specchio della nostra schizofrenia, linguaggio inventato, amicizia, lotta tra Bene e Male senza manicheismo assoluto, compenetrazione tra il Bene e il Male, tanti nemici grandi e piccoli, un personaggio che si sente debole ma che scopre di essere forte e speciale, spettacolarità, competizione, mistero, suspance, paura, avventura, iniziazione e crescita verso l’età adulta, morte. Notavo anche che l’amore, pur presente, spesso centrale in tante opere, aveva un ruolo marginale.

Vediamo, allora che uso fa Stephen King degli elementi usati dalla Rowling.

Trama: nessuna saga di sette romanzi di centinaia di pagine ciascuno si può reggere senza una trama principale e alcune trame secondarie. Sembra scontato, ma ci sono romanzi corposi con trame troppo esili che come un corpo senza spina dorsale, si flettono sotto il peso delle pagine. Alla Quest di Roland si aggiungono le imprese che lui e i suoi amici dovranno affrontare in ciascun volume, a volte più di una per romanzo.

Strutturazione: struttura e trama sono quasi la stessa cosa, ma la struttura è qualcosa di più, che nasce dall’unione di trama, ambientazione, morale e che presume un certo equilibrio tra le parti. I romanzi di King, in questo sono più caotici di quelli dell’inglese, sia per la pluralità di ambientazioni, sia per una morale meno definita.

Ambientazione costante: in Harry Potter abbiamo due o tre ambienti centrali (la casa degli zii nel mondo reale, Hogwarts e magari Hogsmeade). I romanzi di King descrivono un viaggio e l’ambiente cambia continuamente, con salti avanti e indietro dall’uno all’altro, dal deserto delle aramostre alla New York del “lato americano” a New York alternative e ucroniche, al Medio-Mondo, al Fini-Mondo, al Entro-Mondo, al Oltre-Mondo, con Rombo di Tuono, Gilead, l’Eld, le Terre Desolate, in una geografia fantastica in cui non è facile orientarsi anche perché attraversa non solo lo spazio ma il tempo. Questo è per me un elemento affascinante di lettura, ma temo che possa disorientare i lettori più distratti e allontanarli dai libri.
Ripetitività e ritualità: qualcosa di ripetitivo c’è, innanzitutto la costanza della ricerca della Torre Nera, poi l’apparizione delle Porte tra i mondi, le apparizioni di robot, alcune frasi rituali, ma King ama sorprendere  e la sua è una storia in continuo movimento, non abbiamo certo la ciclicità del tempo scolastico di Hogwarts, anzi qui, addirittura, il tempo accelera, rallenta, va indietro, fa continui salti nel futuro e nel passato ed ere lontanissime si toccano. I Pistoleri hanno i loro mantra, le loro superstizioni, ma non sono veri riti. Questo allenta l’unitarietà dei romanzi e, soprattutto, non crea quel senso “domestico” che fa sentire il lettore a casa sua nei romanzi della Rowling.
Magia come estraniazione dalla realtà: Harry Potter vuole fuggire da un mondo reale di “babbani” in cui si sente insoddisfatto. Gli amici americani di Roland sono strappati via da New York contro la loro volontà e Roland attraversa gli spazi tra i mondi non per un desiderio di soddisfazione personale, ma per una missione da cui non può prescindere. Anche lui è obbligato, seppure dalla propria stessa volontà. La magia è subita, non dominata e cercata, come dai maghetti di Hogwarts che cercano di studiarla e controllarla nella loro scuola di incantesimi. È dunque una magia con un fascino diverso e, temo, minore.
Mondo magico come mondo parallelo, specchio della nostra schizofrenia: in questo King credo lasci indietro di qualche giro la Rowling. La saga della Torre Nera è la saga della schizofrenia, dei doppi, dei gemelli, della psiche disturbata. Persino le macchine, come il treno pensante Blaine il Mono sono schizofreniche, persino lo stesso autore compare nel romanzo sia di persona che una trinità di sosia dissociati. Gli amici di Roland hanno grossi problemi. Eddie Dean era un tossico, Susannah-Odetta-Detta è una schizofrenica con ben tre personalità, cui se ne aggiungerà una quarta che è più che altro possessione demoniaca (Mia)!

Linguaggio inventato: mancano forse termini espliciti come in Harry Potter, ma già solo i nomi della geografia di Tutto-Mondo potrebbero bastare per riempire un piccolo vocabolario. Ci sono poi le espressioni usate ritualmente, come i ringraziamenti e i saluti, ci sono le storpiature di termini fatte da Roland che non capisce totalmente la nostra lingua, ci sono oggetti particolari cui vengono da nomi appositi, come i piatti assassini, le palle “modello Harry Potter” (con cui la saga di King rende omaggio a quella della Rowling). Nel complesso, però, non sia ha percezione di una struttura linguistica innovativa capace di entrare nel linguaggio comune dei lettori o almeno nella loro fantasia.

Amicizia: a Hogwarts troviamo soprattutto l’amicizia sincera e spontanea dei bambini e degli adolescenti, ma non mancano amicizie mature e adulte. Lungo il sentiero della Torre Nera, Roland stringe amicizie profondissime, che vanno al di là delle esperienze comuni, al punto da doverle definire con un termine specifico: Ka-tet. Roland e i suoi, sono amici legati da un vincolo forte, che fa di loro più che una famiglia. Eppure l’essere questa amicizia così speciale, la rende irreale e quindi affievolisce il senso di immedesimazione. Alcuni personaggi si aggiungono lungo la via, a offrire la loro amicizia ai nostri eroi, ma sono più che altro compagni di avventure.
Lotta tra Bene e Male senza manicheismo assoluto: Roland lotta contro il male (qui è Rosso, più che Nero, dato che il Nero è il colore della Torre, dell’ordine, dell’equilibrio), difende il Bianco, cerca di impedire il crollo della Torre Nera, lo spezzarsi dei Vettori che la reggono, perché la fine dei Vettori e della Torre Nera significherebbe la fine di tutto, ma il male è sempre mescolato con un po’ di bene, sebbene tenda sempre a prevalere e, forse, non è davvero degno di essere scritto con la maiuscola. Roland per raggiungere il suo obiettivo sacrifica tutto, amici, famiglia, Ka-tet. La sua è certo una lotta del Bene contro il Male, ma se il Male appare con molte facce, quelle del Bene sono poche e spesso sono sul corpo di persone all’apparenza poco raccomandabili.
Compenetrazione tra il Bene e il Male: si è detto sopra. I nostri eroi non sono dei santi, ma Pistoleri dal passato oscuro.
Tanti nemici, grandi e piccoli: i nemici da affrontare sono davvero tanti, la “principessa da salvare” è soprattutto una: la Torre Nera, ma se alla fine incontreremo il drago che la custodisce (il Re Rosso), questo non è Voldermort, la cui presenza compenetra tutti i romanzi della serie di Harry Potter, vero antagonista del piccolo mago. Roland combatte contro tutto e tutti per salvare l’universo, ma non ha un vero antagonista e questo lo rende più fragile come personaggio. Non ha un nemico alla sua altezza in cui riflettersi.
Un personaggio che si sente debole ma che scopre di essere forte e speciale: la trasformazione da debole a forte non riguarda il protagonista, che conosciamo già forte, seppure con le sue debolezze,, ma tanti altri personaggi, dall’ex-tossico Eddie Dean, alla storpia schizofrenica cleptomane razzista di colore Odetta/Detta/Susannah/Mia, al bambino Jake Chambers che si trasforma in pistolero.
Spettacolarità: non avremo le battaglie aeree contro i draghi e le partite di Quidditch, ma abbiamo epici scontri contro i robot-lupi, la corsa folle del treno schizofrenico Blaine il Mono, il deserto con le aramostre, i conflitti contro i gangster di New York!
Competizione: nessuna gara, nessuna squadra l’una contro l’altra, ma la lotta per la sopravvivenza, gare mortali di indovinelli, duelli, battaglie. Qualcosa per cui parteggiare non manca, anche se non si può fare il tifo per i Grinfondoro e odiare i Serpeverde.
Mistero: anche qui il Re dell’horror ha qualcosa da insegnare alla donna più ricca di Inghilterra. Anche se forse troppo mistero rimane tale e chi (non sono tra costoro), vorrebbe sempre sapere e capire tutto, potrebbe restare insoddisfatto. La magia narrativa di King sta proprio nel creare mondi quasi onirici, a volte dal sapore lovecraftiano, in cui non tutto è spiegato, in cui non occorre sapere tutto, perché la verità non è una sola, perché ogni cosa è vera, anche il suo opposto, come è vero che Jake è morto, ma anche vivo accanto a Roland, come è vero che una certa località si trova in un quartiere, ma anche in un altro. Che cosa siano davvero la Torre Nera e i Vettori non è dato sapere, ma solo intuire. Questo mi piace di questa serie, questo lasciare la verità e il senso delle cose in sospeso, questo lasciare spazio alla fantasia del lettore. Se altri “ingredienti” sono usati da King con maggior parsimonia, il Mistero lo sa padroneggiare alla grande, forse più dell’horror e della paura, per cui è celebre. In questo è molto diverso anche da Asimov, spesso citato nella saga per i suoi robot positronici, perché lo spirito da giallista del russo-americano non lascerebbe mai nulla senza una spiegazione razionale.


Suspance: tutta quella che si può volere in un libro. Una suspance portata avanti per migliaia e migliaia di pagine, fatta forse più di consuetudine con i personaggi, di curiosità per le sempre nuove trovate dell’autore, di desiderio di proseguire lungo il sentiero del Vettore, più che di ansia o angoscia per gli eventi futuri.
Paura: King per molti è un autore horror. Qui siamo davanti a una storia di diverso genere, ma non mancano brani ed elementi horror e l’americano sa bene come usarli.
Avventura: se non è avventura questa! Un incredibile viaggio di un pistolero e i suoi compagni in una saga che mescola fantasy, western, horror, ucronia, romanzo gotico, fantascienza e molto altro ancora, in cui saranno affrontati killer spietati, robot assassini, gangster, trafficanti di droga e altri malavitosi,, treni pazzi, mostri lovecraftiani, incubi, crisi d’astinenza, ferite, malattie e molto altro ancora.
Iniziazione e crescita verso l’età adulta: ogni avventura porta con sé una crescita. Certo il protagonista non è un ragazzino come Harry Potter, ma anche un adulto può aver bisogno di scoprire se stesso, i propri sentimenti repressi, l’amore, l’amicizia, il dolore. Ci sono poi il drogato, che trova nell’avventura la strada per disintossicarsi, la schizofrenica che combattendo ritrova unitarietà, il bambino che diventa ragazzo, se non adulto.

Rowling e King

Morte: di morte ne troverete tutta quella che vi serve. La strada di Roland verso la Torre Nera è disseminata di cadaveri, da quelli che non vediamo, ma che lui ricorda, per esserli lasciati indietro prima che la saga avesse inizio, a quelli che provoca tra i suoi nemici, a quelli che perde tra i suoi amici. C’è un vero confronto con la Morte, quella con la M maiuscola? Forse no. Forse neppure nel confronto con il Re Rosso. Roland alla fine è sopraffatto da tante morti, più che dalla Morte come concetto in sé.

Amore: certo Roland ancora ripensa alla sua amata perduta, Eddie e Susannah si amano e si sposano, si perdono e si ritrovano, ma come nella saga di Harry Potter, anche qui l’amore o il sesso non mi paiono elementi centrali. Se c’è amore è più quello per la missione da compiere, per i compagni di avventura, per il Ka-tet.

In conclusione, King usa in quantità maggiore della gran parte degli autori che conosco quelli che sono gli elementi fondamentali per un romanzo di successo. Come in cucina, non è certo la quantità di ingredienti a rendere speciale un piatto, ma il loro uso e il loro dosaggio e certo l’americano conosce come pochi il mestiere di cucinare storie, eppure sempre più mi convinco che un romanzo (e una saga ancor più) è tanto più buono, avvincente, coinvolgente, tanto più sono presenti gli ingredienti di cui sopra. Non a caso la Rowling è l’autrice più venduta del mondo e King uno dei maggiori autori mondiali di bestseller. A poco senso parlare di qualità di un romanzo, se non piace al pubblico. Se piace al pubblico, viceversa, un motivo ci deve essere.

IL RE È MORTO, SALVATE IL RE

Un grande scrittore si riconosce anche dal coraggio. Un grande scrittore non ha paura di non essere capito e, anche se scrive cose complesse, viene compreso. Nel settimo volume del ciclo “La Torre Nera”, intitolato anch’esso “La Torre Nera” (2004), Stephen King ci proietta subito nelle primissime pagine in una girandola di salti spazio-temporali, ci mostra una donna nera senza gambe e una bianca che non ne è priva e ci dice che sono la stessa persona, eppure non ci confonde. Tutto è chiaro e scorre bene. Almeno per chi, come me, ha già letto i precedenti sei volumi, ma direi anche per chi li dovesse ignorare (meglio però leggere i volumi in ordine, dato che formano un romanzo unitario). Spesso però gli autori, in questi casi hanno paura e si preoccupano di spiegare subito ai lettori cosa è successo prima, perché succedono certe cose e chi abbiamo davanti. Il risultato sono dei “sequel” in cui si perdono pagine e tempo nel tracciare inutili mappe di lettura.

Di recente, per esempio ho letto i 3 volumi di “1Q84” dove il pur grande Haruki Murakami, dimostra di non avere questo coraggio e scrive un terzo volume che, in prevalenza, ripete cose già dette negli altri due. Un altro esempio di questo difetto potrebbe essere il ciclo “Hunger games”. Non è il caso di King, che con coraggio ci lancia subito nell’arena. I re non cercano il consenso, lo hanno, perché gli spetta.

Il romanzo continua a muoversi tra mondi diversi (Medio-Mondo, Fine-Mondo, America, Rombo di Tuono…), epoche diverse, generi letterari diversi, ma dopo altri sei libri, sono tutti spazi-tempo che conosciamo, in cui il lettore si trova a casa e King sa essere un ottimo ospite, capace di far sentire a suo agio il lettore in qualunque casa lo ospiti.

Se “La Torre Nera” è la saga della schizofrenia, dei doppi, dei gemelli, anche questo settimo volume non manca di produrre i suoi esempi. Vi troviamo addirittura un triplo sosia freudiano di Stephen King (il personaggio più che l’autore, se c’è una differenza), un terzetto, Fimalo (Superego), Feemalo (Ego) e Fumalo (Id), che vuole imitare le tre parti della psiche dell’autore, ma che, essendo solo imitazione, non sono veramente King. L’autore però è qui comunque uno dei personaggi determinanti della storia. Addirittura dalla sua salvezza dipende il destino dell’universo, anzi di tutti gli universi retti dalla Torre Nera. Dovranno essere i suoi stessi personaggi a entrare nel suo “Quando” per salvarlo.

La visione dello spazio-tempo in questa saga di King, ricorda molto quella dell’ucronia nei miei romanzi, in particolare di quelli del ciclo di “Jacopo Flammer”. Per me, però, il tempo è un frattale, una serie infinita di linee che si dipartono da una serie infinita di punti delle infinite linee temporali, insomma, un “infinito alla terza potenza!!! La visione di King è più semplice: vede una principale linea spazio-temporale dalla quale si dipartono innumerevoli (non direi infinite) linee alternative.

La linea temporale principale è quella in cui vive Stephen King (il “lato americano”). Lì se uno muore, muore veramente. Nelle altre linee temporali non esiste una vera morte, in quanto nulla di ciò che avviene è definitivo perché in altre linee temporali (io direi “Universi Divergenti”, King li chiama “Quando”) quel fatto, quella morte, possono non essere avvenuti. È così che Jake riesce a tornare sebbene l’abbiamo visto morire.

Quello che avviene sul “lato americano” però è importante e determina tutto il resto. Per questo Roland deve a ogni costo salvare Stephen King, magari sacrificando se stesso o qualcuno dei suoi amici. Perché è King a scrivere la loro storia e se King morisse, il loro tempo si arresterebbe. Eppure King non è del tutto padrone del tempo del loro universo. Tutto è legato, lui può creare storie, ma quello che scrive è, in un certo senso, già scritto.

In questo romanzo compare anche un secondo “autore-personaggio”, Patrick Danville, un ragazzo tenuto prigioniero forse dall’infanzia dal vampiro Joe Collins. È debole, scheletrico, malato, ingenuo, ma ha una capacità incredibile nel disegnare. È veloce come un pistolero con la matita al posto della pistola! E i suoi disegni hanno il potere di creare o modificare la realtà. Il suo ruolo sarà determinante nella lotta contro il Re Rosso, antagonista principale di Roland in questo volume.

La Torre Nera” è il settimo e conclusivo volume della saga, sebbene ci sia un ottavo che racconta fatti antecedenti e moltissimi romanzi di King siano fortemente connessi con questi, innanzitutto l’imprescindibile “Le notti di Salem”, ma anche “Insomnia”, qui più volte citato.

Anche la saga di Harry Potter si conclude con il settimo volume e in entrambi si nota una moria impressionante di personaggi: sarà il Sette a portar loro sfiga o il fatto di essere giunti alla fine e di dover far piazza pulita?

Eppure King come la Rowling cedono alla tentazione del lieto fine.

Inevitabile, con il volume conclusivo di una lunga saga, parlare del finale e sempre i lettori si dividono tra quelli che approvano la scelta dell’autore e quelli che la disapprovano.

Vorrei cercare di dire il meno possibile in merito alla soluzione adottata da King per concludere le vicende di Roland, ma anche qui, come nel suo uso dello spazio-tempo, sono rimasto colpito dalla comunanza di visione con i miei romanzi, in particolare “Giovanna e l’angelo”.

Cercando di non entrare in dettagli, devo dire che il finale, pur unico, è, come i sosia di King, triplo. Non nel senso che King lasci tre finali alternativi, ma che per tre volte ho avuto la sensazione che la storia stesse per finire, ma il libro ha continuato ad andare avanti. La somiglianza con i miei finali, però, non è qui, ma nel fatto che il finale può essere considerato aperto, dato che molto altro ancora potrebbe succedere (ci sarebbe spazio sia per una saga prequel che per una sequel), e, soprattutto nel fatto che e è ciclico, nello stesso identico modo di “Giovanna e l’angelo”.

Che il finale (pubblicato nel 2004) non sia veramente la conclusione di questo ciclo (iniziato nel 1982 con “L’ultimo cavaliere” e a cui King e i suoi fan sono particolarmente affezionati) è dimostrato non solo dalla pubblicazione nel 2012 di un nuovo episodio, “La leggenda del vento” (sebbene, a quel che leggo, narri fatti antecedenti il settimo), ma dall’appendice che segue il finale. Anche qui King mi ha stupito, anticipando i miei desideri di lettore. Leggendo i primi sei volumi, in effetti, ero stato incuriosito dalle citazioni di “Childe Roland alla Torre Nera giunse” di Robert Browning, ma proprio finendo di leggere “La Torre Nera” mi è venuta una particolare voglia di leggere quest’opera (e avevo persino pensato di pubblicarla sul mio blog). Ebbene, King piazza il poema di Browning proprio alla fine del romanzo, là (temporalmente parlando) dove avrei voluto trovarlo!

Prima del “terzo finale” King blocca la macchina da presa, sale sul palco e si rivolge direttamente ai lettori per dir loro che in un romanzo il finale non è importante, perché un romanzo è come la vita, come un’avventura: va vissuto, va amata la strada che percorriamo assieme, non la meta, non la conclusione, non il finale, perché il finale è l’addio, la fine, la morte (dov’è il tasto per “condividere”?). Sarebbe come vivere una vita con l’obiettivo di morire! Invita allora il lettore a scegliere di fermarsi lì, di accontentarsi di quel finale aperto oppure di andare avanti (ma lo sconsiglia) e di affrontare il vero addio della storia. Ma King, come si diceva, non ama gli addii e il suo non lo sarà!

Tante profezie di insuccesso avevo subito, ero stato iscritto

Tante volte nella <<Banda>>, uno cioè dei cavalieri

Che volsero i passi alla ricerca della Torre Nera,

Che mi sembrava giusto fallire come loro,

E ora mi tormentava il dubbio: ne sarò capace?

(“Childe Roland alla Torre Nera giunse” di Robert Browning)

NON SIAMO SOLI NELL’ETERNITÀ

Leggere un libro o vedere il film che ne è stato tratto è quasi sempre un’esperienza molto diversa. Vidi per la prima volta “2001 odissea nello spazio” poco dopo la sua uscita in Italia, dunque quando ero ancora bambino e fu il film che più mi ha impressionato in tutta la mia vita. Certo le emozioni di un bambino sono molto diverse da quelle di un adulto,  ma ancora mi porto dentro certe immagini di quel film, visto quando avevo forse sei o otto anni. Incredibilmente a impressionarmi tanto fu la sua velocità: la velocità con cui si passava dalla scena con gli uomini primitivi agli scenari spaziali, ma, soprattutto, la velocità con cui passava il tempo per il protagonista una volta raggiunto il monolite su Saturno. Non ricordavo, dal film, che fosse in realtà su uno dei suoi satelliti, Giapeto. L’invecchiamento del protagonista rimase a lungo il mio incubo prediletto.

Ho scritto che “incredibilmente” del film mi impressionò la velocità, perché rivedendolo anni fa, da adulto, ne notai l’incredibile lentezza!

Il cinema nel frattempo era cambiato molto! I ritmi dei film degli anni ’60, oggi ci paiono terribilmente lenti, anche di un film come questo, che segnò un grande passo avanti verso il cinema moderno, con i suoi effetti speciali.

Oggi ho finito di rileggere il romanzo scritto dall’inventore britannico Sir Arthur Clarke e pubblicato nel 1968. Si tratta di un’opera nata assieme al film, di cui Clarke curava la sceneggiatura per il regista Stanley Kubrick, ispirandosi al proprio racconto “La sentinella”. Un romanzo nato in tal modo dovrebbe allora essere molto simile al film, ma i due mezzi sono così diversi che le due storie differiscono non poco, nonostante la trama comune. Diverse sono le emozioni che generano.

Sono vari anni che ho visto il film, per cui la memoria potrebbe ingannarmi, ma non ricordo che nel film venisse spiegato come nel libro il modo in cui il monolite interagiva con i così detti uomini-scimmia, facendo esperimenti con loro, fino a portarli a scoprire come manipolare gli oggetti.

Arthur Clarke

Anche l’attraversamento del monolite sul satellite di Saturno fu reso da Kubrick grazie a effetti visivi all’epoca di grande impatto mentre nel romanzo vi è una maggior speculazione “filosofica”, se così si può dire. In sostanza il film è più indeterminato e lascia maggior spazio alle ipotesi. Questo se vogliamo è quasi strano, perché di solito si dice che è il romanzo a lasciar più spazio all’immaginazione, dato che tocca al lettore tradurre le parole in immagini. Questa presumo sia la grandezza di registi come Kubrick, che fanno del cinema “letteratura”.

Una cosa che film e romanzo hanno in comune è una descrizione secondo me troppo prolissa della stazione spaziale e delle manovre dell’astronave. Clarke, come altri autori di fantascienza con formazione scientifica, ha il difetto di voler mettere nei suoi libri troppe descrizioni tecnico-scientifiche, che con il progredire delle conoscenze rischiano di diventare superate e che comunque annoiano chi non sia un fisico o un chimico.

Comunque è un romanzo con ben tre parti di un notevole fascino: l’incontro degli uomini primitivi con il primo monolite, la follia del computer Hal 9000 e l’attraversamento di quella sorta di warm-hole che pare essere il monolite giapetiano. Tre episodi che
da soli riscattano tutte le debolezze del romanzo che, sebbene breve, avrebbe potuto essere scremato di varie parti.

In ogni caso un libro e un film da cui non si può prescindere: due classici da conoscere anche se non si amano.

 

 

 

Il sistema di Saturno

 

SE IL CORAGGIO FOSSE LA SOLA VIRTÙ

Nel filone dei romanzi fantastici che vedono come protagonisti dei ragazzi, accanto al ciclo di “Harry Potter” della Rowling, a quello di “Hunger games” della Collins, alla serie di “Twilight” della Meyer  e a quello de “Il labirinto” di Dashner, si colloca il romanzo distopico per young adultsDivergent” (2011) di Veronica Roth (giovanissima autrice statunitense che non parrebbe imparentata con il più celebre Philip Roth, autore di un romanzo davvero divergente come “Il complotto contro l’America”), anch’esso parte di una serie, che per ora sembrerebbe una trilogia.

La storia è ambientata in un futuro in cui la gente ha deciso che il miglior sistema per evitare le guerre sia dividersi in fazioni, sulla base delle proprie inclinazioni.

La società (vediamo però solo una piccola fetta di mondo) è dunque divisa tra (cito wikipedia):

  • I Candidi, che ritengono che la colpa della guerra sia l’ipocrisia, sono sinceri e dicono sempre la verità. Si occupano della legge.
  • I Pacifici, reputando la malvagità la maggiore causa della guerra, sono gentili e rigettano l’aggressività. Sono assistenti sociali, consulenti e coltivatori di terre.
  • Gli Eruditi, secondo cui la guerra è conseguente all’ignoranza, seguono la via della conoscenza e dedicano la vita alla cultura. Lavorano come insegnanti, scienziati o ricercatori.
  • Gli Abneganti sono convinti che l’egoismo sia il motivo principale della guerra, perciò sono altruisti e per questo ricoprono posizioni di potere governativo.
  • Gli Intrepidi, che credono che la guerra sia causata dalla codardia, sono coraggiosi e forti e proteggono la popolazione.

Spesso le premesse in fantascienza sono poco plausibili ma vanno accettate per tali, purché la trama ne sostenga tutte le conseguenze. Pur considerando dunque del tutto assurdo immaginare di impedire la guerra dividendo così la gente (cosa che pare il preludio proprio di ben più aspri conflitti), caliamoci in questo mondo.

La stessa autrice ci mostrerà come il sistema non funzioni affatto, nascendo subito odio viscerale tra una fazione e l’altra e di questo le rendiamo merito.

Il romanzo si presenta come una dilatazione della scelta delle case a Hogwarth in “Harry Potter e la pietra filosofale”. Anche la Rowling, infatti, ha immaginato che i ragazzi, nel momento in cui arrivano nella scuola di magia debbano scegliere se appartenere a Grifondoro, Serpeverde, Tassorosso o Corvonero e a ogni casa sono attribuite particolari virtù.

La Rowling si mostra però assai più moderata e non ci angoscia per un romanzo intero su questa scelta.

Indubbiamente la scelta dell’appartenenza è il massimo dilemma di ogni adolescente e i romanzi che si rivolgono a questo target fanno bene a porre la questione.

La Roth dopo il primo test per la scelta della fazione, ci fa seguire la protagonista in una serie di ulteriori prove di conferma della sua scelta. La ragazza, Beatrice Prior, è un’Abnegante e decide di diventare un’Intrepida, prendendo il nome di Tris, dunque le prove saranno tutte prove di coraggio, rendendo la storia ricca di azione, ma un po’ vacua, almeno fino alle ultime pagine (un quinto del romanzo?) in cui dal mondo virtuale dei test si passa allo scontro frontale tra Eruditi e Abneganti, con la partecipazione degli Intrepidi. Avrei ribaltato le proporzioni tra le parti, considerando la preparazione dei ragazzi propedeutica allo scontro, che avrebbe dovuto rappresentare la vera storia, ma l’equilibrio delle parti andrebbe valutato nell’ambito della trilogia.

L’autrice, anch’essa poco più che adolescente, capisce e fa capire ai suoi lettori che una sola virtù non basta, non per nulla la sua protagonista scopre di non appartenere davvero a nessuna fazione ma di essere una Divergente, ovvero di essere dotata di diverse virtù, cosa che la rende più difficilmente manipolabile dai malvagi Eruditi. Ma perché proprio gli Eruditi debbono fare la parte dei malvagi? Non dovrebbe essere una società di saggi proprio la più giusta?

Una nota sul termine “Divergente”, che è stato il motivo percui ho scelto di leggere questo libro: il mio primo romanzo edito fu “Il Colombo divergente” e in vari altri miei romanzi faccio riferimento agli universi divergenti e ai tempi ucronici alternativi e mi chiedevo se la Roth avesse scritto qualcosa di simile, ma siamo ben lungi dall’immaginare concetti di tempo diverso da quello lineare.Veronica Roth - IMDb

Il romanzo si legge piacevolmente, anche se avrei ridotto a un terzo la fase dei test e tutto sommato, se non fosse per questo squilibrio, avrei chiuso con il primo volume, anche se finisce con varie questioni sospese, ma può comunque rappresentare un punto d’arrivo. Mentre leggendo “Hunger games”, “Harry Potter” e i primi due romanzi de “Il Labirinto” la voglia di leggere il seguito alla fine di ogni volume è forte, in questo caso, l’esperienza mi pare compiuta e non sento alcun desiderio di leggere il seguito. Anzi mi sono trovato a sperare non esistesse, ma mi è bastato dare una veloce occhiata in rete per vedere che invece ci attendono: Insurgent (del 2012) e Allegiant (del 2013) oltre a vari racconti con gli stessi personaggi! Del primo romanzo è già uscito il film e il 20 marzo 2015 uscirà quello basato su “Insurgent”.

Certo, per un amante della distopia definire tale questa storia (che indubbiamente ha elementi distopici) è come credere che “Twilight” sia un romanzo gotico o i romance dei romanzi storici. Se annacquiamo il vino, cosa ne rimane? Ultimamente si sta prendendo generi che rappresentavano i dolori e le angosce dell’umanità e li si sta trasformando in romanzi rosa o in storie per ragazzini. Non dico che sia un male, ognuno deve poter avere libri adatti ai propri gusti, ma si crea confusione nel mettere le etichette.

In ogni caso, considerata la giovane età della Roth, mi aspetto che in futuro potrà produrre opere interessanti, se già ora è riuscita a scrivere un romanzo egregio come questo, anche se un po’ ingenuo. L’ambientazione e la struttura sono, infatti, assai meno sviluppati che nelle altre serie che ho appena citato e la trama è sbilanciata e abbastanza banale. Manca poi un’adeguata dose di mistero e di suspance. I personaggi, essendo mono-virtù, tendono a essere un po’ piatti, ma forse è bene così. Di sicuro i sedicenni lo possono apprezzare pienamemte, non per nulla è già un bestseller da un milione di copie almeno. Consiglierei loro però, magari, altre storie che parlano di loro ma con una diversa maturità, come, tanto per fare degli esempi, “Gli effetti secondari dei sogni” di Delphine de Vigan, “Antichrista” di Natalie Northomb, “Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides o “Kafka sulla sulla spiaggia” di Haruki Murakami.

IL LENTO CAMMINO DELL’ANTIRAZZISMO IN AMERICA

Risultati immagini per il buio oltre la siepe“Il buio oltre la siepe” (“To kill a mockingbird”, ovvero “Uccidere un usignolo” nel titolo originale) è un romanzo pubblicato nel 1960 dalla scrittrice statunitense Harper Lee, vincitrice del Premio Pulitzer.

Ci mostra con gli occhi di una bambina figlia di un avvocato, la vita della provincia americana (Alabama) negli anni ’30 del XX secolo.

La piccola Jean Louise, detta Scout, assiste al processo contro un uomo di colore storpio, Tom Robinson, accusato di aver violentato una ragazza bianca e difeso dal padre della bambina stessa. Nonostante la scarsità delle prove a suo carico, Tom sarà condannato in primo grado e troverà la morte in carcere prima del giudizio di appello.

Il vero colpevole aggredirà quindi la piccola Scout e il fratellino Jeremy, detto Jem, per vendicarsi del padre che l’aveva messo in difficoltà durante il processo a Tom, ma rimarrà ucciso grazie all’intervento del vicino Boo, un tipo un po’ strano di cui i bambini avevano grande paura, ma che si era affezionato a loro e faceva loro regali di nascosto.

Il romanzo può essere letto come una denuncia del razzismo della provincia americana, ma i suoi toni poco accesi, anche considerato il punto di vista infantile della storia, lo rendono più una cronaca e un ritratto di una certa mentalità, una quadro della vita della provincia americana che non un vero atto d’accusa.

La lettura parte piano, nelle prime pagine, mostrandoci il mondo dei bambini e acquista maggior interesse con l’avvio del processo, dopo il quale riesce ancora a mantenere alta l’attenzione del lettore descrivendo l’aggressione dei figli dell’avvocato.

Sinceramente mi ero aspettato qualcosa di più tagliente e incisivo da un romanzo tanto celebrato e non solo una lettura gradevole, quale è stata.

Cinquale, 19/08/2014

 

E' morta il 19/02/2016 Nelle Harper Lee, l'autrice de "Il buio oltre la siepe"

Nelle Harper Lee

LA CHIAMATA DEL LIBRO

A distanza di oltre tre anni dalla lettura de “L’ultimo cavaliere”, dopo aver imparato ad apprezzare Stephen King in varie altre opere, ho ripreso la lettura del Ciclo della Torre Nera, affrontando “La chiamata dei tre”, il secondo volume della serie del maestro dell’horror.

Se “L’ultimo cavaliere” è un western-fantascientifico-post-apocalittico, ne “La chiamata dei tre” il carattere western si affievolisce e prevale la fantascienza, sia per l’ambientazione principale, una spiaggia interminabile popolata solo da giganteschi e letali crostacei, le “aramostre”, sia per la presenza della porta, un passaggio tra il mondo dell’Ultimo Pistolero Roland e quello dei tre personaggi che entreranno in contatto con lui, un’America recente.

Troviamo dunque un passaggio temporale che sarà poi ripreso nel bel romanzo “22/11/’63”, con la differenza che qui l’apertura spazio-temporale non sta in fondo a uno sgabuzzino, ma è una porta magrittiana sospesa nel deserto, qualcosa che segue Roland nei suoi spostamenti e fa da tramite con i tre. Attraverso di essa Roland entra direttamente nella testa e nei corpi dei tre.

L’ultimo cavaliere” mi aveva lasciato un po’ perplesso per la mancanza di azione. “La chiamata dei tre” è tutt’altra cosa. Il Pistolero nel suo mondo sta morendo e combatte per sopravvivere. Entra nei mondi dei suoi “ospiti”, ma anche lì non trova situazioni semplici. I compagni che sta evocando dal passato sono, infatti, un drogato che trasporta eroina in aereo, una ricca e bella negra schizofrenica e senza gambe, un serial killer, con la passione per l’uccisione dei bambini. Non esiste un termine per definirlo? Direi un “pedocida”. Solo con il loro aiuto Roland potrà guarire, salvarsi e trovare la Torre Nera. Le avventure nei vari mondi si succedono a un buon ritmo. I personaggi hanno un loro forte spessore. Il mistero e la magia condiscono sapientemente il tutto.

I tre sono la cura di Roland, ma anche Roland è la loro cura. Hanno tutti grossi problemi mentali. L’avventura che il Pistolero offre loro li allontana dalle loro malattie/follie, anche se, in un caso, in modo definitivo e brutale, come a dire che ci sono malattie dell’anima che non possono essere curate.

L’ultimo cavaliere” ci parla di grandi spazi, dell’amicizia e del suo contrario. “La chiamata dei tre” ci parla di forza interiore, di dolore, di coraggio, di determinazione e, in fondo, ancora di amicizia.

Sono grandi temi, che danno consistenza ed energia al romanzo.

Stephen King non ha mai vinto il Premio Nobel e forse non lo vincerà mai, perché viene ingiustamente considerato solo un autore commerciale, ma dopo aver letto i romanzi di quattro premi nobel (Llosa, Lessing, Munro, Pamuk), entrare in queste pagine è un autentico sollievo. Probabilmente non capisco nulla di letteratura e a Stoccolma sanno cose che mi sfuggono, ma questo è un vero romanzo, non gli ultimi che ho letto!

Stephen King

Del resto con questo libro mi è capitato qualcosa che non mi ha fatto provare nessuno dei quattro nobel citati: il desiderio irrefrenabile di continuare a leggere. A essere chiamato dal libro è il lettore! Che cos’altro dovremmo chiedere a un romanzo, se ci dà questo?

Ora non posso che cercare di leggere presto il seguito della serie.

I volumi che la compongono sono:

  1. La torre nera I: L’ultimo cavaliere (1982, pubblicato originariamente come romanzo breve; edizione rivista nel 2003(The Dark Tower I: The Gunslinger)
  2. La torre nera II: La chiamata dei Tre (1987(The Dark Tower II: The Drawing of the Three)
  3. La torre nera III: Terre desolate (1991(The Dark Tower III: The Waste Lands)
  4. La torre nera IV: La sfera del buio (1997(The Dark Tower IV: Wizard and Glass)
  5. La torre nera V: I lupi del Calla (il titolo annunciato era L’Ombra Strisciante[1][2]) (2003(The Dark Tower V: Wolves of the Calla)
  6. La torre nera VI: La canzone di Susannah (2004(The Dark Tower VI: Song of Susannah)
  7. La torre nera VII: La torre nera (2004(The Dark Tower VII: The Dark Tower)
  8. La torre nera VIII: La leggenda del vento (2012(The Dark Tower: The Wind Through the Keyhole)

Leggi anche:

– Il western fantasy di King – L’ultimo Cavaliere (La Torre Nera) – Stephen King

– La bambina che sconfisse la natura – La bambina che amava Tom Gordon – Stephen King

– King for President of Ucronia – 22/11/’63 – Stephen King

– IT: un mostro lovecraftiano emerso da arcani abissi spazio-temporali – IT – Stephen King

The Second King – Le notti di Salem – Stephen King

Tutto è kinghiano – Tutto è fatidico – Stephen King

GLI AMICI SCOMPAIONO (E A VOLTE SI SUICIDANO)

 

Risultati immagini per Tokyo bluesHaruki Murakami (村上 春樹 – Kyoto, 12 gennaio 1949) è un autore che mi incuriosisce, nel senso che ancora non sono riuscito a capire quanto mi piaccia e quanto sia davvero uno dei migliori autori di questo XXI secolo. Che abbia delle indubbie qualità è testimoniato anche dal fatto che più volte sia stato fatto il suo nome tra i possibili Premi Nobel per la Letteratura, sebbene non l’abbia ancora mai vinto.

Di lui avevo già letto “Kafka sulla spiaggia”, “La fine del mondo e il paese delle meraviglie”, “L’arte di correre”.  “Tokyo blues” (pubblicato nel 1987), anche noto come “Norwegian blues” è uno dei suoi titoli più importanti, quindi non poteva mancare in questo percorso di scoperta.

L’arte di correre” non è un romanzo ma qualcosa a metà tra un testo autobiografico e un saggio su scrittura e corsa, quindi non fa particolarmente testo in quest’analisi. I due romanzi hanno forti componenti immaginarie e ci portano in mondi di fantasia in modo originale e mi era parso di cogliere la qualità di questo scrittore proprio nella sua capacità di calarsi con la dovuta leggerezza in questi universi inventati. “La fine del mondo e il paese delle meraviglie”, però, mi aveva lasciato piuttosto perplesso per una certa prolissità e per un attardarsi nella descrizione dei dettagli.

Tokyo blues” è lettura del tutto diversa dalle altre tre. La componente immaginaria è del tutto assente, sebbene una dei personaggi abbia qualche leggero disturbo mentale, ma questo non porta Murakami a calarci in un mondo di allucinazioni, come mi sarei aspettato dalla lettura degli altri due romanzi.

Tokyo blues” è un romanzo che nasce con un “difetto” strutturale per il mio modo di valutare un’opera di narrativa: ha una trama esile. Questa si può riassumere agevolmente, senza togliere nulla al piacere di chi dovesse ancora leggere il libro: un ragazzo, nell’arco della sua vita che va dai diciassette a poco più di vent’anni, perde alcuni amici e amiche.

Forse la grandezza di questo autore può essere trovata proprio nella capacità di realizzare un romanzo valido pur rinunciando a questo fondamentale elemento. In realtà, non si può dire che la trama sia del tutto inesistente. È invece il suo rapporto con i personaggi a essere rovesciato. Per me in un buon romanzo i personaggi devono essere al servizio della trama. Qui invece è l’inverso. “Tokyo blues” è un libro costruito sul protagonista e sugli altri personaggi. Per descriverlo e descrivere i suoi amici, Murakami inventa delle piccole storie. Ogni personaggio nasce dunque da queste piccole trame. “Tokyo blues” è dunque un ritratto narrativo. Un dipinto in cui accanto al protagonista, per completarlo e descriverlo pienamente, vediamo i ritratti di chi gli è intorno. Eppure non siamo portati a distrarci o a perderci come in una raccolta di racconti, perché queste storie sono elementi fondamentali nella costruzione dei personaggi e quindi del libro.

Cercando di analizzare alcuni best-seller (il primo fu la serie di Harry Potter), avevo individuato alcuni ingredienti fondamentali per il successo di un romanzo d’avventura: trama, strutturazione, ambientazione costante;  ripetitività e ritualità, magia come estraneamento dalla realtà, mondo magico come mondo parallelo, specchio della nostra schizofrenia, linguaggio inventato, amicizia, lotta tra Bene e Male senza manicheismo assoluto, compenetrazione tra il Bene e il Male, tanti nemici, grandi e piccoli, un personaggio che si sente debole ma che scopre di essere forte e speciale, spettacolarità, competizione, mistero, suspance,  paura, avventura, iniziazione e crescita verso l’età adulta, morte.

Tokyo blues” non è un romanzo d’avventura, quindi, chiaramente, sarà difficile trovarci tutti tali elementi. Sono peraltro presenti amicizia, iniziazione e crescita verso l’età adulta e morte. Se davvero fossero necessari tutti gli elementi visti per Harry Potter per fare un romanzo di successo, questo non avrebbe molte possibilità! Dunque quelli che sono elementi importanti per un romanzo, non lo sono affatto per altri. Non contano solo gli “ingredienti”, ma anche le “dosi”.

L’assenza di trama può essere compensata da una “dose” maggiore di personaggi. Se un elemento è ben realizzato e sviluppato può, come in questo caso supplire abbondantemente all’assenza di altri.

Se analizzando “Harry Potter” mi ero chiesto cosa ne avesse determinato il successo,  mi chiedo ora quali elementi fanno sì che a me, personalmente, piaccia un romanzo.

I primi due romanzi che ho letto di Murakami mi erano piaciuti, credo, soprattutto per il mondo magico descritto. “La fine del mondo e il paese delle meraviglie” mi era piaciuto anche per le sue riflessioni sul tempo (tema che mi affascina sempre) e per il tentativo di descrivere una storia sulla coscienza e sui suoi limiti. In “Kafka sulla spiaggia” c’è ancora un interessante fuga dal tempo e c’è una storia di crescita e di iniziazione.

In “Tokyo blues”, come già scritto, non c’è magia e non ci sono neppure riflessioni sul tempo e la coscienza. In “Tokyo blues” si parla soprattutto di amicizia, tra un ragazzo e altri ragazzi, ma anche tra lui e delle ragazze. In questo caso, si coglie il sottile confine tra amicizia e amore. L’amicizia appare come un bene prezioso ma fragile, fugace. È prezioso proprio per questo. Il protagonista, che è anche la voce narrante, Tōru Watanabe, perde, infatti, i suoi amici più cari, anche se talora (penso a Midori Kobayashi) torneranno. All’inizio formava un terzetto molto stretto con Kizuki e Naoko, ma, una
dopo l’altro, si suicidano entrambi. “Tokyo blues” diventa quindi romanzo sulla perdita e il suo dolore, sul bisogno di superarlo e di crescere e maturare attraverso il superamento di questo dolore. Questo ne fa lettura intensa ed emotivamente coinvolgente. Ecco, dunque, tre degli “ingredienti” di cui parlavo, amicizia, morte e crescita, che riempiono lo spazio vuoto lasciato dagli altri.

Se questo romanzo mi è piaciuto, nonostante l’assenza della creatività immaginifica che mi aveva fatto avvicinare a questo autore giapponese, credo sia per la forte presenza di questi elementi, oltre che per l’efficace descrizione dei personaggi.

Da autore ucronico e amante del genere fantastico (dove l’ambiente è fondamentale), non posso poi non notare qui un’ambientazione particolare. Siamo in Giappone, un Giappone molto reale, e talora si citano alcune città e luoghi di questo Paese, ma la storia avrebbe potuto svolgersi in qualunque Paese moderno. I riferimenti e le citazioni di opere musicali e letterarie sono numerose, a partire dalla canzone “Norvegian Wood” che dà il nome ad alcune edizioni del romanzo, ma sono quasi sempre titoli occidentali.

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Haruki Murakami

Siamo a Tokio ma potremmo essere benissimo a Berlino, Londra, Roma o Parigi. Tradiscono l’ambientazione solo alcuni rari termini giapponesi, più che altro legati alla cucina e all’arredamento. Come mai Murakami si rivela così poco giapponese? Nelle note alla fine del volume rivela che il romanzo è stato scritto tra la Grecia, la Sicilia e Roma. Indubbiamente questo deve avere avuto il suo effetto sulla scrittura, così come il fatto, sempre citato a fine volume, che Murakami ascoltasse musica occidentale e soprattutto Sergent Pepper dei Beatles mentre scriveva.

In conclusione, questo romanzo mi è piaciuto e si collocherà senz’altro tra le mie letture preferite, anche se non saprei ancora a che posto; però, sebbene abbia capito che Murakami sa essere autore vario e diverso da libro a libro, cosa che considero un grande pregio, ancora non saprei quanto sia geniale e se lo voterei per il prossimo Premio Nobel.

L’ANELLO DI CONGIUNZIONE TRA DRACULA E McCULLEN

Nell’evoluzione letteraria della figura del vampiro dalle sue prime forme romanzesche dell’ottocento (Polidori, Byron, Mistrali, Le Fanu e, infine, Stoker) “Intervista con il Vampiro” di Anne Rice si pone idealmente a metà strada tra il Conte Dracula disegnato da Bran Stoker e Edward McCullen, il vampiro protagonista della saga “Twilight” di Stephenie Meyer, sebbene, essendo stato pubblicato nel 1976, sia cronologicamente assai più vicino a “Twilight” (il primo volume è del 2005) che non a “Dracula” (1897).

A parlare in prima persona è un vampiro, cosa che sposta decisamente la centralità narrativa su questa figura, che nel romanzo ottocentesco tendeva invece a essere posta ai margini del punto di vista, proprio per accentuarne il mistero e l’orrore.

Anne Rice invece ne esplora la psicologia e la personalità, il modo di pensare. Pur mantenendo tutte le caratteristiche che già avevamo visto nell’opera di Stoker (dorme in una bara, non può uscire di giorno, è molto forte, ha i famosi canini, si nutre di sangue umano), diventa figura assai più umana. È un uomo condannato a una “non-vita” eterna che un po’ ama e un po’ detesta. Ha sentimenti ed emozioni. Odia e ama. Cerca compagnia, pur restando il suo cuore gelido.

Il rapporto con il vampiro Lestat, che l’ha reso simile a sé, o con il fascinoso Armand è complesso e articolato. Quello con la piccola Claudia è a metà tra il rapporto padre-figlia e quello di due amanti, pur restando speciale per la natura vampiresca dei due.

Vi troviamo poi anticipati alcuni elementi caratteristici della saga della Meyer (è velocissimo; si tormenta quando deve trasformare qualcun altro in vampiro; cerca di nutrirsi di animali per non uccidere esseri umani; si distingue da altri vampiri: non tutti sono ugualmente malvagi; si scontra con altre creature della notte).

Anne Rice

Anne Rice

Se è vero che “Twilight” deve molto a questo romanzo, non si può però dire che abbia fatto progredire particolarmente il genere e “Intervista con il Vampiro” rimane un’opera decisamente superiore per spessore e approfondimento dell’analisi psicologica dei personaggi. Anche la trama, per quanto piuttosto essenziale, si presenta meno scontata e l’amore tra vampiri viene raffigurato in modo assai diverso dal classico romanzo rosa, come a volte pare fare l’opera della Meyer.

Se Théopile Gautier (“La morte amoreuse” del 1836 – più un fantasma, in realtà, che un vampiro, sebbene ami il sangue) e Le Fanu, oltre un secolo prima (1872), ci avevano mostrato il primo vampiro donna, Anne Rice ci offre quello che se forse non è il primo vampiro-bambina, ne è però uno dei meglio disegnati, con la piccola Claudia costretta per secoli nel suo corpo da bambina, ma che vorrebbe essere donna o almeno donna-vampiro.

Di sicuro con la Rice il vampiro ha smesso, volutamente, di fare paura, si è posto più vicino al lettore e non gli sarà difficile, un trentennio dopo, diventare un bravo scolaretto come McCullen.

 

Firenze, 17/08/2013

 

Brad Pitt in "Intervista con il vampiro"

Brad Pitt in “Intervista con il vampiro”

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