I sogni sono quelle cose da cui ci si sveglia.
(Raymond Carver)
Non avevo mai sentito parlare dell’Isola dei Bambini Perduti. Il nome mi riportava alla mente la storia di Peter Pan e la sua Isola che Non C’è, dove andavano ad abitare tutti i bambini che nei parchi cadevano dalle carrozzine, in particolare quello di Kensington.
Non era per nulla un’isola, ma un edificio degli anni ’50 piuttosto brutto, con l’intonaco che cascava a pezzi. Le pareti erano affrescate con riproduzioni approssimative di personaggi disneyani.
Un gruppetto di bambini giocava in un angolo con delle preistoriche automobiline di plastica, sotto le fauci spalancate e un po’ storte di un enorme Paperino disegnato a mano da qualche aspirante artista. Niente Wii, PSP o Xbox in vista.
– Eccoci, siamo arrivati – annunciò la ragazza – Signor…?
– Paolo Demetri – le sorrisi – Paolo.
– Maria.
Ci scambiammo una stretta impacciata. Mi parve che le sue dita, nel lasciare le mie, le accarezzassero. La guardai e vidi i suoi occhi sfuggire dai miei.
Elena entrò rassegnata, ma non lasciò mai la mia mano, cui si era aggrappata da quando era comparsa l’assistente sociale alla fermata della metro. Anzi, quando eravamo entrati nell’edificio, si era fatta più vicina a me e l’aveva stretta con maggior forza.
Maria ci guidò fino a una sala in cui vari bambini giocavano sotto lo sguardo di una signora grassottella e di due ragazze.
– Bene – disse Maria, come per congedarmi – il posto è questo – e si aggiustò un ciuffo ribelle. Seguii per un attimo il movimento delle sua dita sottili.
– Vedo – risposi e mi abbassai per salutare la bambina.
– Ciao piccola – le feci, guardandola negli occhi immensi. Elena ricambiò lo sguardo e mi disse:
– Vai via?
– Torno a casa mia.
– E io? – chiese delusa.
– Tu devi stare qui per un po’.
– No – rispose determinata.
– Questa signora è molto gentile – ero accovacciato davanti a lei.
– No. Non andare – m’implorò, restando aggrappata a me. Aveva gli occhi lucidi. Prima o poi piangerà, pensai. Qualunque bambina, al posto suo, l’avrebbe già fatto da un pezzo. Elena però resistette.
– Sai – le dissi – ho anch’io una bambina. Si chiama Laura. Ha sei anni. Ora mi aspetta a casa.
– Portami con te.
– Questo non è possibile. Devi stare qui.
– Perché?
Come potevo spiegarglielo? Come potevo dirle che ora era un’orfana, che la sua mamma non c’era più e che quella ormai era la sua casa?
– Il signore tornerà a trovarti – mi soccorse Maria. – Vieni a giocare con gli altri bambini.
– Non voglio – squittì la bambina.
– Tornerò presto. Ora devo andare – le dissi aggrappandomi a quella scusa.
Non pensavo di farlo veramente, ma quella non sarebbe certo stata né l’unica delusione, né il più grosso dolore che quella bambina avrebbe dovuto sopportare in quei giorni. Prima o poi, avrebbe capito di essere rimasta sola al mondo. A soli quattro anni. Davvero troppo presto!
Mi ripetevo che, in fondo, per lei ero solo un signore sconosciuto di passaggio. La constatazione mi parve molto logica e razionale, ma dentro di me qualcosa diceva che non era così. Sentivo una sorta di dovere morale che mi legava, stranamente, a quella piccola, come fossi suo padre.
Mi allontanai salutando. Finalmente la piccola riuscì a piangere. La cosa non mi aiutò certo a lasciarla, ma la bimba apparve ai miei occhi più normale, più umana e questo mi liberò, in parte, di quella sensazione strana, che pareva vincolarmi a lei.
– Chiamerò per sentire come sta – gridai dal corridoio all’assistente sociale, spinto da quel che rimaneva di quel legame improvviso.
– Chieda di Elena Dati – mi rispose Maria – la bambina si chiama così.
Ero in ritardo per la cena, ma non riuscivo ad affrettarmi, come se qualcosa trattenesse i miei passi. A casa erano abituati ai miei orari irregolari. Sarei arrivato dopo le otto. Mia figlia, finita la cena, probabilmente sarebbe già stata pronta per andare a dormire, schierando il piccolo esercito di pupazzi, fedele custode del suo sonno. Forse anche mia moglie aveva ormai già finito e così avrei mangiato da solo, riscaldandomi qualcosa nel microonde.
Gli occhi e il tocco di quella bambina mi rimasero in testa per tutta la strada… e anche quelli di Maria.
Arrivato a casa, parlai dell’orfana con mia moglie che si limitò a dire:
– Povera piccina! – ma non diede particolare peso alla cosa. Parve persino meno stupita di me dalla mia decisione di seguire la bambina in orfanotrofio. Da quando era nata nostra figlia era diventata piuttosto distratta su ciò che mi riguardava. Come previsto, mi trovai da solo in cucina a consumare poco attraenti avanzi di pasta, accompagnato dal ronzio del forno che faceva rotare il piatto del secondo e dalle frasi smozzicate della TV accesa nella stanza accanto. Dopo aver riordinato, controllai la posta elettronica, le novità su facebook e anobii, mi infilai il pigiama e andai a dormire. Mia moglie guardava ancora un telefilm.
Al mattino mi districai nel traffico di utilitarie, SUV, motorini, microcar, camioncini e berline, che si facevano la guerra per conquistare alcuni inutili metri di vantaggio verso gli obiettivi più disparati. Uscii dalla città e presi l’autostrada fino all’aeroporto. Fissavo con odio le auto davanti a me, che rallentavano l’andatura della mia. Tamburellavo con le dita sul volante.
Mi imbarcai velocemente, superando il gate quasi di corsa. Il mio volo si levò fulmineo in cielo. Un sibilo d’acciaio nel vento. Le hostess erano particolarmente graziose e avevano un’aria vagamente ammiccante. Notai che quasi tutti i passeggeri erano donne e anche piuttosto attraenti. Non riuscivo però a scorgerle bene, come se una strana nebbia mi coprisse gli occhi. Mi sforzai di mettere a fuoco, ma i miei occhi si comportavano in modo strano.
A un tratto il cielo si oscurò, dentro e fuori della cabina, stimolando un coro di esclamazioni dei viaggiatori. Anche quelle erano come ovattate. Che cosa succedeva ai miei sensi?
L’aereo prese a sobbalzare tra un vuoto d’aria e l’altro. Ero abituato a viaggiare e quelle turbolenze non mi preoccupavano. Una strana eccitazione crebbe, invece, in me, quando l’altoparlante annunciò di allacciare le cinture in varie lingue, alcune sconosciute, il cui suono mi turbò come una voce spettrale che provenisse da altri mondi.
L’aereo stava precipitando! Feci mente locale della posizione del salvagente e delle uscite di sicurezza. Scelsi quella accanto al maggior numero di belle ragazze. A bordo ce n’erano davvero tante! Mi girava la testa.
Anche se scendevamo sempre più in fretta, l’idea di precipitare mi eccitava. Accanto a me c’era una ragazza giovane, bionda, bellissima e molto spaventata. Le presi la mano per confortarla e lei mi abbracciò, aggrappandosi al mio collo. La baciai e lei ricambiò, con la passione della vita che fugge via. Gli armadietti si spalancarono e le valige presero a volteggiare per l’abitacolo. Sobbalzammo all’impatto della carlinga con l’acqua. Mi trovai ad affrettarmi verso l’uscita di sicurezza, trascinandola per mano. Tutto era avvolto nella nebbia. Non mi importava che tutto fosse grottesco. Mi interessavano solo le ragazze, come capita in certi sogni, dove tutto il resto è solo contorno. L’aereo ammarò indenne e, per un po’, galleggiò in mare.
Ci gettammo tra le onde. Nuotammo verso un gruppo di altre quattro ragazze che ci chiamavano agitando le braccia e ci aggrappammo assieme, sorretti dai giubbotti gonfiabili. Osservammo la coda dell’aereo sparire sott’acqua in un ultimo rigurgito di bianco. Non c’erano più tracce degli altri naufraghi. Il cielo turchese pareva lontanissimo e non si scorgeva la terra. Una luce intensa ammantava l’orizzonte.
Un’onda ci trascinò in una lunga corsa verso una verdeggiante spiaggia tropicale. Quasi volavamo sull’acqua. Con poche bracciate raggiungemmo la riva, schizzandoci a vicenda di acqua e sabbia dorata. La catastrofe appena vissuta sembrava qualcosa di dimenticato. Anche il mare, di un blu densissimo, sembrava essersi placato. Eravamo solo noi sei e l’Isola, dimentichi di tutti gli altri naufraghi e del loro dolore remoto. Mi apprestai così a un’insperata vacanza di sesso sfrenato. Giocavamo a rincorrerci, quando, tra le larghe foglie della vegetazione lussureggiante alcuni tronchi presero vita e si trasformarono in visi scuri: indiani! Con tanto di penne in testa e archi. Come nei vecchi western. Anzi, come in un cartone animato. Gli indiani, nei loro costumi variopinti, cominciarono a inseguirci, facendo quel tipico verso che imitavamo da bambini giocando ai cowboy, con la mano che sbatte sulla bocca. Poiché non avevo da offrire loro altro che uno scalpo, per quanto ancora ben fornito di capelli, m’imprigionarono e legarono a un totem comparso dal nulla e mi abbandonarono lì, e si divertirono a rincorrere le ragazze. Dubito avessero mai visto prima squaw tanto belle!

Peter Pan e i bambini perduti
Comparve allora un nugolo di bambini vestiti con pellicce d’animali e armati di fionde, sassi e bastoni. Saltavano, correvano, piroettavano e urlavano come ossessi, ridendo a più non posso. L’isola parve brulicarne. Erano bianchi, grassottelli e riccioluti! Quando vidi chi li comandava capii subito chi fossero. Li guidava un ragazzetto poco più grande di loro, più magro, agile, veloce e che… volava. Era proprio lui: Peter Pan e quelli, indubbiamente erano i Bambini Perduti, simili alle illustrazioni del libro che leggevo da bambino!
I marmocchi assalirono gli indiani, che scapparono via, inseguiti da tiri di cerbottana, sputi e, i più sfortunati, pizzichi nelle chiappe seminude.
Fu in quel momento che comparve Elena, la bambina dell’orfanotrofio.
– Lasciatelo legato – disse – è un uomo cattivo. Mi ha abbandonato sull’Isola.
La sua comparsa mi sbigottì ancor più di quella di Peter Pan. Provavo una certa vergogna. Avevo la sensazione che la bambina avesse assistito a tutto fin dall’inizio. Ero cosciente di trovarmi in un sogno. Elena, però, pareva vera, come se avesse un’altra consistenza, quasi fosse una statua inserita in un dipinto. Il mio imbarazzo si trasformò quasi in paura.
I bambini presero a volteggiarmi attorno, danzando come prima avevano fatto i pellerossa, con passo ritmato, ma caotico, intonando canzoncine sconnesse. L’aria si fece scura. Le nuvole presero a girare attorno alla mia testa, sempre più velocemente. Nonostante fossi legato, mi parve di perdere l’equilibrio. In mezzo al mare scorsi la sagoma di una lontana torre nera. Piccole fate dalle ali vibranti mi volteggiavano attorno agli occhi, come zanzare importune.
Non riuscivo a vedere bene il loro re, ma non mi pareva Peter Pan. Sembrava piuttosto un satiro. Seduto su un ramo, sghignazzava. Era come se sapesse cose celate alla comprensione dei comuni mortali, segreti inenarrabili e misteri della cui conoscenza si beava con supponente alterigia: la profondità del tempo multiforme in cui ogni presente ha infiniti futuri; arcani arcaici tramandati da mostri lovecraftiani provenienti da ere remote; tracce di futuri lontanissimi e alternativi; la storia dell’Uomo, primevo primate ignaro della propria ignoranza; il segreto delle interconnessioni neuronali e delle sinapsi cosmiche.Insomma non capivo un accidente ma mi sentivo in soggezione, come capita davanti ai veri re!

Pan
Quella creatura inquietante protese la mano beluina verso di me e si presentò:
– Sono il Re. Sono Oooooo…..
La sua voce si perse in lungo Ohm sanscrito, un primordiale e sconvolgente Pranava.
All’improvviso, un bambino saltò ai piedi del totem cui ero legato. Si arrampicò veloce come uno scoiattolo e mi ritrovai il suo viso davanti agli occhi. Aveva il muso d’asino, con grandi denti equini sghignazzanti. I suoi occhi avevano la profondità di un cielo notturno senza stelle. Urlai e, finalmente, mi svegliai, ansimando.
Quando aprii gli occhi, la prima cosa che mi venne in mente fu che quel sogno doveva essere stato generato dai sensi di colpa per aver lasciato la bambina. Mi pareva, però, che quel sogno fosse altro, contenesse altri messaggi e avesse una natura che non comprendevo.
Che cosa avrei dovuto fare, del resto? Non potevo certo rapire la piccola orfana e portarmela a casa. La visione di Elena, così viva e reale, però, mi aveva turbato. Non sembrava un sogno. I miei desideri sessuali, nel frattempo, si erano del tutto afflosciati. Forse se non fossi stato così ignorante in materia di psicoanalisi, sarei riuscito a trovare un senso al tutto, pensavo.
La sera affrontai nuovamente l’argomento “Elena” con mia moglie.
– Sai, Giovanna, ho ripensato a quella bambina. La nostra casa è abbastanza grande. Forse… non so… magari potremmo farla stare qui… per un po’… finché non trova qualcuno che la adotti…
Giovanna rimase in silenzio a guardarmi con uno sguardo privo d’intensità, che ormai avevo imparato a conoscere. Di solito se le proponevo qualcosa mi travolgeva con le sue considerazioni o m’ignorava con palese disgusto. Si era certo resa conto della serietà della cosa, che non poteva liquidare con una battuta.
Ormai avevamo rinunciato ad avere un secondo figlio. La gravidanza e i primi anni di un bambino erano un impegno troppo gravoso, così Giovanna, dopo la nascita di Laura, non si era mai detta disponibile a ripetere un’esperienza che l’aveva provata nel fisico e nello spirito.
– Non so, Paolo, se sia il momento per pensare a un’adozione… – rispose senza enfasi.
– Veramente – mi difesi – non ho mai parlato di adozioni. Pensavo solo che mi dispiace per quell’orfanella, così, sola, in quel brutto posto. Forse potremmo farla stare un po’ in famiglia, finché…
– Non pensi sia crudele tenerla con noi per poi abbandonarla di nuovo?
Non lo pensavo. Ne ero certo. Ne ero già certo. Già allora mi era difficile pensare di lasciarla. Aveva prodotto su di me una sorta d’imprinting al contrario: dovevo seguirla come un anatroccolo segue la madre.
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