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TRA MAGIA E TECNOLOGIA LA SCOPERTA DEL POTERE

E tre! Si dice che non c’è due senza tre e Melania Fusconi deve averlo ben chiaro, perché dopo i successi dei precedenti volumi della saga fantasy “Le anime di Leggendra” (“Le anime di Leggendra” e “La viaggiatrice”) si appresta a presentare al Salone del Libro di Torino e, a seguire, al Firenze Cosplay, il terzo volume: “Le origini” (Tabula fati, 2023).

Ho avuto l’onore di leggerlo in anteprima.

Si tratta di un fantasy ma con elementi fantascientifici (astronavi, viaggi spaziali, clonazione, olografie…) che vede la protagonista Alhena scoprire l’esistenza di una Setta di Viaggiatori e di una Culla della Vita in cui sono generati i corpi dei Leggendriani che serviranno per le reincarnazioni sue e dei suoi fratelli. In un succedersi di lotte e scontri politici, Alhena scopre di essere originaria di un Pianeta, Honua, andato distrutto da un potere apocalittico, Nega. Scopre anche di trovarsi su Leggendra per proteggere un altro grande potere, Posi.

Se in “Psicosfera” sogni e visioni sono generati dal popolo magmatico di Gaia ne “Le Origini” i sogni e gli incubi di Alhena sono i ricordi di Mahadeva, l’anima originale, che ha vissuto moltissime vite in corpi diversi. Riesce persino a comunicare con i suoi precedenti “Io”.

Aliena, Predestinata, Viaggiatrice, molte sono le identità di Alhena, pesanti il suo destino e la sua responsabilità con pirati e mostri alieni che insidiano il regno. Ci sono macchine speciali per conservare le memorie ma anche magie e Cimeli Ancestrali, contenenti l’antico potere dei Creatori, per aiutarla nella sua impresa, ma… prima deve trovarli.

Aspetto allora di incontrare Melania Fusconi a Torino e Firenze.

LA MAGICA KATE, TRA HARRY POTTER E TWILIGHT

Kate e il Regno Dimenticato: Amici e Nemici – Minas Tirith” (Tabula fati, 2017) è il primo volume della trilogia fantasy di Silvia Banzola sulla ragazza che si scopre all’improvviso erede di un regno magico, in un altrove popolato da maghi, orchi, vampiri e draghi, dove vivono persino i propri genitori che credeva morti.

Si riprende poco per volta dallo sbigottimento iniziale per la scoperta della propria reale (in entrambi i sensi) identità, calandosi nel nuovo ruolo e cercando alleanze per sconfiggere il mago oscuro Victor. A grandi linee lo schema fa pensare ai romanzi di Harry Potter, con un protagonista che scopre di avere poteri magici insospettati e un ruolo determinante in un mondo parallelo dominato dalla magia. Ci sono, però, elementi che richiamano maggiormente “Twilight” con il vampiro fascinoso e disposto a rinunciare per amore ai propri appetiti, di cui si innamora Angela, la miglior amica di Kate. Anche Kate trova se non, per ora, l’amore, una forte amicizia nel mago Daniel che compare in modo inaspettato nella sua vita e l’aiuta in più occasioni.

Il rapporto con potente drago Koanoz, vittima di un incantesimo che gli ha fatto perdere il controllo del fuoco, rendendolo involontariamente pericoloso anche per gli abitanti del villaggio che l’aveva allevato, mi fa piuttosto pensare a “Le cronache del ghiaccio e del fuoco”, se non a “Shreck” o a “Eragon”.

E che dire di Cagliostro, il gatto parlante che porta il soprannome di un alchimista eretico? Personalmente penso all’onirico Behemoth di “Psicosfera”, a sua volta derivato dall’omonimo gatto de “Il Maestro e Margherita” e dall’ipopotamesco demone biblico, ma mi viene anche in mente “Il gatto con gli stivali”. Del resto i gatti accompagnano da sempre le streghe.

Tra i personaggi singolari che si trovano nel volume, oltre a un inconsueto (per i fantasy) Minotauro, troviamo un principe delle rane blu, disperato per essere stato trasformato in principe umano, in un rovesciamento della celebre fiaba.

Il volume ha un finale aperto che dopo la conquista dell’amicizia del drago ci lascia in attesa di scoprire se Kate riusicrà a riconquistare il regno che non pensava di possedere.

La trilogia sarà presentata al Salone del Libro di Torino, preso lo stand del Gruppo Editoriale Tabula fati Solfanelli.

LA MACCHINA DEL TEMPO DEI ROSENKREUZER

Rosa nel tempo” (Solfanelli, 2022) di Rosanna Mutinelli è un romanzo che parte piano per riempirsi man mano di sorprese.

Dalla lettura delle prime pagine mi ero fatto l’idea quasi che si trattasse di qualche diario personale, con questa restauratrice affetta da astigmatismo e miopia, che le fanno vedere tutto come in sogno finché non si decide ad acquistare un paio di occhiali.

Ma ecco che, in un crescendo inarrestabile, il romanzo si arricchisce e prende forma. Che sia opera colta, con dietro numerose letture, si può intuire già dalla ricca presenza di citazioni di ogni genere.

Ecco che il lavoro della protagonista Rosa Di Maggio la porta a un misterioso edificio con un’ancor più oscura iscrizione da decifrare. Ecco altri messaggi cifrati. Ecco che l’edificio svela segreti inattesi, camere occultate e tesori inaspettati. Ecco che si comincia a parlare niente meno che della setta esoterica dei Rosa-Croce, leggendario ordine segreto mistico, cabalistico – cristiano, menzionato storicamente per la prima volta nel XVII secolo in Germania, sebbene l’accostamento della rosa alla croce sia già presente nel Rosarium philosophorum, opera del XIII secolo.

Come individuare un rosacroce? Impossibile: chi dichiara di esserlo non lo è, chi  dice di non esserlo potrebbe esserlo, perché l’ordine vieta di dichiarare l’appartenenza.

Ecco parentele nuove e inattese che si rivelano. Ecco un destino iscritto nel sangue che fa pensare a un fantasy. Ecco tracce di alchimisti che cercano di mutare il piombo in oro, di trovare la pietra filosofale, di ottenere la vita eterna. Ecco una stanza nascosta che rivela un’antica macchina del tempo con testi che ne parlano e fotografie dalla cronologia sospetta quasi si fosse in un romanzo di fantascienza. Ecco un dipinto che ne cela un altro.

Non si parla solo di storia ma anche di matematica, come studio della relazione tra gli oggetti.

Non vi basta?

Rosa nel tempo” è stato per me una piacevole sorpresa da parte di un’autrice che non conoscevo e che spero di incontrare di persona al prossimo Salone del libro di Torino, dove saremo entrambi allo stand del Gruppo Editoriale Tabula fati – Solfanelli.

ALLA SCOPERTA DELLE CONOSCENZE PERDUTE

Spesso fantascienza e fantasy si mescolano, in varia misura. Anche la saga fantasy di Melania Fusconi, “Le anime di Leggendra” di cui avevo letto il primo volume “I Cimeli Ancestrali” e ho ora ultima il secondo “La Viaggiatrice”, pur essendo un tipico fantasy, con umani in mondi paralleli, magia, oggetti incantati, draghi e altri mostri, ha dei richiami a pianeti alieni ma la componente fantasy rimane preponderante.

Sullo sfondo abbiamo la lotta tra Alchemici e Gifter per il controllo della magia in un mondo in cui è stata bandita ma non è assente. Ci sono un popolo che vive in superficie e uno che ha dimora in mare. Centrale è la ricerca dei Cimeli Ancestrali perseguita dall’eroina Alhena, che va riscoprendo in sé speciali conoscenze e poteri che sembrano venirle da una vita precedente. È lo stesso drago a riconoscere in lei un sangue antico, divino, un’energia che viene dalle stelle.

La vicenda, ricca di avventure e colpi di scena, vede la ragazza affiancata da una bambina che non parla e da una serva e inserita in una sorta di harem del Generale Supremo dell’Impero, scelta per diventare, tra dieci ragazze, proprio la sposa del Padrone.

Riuscirà a trovare i Cimeli e ribaltare la sorte sua e di Leggendra? Dovremo attendere almeno il terzo volume, che sarà presentato a breve al Salone del Libro di Torino 2023 per saperne di più.

IL FANTASY PARALLELO DI HETA

Il terzo volume della saga “L’Isola di Heta” di Sandra Moretti, edito da Tabula Fati come i precedenti, s’intitola “Fuoco amico. Vol.1” (2021). Prevede quindi un quarto volume, che uscirà in occasione del Salone del Libro di Torino il 18 maggio 2023 e che ne costituirà la seconda parte.

I primi volumi erano “L’Isola di Heta” (2016) e “Diversi Mondi” (2018). Il prossimo dovrebbe essere “Fuoco amico. Vol. 2” (2023).

Nei precedenti volumi avevamo appreso che oltre al nostro esistono mondi paralleli che differiscono di poco rispetto al nostro, un po’ come i mondi del fantasy che si celano dietro i più vari portali o come gli universi divergenti dell’ucronia. Non pianeti alieni, quindi, così lontani da essere obiettivamente irraggiungibili e inconoscibili ma che possiamo e dobbiamo immaginare diversissimi dal nostro, ma spazi alternativi così simili al nostro da essere popolati da umani non diversi da noi per aspetto, emozioni, sentimenti e comportamenti. Così simili che la protagonista, giunta sull’Isola di Heta, può persino trovare il modo di vivere, amare e partecipare ai conflitti locali. Ecco quindi le difficoltà dei rapporti familiari che si mescolano con lotte per il potere.

La differenza più rilevante tra la Terra che conosciamo e Heta è forse la sua religione,

basata sul culto degli spiriti dei Quattro Elementi: Terra, Aria, Acqua e Fuoco. Di nuovo appare potente la suggestione del fantasy più che della fantascienza, delle implicazioni sentimentali più che della speculazione scientifica.

La protagonista Thea ha un dono particolare, la capacità di teletrasportarsi, non solo nello spazio comune, ma anche tra un mondo parallelo e un altro. Un potere che nasce dalla sua stessa natura, non derivante quindi da ritrovati tecnologici come in “Star Trek”. Siamo piuttosto dalle parti di “Psicosfera” e dell’energia onirica che consente a Giampiero Tassetti di materializzarsi altrove, perchè, parafrasando Shakespeare “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”.

BULLISMO E PUPISMO IERI E OGGI

Ricordo che quando ero bambino, non penso di aver avuto più di otto anni, il padre di un mio amico (una persona piuttosto diversa dai miei genitori a dir il vero) ci diceva qualcosa tipo: «Dovete imparare a diventare dei bulli. Dovete essere tosti, così le pupe vi correranno dietro».

Fu, credo una delle prime volte che sentii la parola “bullo” o quanto meno la prima in cui la vidi inserita in un contesto “morale”.

Durante la mia infanzia i bulli erano più che altro quelli del film “Bulli e pupe” con Marlon Brando e Frank Sinatra, “Bulli e pupe. Storia sentimentale degli anni cinquanta” di Steve Della Casa e Chiara Ronchini, “Giggi il bullo” con Alvaro Vitali ma ancor più “Poveri ma belli” di Dino Risi, anche se non ricordo se lì si usasse il termine.

Insomma, il bullo non era certo un modello di uomo o ragazzo da imitare, soprattutto per il mio tipo di formazione, ma era solo e soprattutto un ragazzo di borgata o periferia, sbruffone e cialtrone, non tanto un violento o un prevaricatore. Credo di averlo considerato spesso quasi un sinonimo di trasteverino, l’abitante di uno dei quartieri “antichi” di Roma.

Probabilmente la prima volta che ho usato il termine “bullismo” associandolo a un fenomeno di violenza e prevaricazione tra i giovani è stato quando ero ormai padre.

Questo non vuol dire che quando ero giovane questo fenomeno non esistesse. C’era eccome, ma i ragazzi imparavano a cavarsela da soli e, soprattutto, se non ci riuscivano, nessuno correva ad aiutarli.

Quando mi è stato chiesto di scrivere un racconto fantasy sul bullismo ho pensato di parlare del clima di violenza che si respirava ai tempi in cui ero al liceo, in particolare il 1977-78: gli anni di piombo. La rivoluzione culturale pacifista del 1968 si era ormai trasformata in un periodo di terrorismo e lotta armata, di estreme destre ed estreme sinistre che facevano a gara a chi creasse un maggior clima di terrore.

In tempi di prevalenza della Democrazia Cristiana, con all’opposizione un diffuso Partito Comunista, mi trovai in un anomalo liceo in cui il Movimento Sociale aveva quasi la metà dei consensi (e molti facevano parte di movimenti come Terza posizione). I fascisti spadroneggiavano ma il loro comportamento, a scuola, era proprio quello dei “bulli”: minacce, pizzi, bande semi-organizzate, picchettaggi. La politica spesso era solo un pretesto, anche se molti di loro gravitavano attorno a quello che sarebbe dovuto diventare il mio professore di filosofia se non fosse stato arrestato prima di diventarlo in quanto accusato di essere il mandante di alcuni omicidi, tra cui quelli dei magistrati Vittorio Occorsio e Mario Amato, nonché della strage di Bologna, per cui venne successivamente assolto. Venne poi condannato per associazione sovversiva e banda armata. Molti dei suoi alunni erano i nostri bulli alcuni dei quali arrestati per terrorismo. Insomma, non proprio gente facile da affrontare. E non venitemi a dire che oggi il bullismo è peggiorato…

Nel mio racconto “La banda degli sfigati” ho immaginato un liceo popolato da giganti, nani, elfi, orchi e altre creature magiche, che si scontrano con le stesse dinamiche. Gli anni di piombo, sono diventati qui gli anni di ferro.

Trovo interessante come il termine bullismo solo in pochi decenni abbia finito per rappresentare situazioni e persone ben diverse.

Il racconto fa parte di un’antologia “Non ti temo più”, edita a settembre 2022 da Tabula Fati e curata da Paola De Giorgi. Il sottotitolo è “Storie di bullismo e Cyberbullismo”. Già, perché quello che ai miei tempi mancava era il bullismo on-line e oggi si deve parlare anche di quello.

Il volume mi ha colpito per la prevalenza di voci femminili, su un fenomeno che, nella mia ignoranza, configuravo soprattutto maschile, perché derivato da quel mondo di cui scrivevo sopra, ma non c’è dubbio che anche delle ragazze possono essere malvagie e crudeli verso altre ragazze o che il fenomeno possa avvenire anche tra sessi diversi. Ai miei tempi i comparti erano maggiormente separati. Alle elementari ero in una classe di soli maschi, tanto per dire. Le autrici sono, dunque, undici, i racconti di autori maschi solo sei (due scrivono in coppia). Quattro delle cinque prefazioni sono scritte donne. Non ho verificato quanti personaggi maschili e quanti femminili ci siano, ma l’impressione è stata di una prevalenza di queste ultime figure, mentre mi sarei aspettato quanto meno rapporti invertiti.

Credo che questo sia un segnale di come il bullismo si stia trasformando. Non più semplice connotazione sociale tipicamente maschile, ma fenomeno di disagio diffuso in cui le donne sono diventate protagoniste. Si potrebbe forse parlare di “pupismo”, dato che la connotazione credo possa essere diversa a seconda del sesso degli attori. Le ragazze “pupizzano” in modo differente, più psicologico, credo, da come i maschi bullizzano, con maggiore fisicità. Se per i maschi le vittime del bullismo sono soprattutto ragazzi che non seguono le regole del gruppo dei bulli (che possono anche essere ben diverse dalle regole della società nel suo insieme), che hanno comportamenti difformi dalla “norma”, per le femmine credo che l’aspetto esteriore sia una causa scatenante più forte: magrezza, obesità, bruttezza in generale. Non per nulla nel volume, con il suo sguardo femminile, si parla di bodyshaming e persino di grassofobia.  

Nelle storie femminili mi pare prevalga l’intervento risolutore esterno, mentre questo è meno presente in quelle maschili.

Il volume si caratterizza per una certa diffusione di elementi fantastici o magici.

Nel racconto di Loredana Pietrafesa che apre il volume abbiamo una bambina perseguitata da due gemelle che troverà nella voce fantasma del nonno morto (che le manda messaggi in rima su aeroplanini di carta) la forza per superare la situazione, grazie anche all’intervento degli adulti e alla magia del nonno-fantasma che farà confessare le gemelle.

Surreale il racconto di Chiara Onniboni in cui un bambino mangia tutte le merendine dei compagni per non farli ricattare dai bulli. Di nuovo a essere risolutivo è l’intervento delle “autorità adulte”.

Nella storia di Marco De Franchi un padre bullo si ritrova con un figlio bullizzato. La soluzione arriva ancora dall’esterno.

Melania Fusconi ci regala una vittima magica, la cui capacità di mutare forma diventa la propria tortura personale e la causa del bullismo contro di lui. L’aiuto è ancora esterno e magico.

Nella storia di Carla Dolazza la protagonista, isolata dai coetanei, cerca l’amicizia nel portiere dello stabile (come non pensare a “L’eleganza del riccio” della Burberry o a “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca), che si rivela peggiore dei suoi compagni. Di nuovo abbiamo un intervento salvifico esterno.

Nel racconto di Alessandra Zenarola la causa del bullismo non è la bruttezza, ma il suo opposto, la bellezza. Qui sarà l’amicizia di un coetaneo a salvarla. Non occorre l’intervento di alcuna autorità. Sarà forse perché il bullismo contro una bella somiglia più all’invidia, mentre di solito è motivato dal disprezzo. Su questo però credo occorra fare una riflessione maggiore. Il bullo, credo, può essere spinto alla violenza proprio dal fatto di sentirsi “inferiore” nel contesto sociale in cui vive. Non credo sia tanto l’invidia verso la sua vittima a spingerlo ma piuttosto una sorta di invidia sociale verso il contesto in cui vive e in cui non riesce a eccellere a portarlo a dimostrare sui più deboli la propria fragile superiorità.

Analogamente la protagonista “Supplì” di Nicoletta Romanelli non doveva essere così “nerd” o brutta, se a salvare anche lei è l’amore di un ragazzo.

A salvare il protagonista di Andrea Gualchierotti è lui stesso, grazie a un sogno. Qui la causa del bullismo è solo una sua cicatrice. Come si diceva, però, per i maschi i problemi fisici sono facilmente superabili, soprattutto quando, come in questo caso non sono troppo marcati. Gli stessi difetti fisici posso essere causa di bullismo come non esserlo per nulla.

Il bullo di Errico Passaro insegue la propria vittima anche dopo essere morto, ma questa riesce a trovare in se stesso il modo per superare il problema.

Enrico & Vittorio Rulli decidono di usare il punto di vista del bullo, in una storia in cui la vittima di ragazzo è una ragazza, che lui prende in giro dicendole di amarla. Con pentimento postumo.

Un ragazzo magro ai limiti dell’anoressia nella narrazione di Donato Altomare riesce a ottenere il rispetto di chi lo bullizzava salvandoli in una situazione difficile. Risolve dunque da sé il problema in modo costruttivo e positivo, trasformando sapientemente il contesto e riuscendo a guadagnarsi la stima dei suoi avversari. Certo la sfortuna dell’incidente è stata per lui una discreta fortuna. Anche nel mio racconto uso il medesimo meccanismo, pur in un contesto diverso: la vittima vince aiutando i bulli e cambiandoli. Che è poi la mia esperienza personale in merito e quella che sento come più reale.

Nel racconto di Fiorella Borin l’essere bullizzati entrambi farà scoccare qualcosa tra un ragazzo e una ragazza.

Come nel racconto di Alessandra Zenarola, la vittima è una ragazza bella, che qui fa riemergere nell’insegnante i propri, simili, trascorsi giovanili.

Il racconto dai toni fantascientifici di Paola Giorgi ci mostra un futuro di una società divisa tra bulli (Alfa) e vittime (Omega). Purtroppo, non mancano al mondo ideologie che potrebbero portare in tale direzione.

La protagonista della vicenda narrata dalla curatrice Paola De Giorgi si presenta come una delle vittime più mature quando scopre che non c’è “nessuno a cui chiedere. Nessuno a cui rivolgersi in cerca d’aiuto” e quindi l’importante è che “Non devi arrenderti mai”.

Roberta Zimei immagina di intervistare un bullo pentito anni dopo che ha provocato involontariamente la morte della sua vittima.

Un argomento che il volume non tratta (del resto non è un saggio ma solo una raccolta di racconti) è il bullismo tra adulti. Devo dire che anche questo esiste e, anche se si dovrebbe presumere che un adulto siam meglio attrezzato per difendersi, ho visto persone prevaricarne altre sfruttando magari solo una posizione gerarchica superiore, non limitandosi a sfruttare la propria vittima, ma mettendola alla berlina davanti ai colleghi.

Insomma, un fenomeno a 360 gradi, che riguarda ogni fascia d’età e ogni sesso.

Il volume ha ricevuto il sostegno e la sponsorizzazione di molte associazioni. A fine volume si leggono i loghi della Commissione Pari Opportunità della Città di Porcia, dell’ADAO, Associazione Disturbi Alimentari e Obesità del Friuli, di Consult@noi, Associazione Nazionale Disturbi Alimentari e molti altri.

Una lettura importante per conoscerci meglio e riflettere sul nostro mondo, i rapporti interpersonali e il mondo giovanile.

DOV’È IL TEMPO CICLICO?

Wikipedia recita così “Il serpente Ouroboros è un romanzo fantasy dello scrittore inglese E. R. Eddison, pubblicato per la prima volta nel 1922. Che precede il ciclo di Zimiamvia, dello stesso autore. (… omissis…)

Il serpente Ouroboros narra le vicende di un mondo situato nello spazio più profondo: qui due potenti forze si contrappongono mentre si prepara una guerra tra imperi, uno scontro tra guerrieri e stregoni, tra onore e perfidia.

Nel frattempo si intraprende un viaggio che ha per meta una montagna incantata dove sarà possibile trovare la salvezza… o la distruzione.”

Più espressamente su Anobii si legge:

“Come in un sogno, Il serpente Ouroboros ci trasporta in una terra lontana governata dalle leggi della magia, dove due regni sono in lotta per la gloria o la distruzione totale. Il duello mortale tra Gorice, il Re stregone di Witchland, e Goldry, Signore di Demonland, segna l’inizio di una guerra che coinvolgerà eroi, mostri, incantatori e principesse, trascinati nel vortice delle armi fino all’inaspettato finale. Pubblicato nel 1922, il romanzo fonde in una nuova forma letteraria elementi dell’epica classica, delle saghe nordiche, dei poemi cavallereschi e del romanzo gotico: è l’atto di nascita del fantasy, molti anni prima che Tolkien, amico e attento lettore di Eddison, creasse la Terra di Mezzo. L’ipnotico stile dell’autore evoca la presenza del soprannaturale e le passioni barbariche rimanendo fedele allo spirito delle antiche leggende.”

Eric Rücker Eddison (24 novembre 1882, Adel, Leeds, Regno Unito; 18 agosto 1945, Marlborough, Regno Unito)

Si tratta senz’altro di una pietra miliare del fantasy. L’ho letto dopo averne sentito parlare con toni entusiastici da tre appassionati, ma devo dire che l’opera non mi ha preso in alcun modo. L’ho ascoltato, come spesso faccio, con il sistema TtS, distraendomi continuamente, forse per le descrizioni troppo lunghe e dettagliate, forse per la mancanza di personaggi che spiccassero, forse per una trama poco nitida che stenterei a riassumere in qualche modo. Inoltre, vi compaiono personaggi definiti demoni e streghe ma che si comportano ben poco come tali, quasi che simili nomi siano loro attribuiti senza particolare riferimento a ciò che questi (e altri termini) comunemente significhino.

Ci sono alcuni passaggi più intensi, ma si perdono in un insieme che mi pare privo di mordente.

Il titolo appare suggestivo, richiamando un antico simbolo l’urobòro, un serpente o drago che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine.

Il simbolo pare molto antico e presente in molti popoli e in diverse epoche. Rappresenta il potere che divora e rigenera se stesso, l’energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, la natura ciclica delle cose. Simboleggia quindi il tempo ciclico, l’eterno ritorno e l’immortalità.

Nel romanzo compare un anello che ne ricopia le fattezze, ma non vi ritrovo granché della magia che si sarebbe potuta raffigurare con un simile simbolismo.

L’EMOZIONANTE MAGIA DI UN FARO

Che Marco Toninelli (Lecce, 15/09/1948) sia uno che sa scrivere l’avevo capito subito, leggendo il suo mainstream-fantascientifico “Rockland” (Sillabe di Sale, 2017) con quel paese improvvisamente isolato dal mondo e ne avevo avuto conferma leggendo la storia dell’avvocato che decide di vivere come un barbone nel più recente “Molo 11” (Sillabe di Sale, 2021).

Ho letto ora il suo primo romanzo “Il Faro di Finisterre” (Sillabe di Sale Editore, 2016), che narra una storia di migranti moderni con i toni del fantasy.

Pare, infatti, che una caratteristica di Marco Toninelli sia quella di saper raccontare storie attuali, spesso amare, mescolandole con toni un po’ magici e spesso poetici.

Si veda, per esempio, l’incipit de “Il Faro di Finisterre”:

In antiche notti dimenticate un grande fuoco urlava al mare sotto la luna.

Uomini con gli occhi rossi e la pelle bruciata attizzavano il falò con le mani di ferro. Scintille di brace precipitavano giù dalla infinita, buia scogliera”.

Nell’introduzione si legge, poi:

Ma il vero protagonista di queste pagine è il faro.

Non è solo un luogo, una costruzione. È una possibilità.

È una delle finestre sul confine dell’universo da cui è possibile scorgere tutte le possibili albe passate e future.

È dove confluiscono fiumi di aria e di luce, da dove è possibile vedere oltre l’orizzonte”.

Il Faro di Finisterre

Il faro dove si svolge la vicenda sorge su un luogo antico, in cui si svolgevano riti perduti che sembrano avere un loro influsso sul presente. Riti di iniziazione che si ripetono, modernizzati, nel presente.

Il romanzo racconta, in modo emozionante, l’incontro tra la famiglia del guardiano del Faro e una famiglia di migranti, giunta da sola su una piccola barca da pescatori, salvata e accolta in una solidale mescolanza delle due famiglie, che divengono una sola, lasciando da parte ogni diffidenza.

La sorte degli altri migranti non è altrettanto felice e il professore di filosofia ed esperto falegname Kamil, scoprirà che altri non hanno avuto la sua stessa fortuna, che molti altri migranti vivono in un dedalo di grotte fetide denominate “L’Inferno”, sfruttati dalla malavita locale.

Marco Toninelli

Con l’aiuto del guardiano del Faro e delle loro famiglie cercheranno di creare una nuova comunità che unisca migranti e locali, creando sinergie economiche e ridando dignità a chi l’ha persa. Lo scontro con il potere e la malavita è inevitabile, ma il loro sogno utopistico è potente e li spinge ad andare avanti e a combattere nonostante le difficoltà, perché, in fondo “il futuro è semplice, abitato solo dalla speranza”.

Difficile per Kamil scegliere tra la “difesa della dignità, dell’indipendenza e della sicurezza della propria famiglia e la disponibilità verso la comunità a cui appartiene”.

Insomma, “Il Faro di Finisterre” è un romanzo che sa emozionare parlandoci di persone vere, con forti sentimenti, ma anche delle storture del nostro mondo, delle sue ingiustizie, dei suoi limiti come del suo grande potenziale che solo la collaborazione e la solidarietà tra i popoli e le singole persone potrà attivare.

LA NOIOSA TELECINESI SISMICA DEGLI OROGENI

Quando un libro che avrebbe alcuni elementi per appassionarmi mi annoia e fatico a seguirlo e a ricordarmi di che cosa parla mi viene da chiedermi se sia colpa mia, se mi trovo per caso in un momento in cui la mia attenzione è bassa. Eppure ho letto “La quinta stagione” di N. K. Jemisin subito dopo aver riletto per l’ennesima volta il sempre sorprendente “Alice nel Paese delle Meraviglie” e un romanzo che mi ha appassionato oltremodo come “Nella quarta dimensione” di Cixin Liu, mentre ora ne sto leggendo un altro non meno avvincente (“Wolf” di Ryan Graudin). Penso allora che il difetto sia nel volume, nonostante abbia vinto ben tre Premi Hugo e avviato una saga. “La quinta stagione” mi è parso scritto da un principiante, con cambi di tempo e di punto di vista di cui non ho ben compreso il senso. Ho apprezzato lo sforzo di creare neologismi e inventare un mondo “sismico” con esseri come gli orogeni con uno straordinario potere telecinetico che consente loro di agire sulle faglie sismiche e sulle rocce. Mi è parso un po’ vago, abusato, poco definita e forse banale la suddivisione in classi dei personaggi (orogeni, custodi, elite, innovatrici, granelli, mangiapietra, immoti). Ho trovato alcune parti descrittive inutili e contrarie al più elementare “show don’t tell”. Mi è parsa troppo vaga la descrizione della fede in Padre Terra. E dire che ho appena pubblicato un romanzo (“Psicosfera”) che ha proprio al suo centro la telecinesi e la struttura della Terra, dovrei essere quindi particolarmente sensibile al genere!

Insomma, un romanzo che non mi ha preso. Fantascienza o fantasy? Forse più vicino al fantasy per questo suo creare classi di individui e per i poteri quasi magici degli orogeni, di cui non mi pare si tenti alcuna classificazione scientifica.

Non penserei di leggere i successivi.

Nora Keita Jemisin (Iowa City19 settembre 1972

CREDERE NELL’MPOSSIBILE RENDE FELICI

Ho già letto vare volte “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” (“Alice’s Adventures in Wonderland”), comunemente abbreviato in “Alice nel Paese delle Meraviglie” (“Alice in Wonderland”) (1865) di Lewis Carroll, visto innumerevoli volte (soprattutto quando mia figlia era piccola) il film della Disney del 1951, e, più di recente “Alice in Wonderland” di Tim Burton del 2010.

Torno a leggere questo volume, in un edizione che comprende anche “Attraverso lo specchio”, in quanto ho appena scritto un racconto per l’antologia che Nicoletta Manetti sta curando per il Gruppo Scrittori Firenze sulle figure femminili in letteratura e mi faceva piacere controllare la coerenza con quanto da me scritto.

Considero questo geniale piccolo romanzo una delle opere fondamentali della letteratura, non certo un semplice libro per l’infanzia. Noto, anzi, che le sue ambientazioni, persino nella versione disneyana, suscitano nei bambini più piccoli una certa inquietudine.

È, infatti, un’opera che parla di follie, allucinazioni, non-sense, rovesciamenti dei rigidi usi dell’Inghilterra vittoriana. Un libro, insomma, per molti aspetti rivoluzionario e “sconvolgente”.

Lewis Carroll, pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson (Daresbury27 gennaio 1832 – Guildford14 gennaio 1898)

Tutto appare stravolto nel mondo alla rovescia di Alice, dove animali, oggetti e piante parlano, il cibo è qualcosa di pericoloso, che può farti crescere o rimpicciolire, in cui una dispotica Regina di Cuori e una Duchessa con arie da massaia non vogliono far altro che tagliare teste. Un mondo, insomma, piuttosto spaventoso, se non fosse così assurdo da risultare spesso comico, come è certo nelle intenzioni dell’autore, Charles Lutwidge Dodgson, che scrive sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll.

Mondo in cui, chissà se è voluto, dominano solo tre colori, assai netti e vividi, quelli della bandiera inglese: rosso, bianco e blu, mentre gli altri, a parte il verde, sembrano scomparsi.

Giochi di parole e non-sense ci conducono attraverso un percorso di follia che

però è anche di crescita, di iniziazione, di formazione: Alice, bambina di sette anni e mezzo, si ritrova da sola a dover affrontare questo universo inquietante e riesce a trovare dentro di sé la forza e il coraggio per farlo. Riesce a comprendere come il reale sia illusorio e tutto è possibile, che i gatti possono svanire nell’aria lasciando solo un ghigno, che si può crescere mangiando un fungo, che può affrontare da sola una regina bizzosa e il suo esercito di carte da gioco, che può ignorare la saccenza professorale del bruco blu come le regole della tavola del Cappellaio Matto o della cucina piena di pepe della Duchessa, che le filastrocche possono dire quel che vogliono, che le parole possono significare ciò che desideriamo, che nello specchio tutto è rovesciato, anche il tempo. Tutto ha una sua logica, anche l’impossibile. Anzi, la mattina a colazione occorre credere a sei cose impossibili per essere felici.

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