Quello che mi affascina maggiormente in Jorge Luis Borges e, in particolare, nella raccolta di racconti “L’Aleph” è la costruzione apparentemente
“scientifica” di mondi, personaggi e letterature immaginarie. Processo che sento particolarmente vicino al mio modo di percepire la scrittura, soprattutto in rapporto all’ucronia, che reinventando la Storia, segue un processo similare.
Incanta in Borges la ricchezza di riferimenti culturali, che sono però un abile miscela di realtà e fantasia. Elenchi di citazioni che alternano nomi veri e talora immortali a nomi semi sconosciuti e spesso inesistenti, confondendo e disorientando volutamente il lettore che stenta a riconoscere la verità e persino il pensiero dell’autore.
Non stupisce che nel libro più volte compaia il tema del labirinto, perché se può
esserci una metafora di questo tipo di scrittura questa è proprio il labirinto, uno spazio in cui è bello, spaventoso e spesso divertente perdersi, per provare il gusto, poi, di ritrovarsi. La ricostruzione del mito del Minotauro, vista dalla parte del mostro, mi pare, in effetti, uno dei racconti più felici della raccolta.
Alcune intuizioni sono geniali e folgoranti, come, ad esempio: “nulla è meno materiale del denaro, giacché qualsiasi moneta (una moneta da venti centesimi, ad esempio) è, a rigore, un repertorio di futuri possibili. Il denaro è un ente astratto, ripetei, è tempo futuro”. Il denaro è tempo futuro! Quale definizione del denaro è più precisa e nel contempo profonda di questa?
Vi sono poi riflessioni che racchiudono complesse filosofie, bruciate con poche parole come “Secondo la dottrina idealista, i verbi vivere e sognare sono rigorosamente sinonimi”.
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