Ci sono film che non ti lasciano nulla, o almeno così sembra, e altri che ti rimangono “addosso” per tutta la vita ed ogni tanto riemergono, facendosi ricordare.
Un film di quest’ultimo tipo è stato, per me “Solaris”, nella versione di Tarkowskij.
L’ho visto molti anni fa ma ancora ricordo la sensazione da incubo di quegli esseri partoriti dalla fantasia degli astronauti rinchiusi nella claustrofobica stazione orbitante attorno al pianeta vivente e pensante chiamato Solaris.
Un film del primo tipo è stato invece “Solaris”, nella più recente e americanizzata versione di Soderbergh, con George Clooney, di cui mi sono rimaste solo alcune tracce, che si appoggiano sulla più solida memoria del film del 1972 di cui è un pallido remake.
Nello scrivere un romanzo sulla materialità degli incubi, mi sono tornati alla mente questi due film e, pensando che ancora non avevo letto il romanzo omonimo del polacco Stanislaw Lem, ho voluto porre rimedio, anche con l’intento di capire quanto questo libro potesse avere davvero a che fare con quello che avevo quasi ultimato di scrivere.
Quello che ho fatto, nel leggerlo, è stato dunque un triplo raffronto. Poiché della versione di Soderbergh, come dicevo, ricordavo poco, l’ho rivista.
Ebbene, il romanzo è una storia filosofica e visionaria di grande respiro in cui si narra di una spedizione su questo lontanissimo pianeta, caso eccezionale nell’universo, caratterizzato dall’essere divenuto un unico immenso organismo, di forma fluttuante, simile ad uno sterminato oceano ma di diversa corposità. Un oceano mutante, che continuamente cambia forma e che, soprattutto, pare dotato di una propria intelligenza con la quale non solo stabilizza la propria orbita attorno ai due soli del sistema planetario cui appartiene, ma crea continuamente nuove forme colossali sulla propria superficie. Questo pianeta pensante è stato oggetto di studio per varie generazioni degli scienziati cosiddetti “solaristi”.
Ultimi trai quali i passeggeri della stazione orbitante in cui la storia si svolge. Passeggeri che sono uomini intelligenti e, appunto, scienziati, non certo il ragazzetto schizzato che fa la parte di Snaut nel film di Soderbergh, né il piacione incorporato da Clooney. Gente che riflette sulla propria esistenza ma soprattutto su quel mistero incredibile che sono venuti per studiare. Di tutto ciò il film americano non lascia traccia e per quanto ricordo, non credo sia approfondito più di tanto neppure nel film russo.
Quello che ricordo del film di Tarkovskij è soprattutto il difficile rapporto degli studiosi con i loro incubi personificati, esseri che non li lasciano un solo istante e cui loro stessi si affezionano, in quanto proiezioni delle proprie menti realizzate dai poteri psichici del pianeta. Di questo forse è emerso qualcosa nel romanzo che sto scrivendo.
Anche il remake si concentra su questo aspetto, ma ignorando del tutto le motivazioni e le ragioni, pur misteriose, dell’esistenza di questi esseri, che sono solo una delle numerose espressioni dell’attività di Solaris, come è chiaro leggendo il romanzo.
Lem infatti sembra preoccuparsi soprattutto di raccontarci che la nostra visione antropomorfa della vita e dell’intelligenza è del tutto fallace, che nell’universo possono esistere forme viventi incomparabilmente diverse dall’uomo. Credo anzi che tra tutti gli alieni partoriti dalla fantascienza, Solaris sia il più alieno di tutti. Un essere così inconcepibile che, nonostante sia stato studiato per decine d’anni da numerosi scienziati, nonostante sia stato oggetto delle più disparate teorie e ipotesi, risulta sempre inconoscibile, come solo un Dio può essere, al punto che alla fine il protagonista si chiede se non sia proprio un “Dio bambino” o un “Dio imperfetto” ancora alla ricerca di un modo per esprimersi.
Si tratta dunque di un romanzo che, pur perdendosi in minute descrizioni dell’attività solariana o degli studi solaristici, tocca riflessioni sul senso della vita, sull’intelligenza, sulla morte, sull’amore e su Dio come solo i grandi e migliori romanzi di fantascienza riescono a fare.
È, infatti, solo grazie ad autori come Stanislaw Lem che la fantascienza può rivendicare il diritto di dirsi letteratura, anzi una delle forme più alte di letteratura, giacché prossima alla filosofia.
Purtroppo però il pubblico tende a confondere il genere con le storie d’avventura con astronavi sparatutto che combattono conto alieni insettiformi.
Ancora una parola sul finale, che nel romanzo è, fondamentalmente aperto, con una vaga speranza che “l’epoca dei miracoli crudeli non fosse ancora finita”, mentre nel film di Soderbergh si risolve in un’abbandonarsi al destino o meglio alla volontà di Solaris, da cui scaturisce poi un inutile lieto fine, piuttosto in contrasto con la perenne misteriosità del pianeta che impariamo a conoscere nel romanzo.
Finita la lettura mi ripromisi appena possibile di rivedere il film russo e di cancellare dalla memoria quello americano, in attesa che un nuovo remake renda giustizia a Lem. Cosa che ho fatto alcuni mesi fa.
Io credo che, se mai si volesse fare oggi un film da questo libro, oltre a riprenderne le riflessioni di cui sopra, sarebbe giusto sfruttare la potenza degli strumenti informatici, cercando di ricostruire almeno la magia dei simmetriadi, dei mimoidi, dei vertebroidi, degli agilanti e delle altre forme solariane, mentre il pur recente film di Soderbergh si limita a farci vedere solo una specie di magma colorato e delle nebbie oscillanti.
E per finire segnalerei un’analogia con un telefilm recente di grande successo “Lost”, in cui i protagonisti hanno a che fare non con un pianeta vivente, ma con un’isola misteriosa che sembra dotata di una propria volontà e che pare in grado di agire sulla psiche dei naufraghi, personificando le loro memorie. Qualcosa a che fare con Solaris, forse?
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