Dopo aver letto il piacevole romanzo breve “A passo di danza” di Elisabetta Modena, di cui ho già parlato nel mio blog, sono tornato a leggere un nuovo romanzo di quest’autrice veneta, che dice di scrivere “christian fiction”, dei romanzi, cioè, d’ispirazione cristiana.
“A passo di danza” è una storia d’amore volta ad esaltare il modello sociale della famiglia.
Il nuovo romanzo che ho letto si chiama “Il marchio di Caino” ed è un’opera più lunga, articolata e complessa dell’altra. Innanzitutto, oltre ad essere anch’esso un esempio di “christian fiction” è, prima ancora, facilmente identificabile come fantascienza, genere cui mi sento certo più vicino che non ai romanzi rosa. Sarà forse per questo, ma il giudizio già piuttosto positivo che avevo formulato nel valutare quest’autrice, è migliorato durante questa seconda lettura. Qui la vocazione cristiana di Elisabetta Modena appare ancor più marcata. L’ambientazione è alla fine di un XXI secolo in un’Europa multiculturale, sopraffatta dalle ondate migratorie. Tre sono le nazioni toccate, Italia, Francia e Inghilterra e in tutte e tre troneggiano dei luoghi sacri con nomi che si richiamano a vicenda: la Sacra di San Michele, Mont-Saint-Michel e Saint Michael.
La vicenda è quella di un olocausto imminente per il temuto dilagare di un nuovo potentissimo virus (da ignorante in materia, mi è parso assai ben curata la descrizione del virus, del suo studio e dei suoi effetti) diffuso dalla tecnocrazia dominante al fine di risolvere i problemi di sovrappopolazione.
La trovata originale della storia è quella di immaginare che il protagonista, un medico che studia il vaccino, venga colto da una strana malattia, una cecità selettiva che lo porta a vedere tutto tranne gli esseri umani, in una sorta, penso, di metafora della scienza, che si preoccuperebbe delle cose e non delle persone/anime.
La trovata è suggestiva e inquietante e mi riporta alla memoria un romanzo letto nella collana Urania, in
cui il protagonista si trovava a vedere le persone non come erano ma come sarebbero diventate in un futuro che, giorno per giorno, si allontanava sempre più dal presente. L’autore era il francese Jacques Spitz e la storia aveva un titolo, in effetti, un po’ da “christian fiction”: “L’occhio del purgatorio”.
Non saprei se Modena si sia ispirata a questa storia, ma in entrambi i romanzi la cecità selettiva è progressiva e sfocia verso la pazzia.
Il romanzo di Elisabetta, come dicevamo, ha un chiaro intento “evangelizzante”, in quanto la vera soluzione di ogni problema sembra essere in Dio, piuttosto che nella scienza, che qui viene vista come negativa, al punto che il mondo è dominato da una tecnocrazia spietata, mentre le piccole comunità sopravvissute di cristiani, tornati alla purezza di un tempo, paiono il modello cui tendere.
In tale contesto si sviluppa la vicenda del protagonista che, prigioniero, è tenuto lontano dalla moglie e dalla figlia appena nata. La famiglia tenta di ricongiungersi ma a rendere difficile la cosa non saranno solo le difficoltà esterne, ma quelle che nascono all’interno della coppia, dato che da lì che nasce o muore la vera unione. Ovviamente a guidarli sono due religiosi, oltrettutto entrambi ex-medici (quasi a dimostrare che il cammino di crescita parte dalla scienza, per approdare alla Fede). Personalmente mi sono riconosciuto poco in questa sfiducia verso la scienza, che, evidentemente, serve a esaltare la Fede in Dio.
Nell’affrontare la malattia il protagonista deve anche imparare a convivere con la sua nuova natura di
“semi-cieco”, ad accettarsi per quello che è.
Nel complesso è un romanzo strutturato e ricco di spunti di riflessione.
Forse un po’ superflui sono, però, alcuni intermezzi di preghiere, salmi o altri brani liturgici, che, oltretutto, non sempre trovano nel contenuto una precisa rispondenza con la trama. Ho letto il volume in una stampa credo realizzata su www.lulu.com e pertanto, mi auguro che quando potrà uscire in un’edizione ufficiale, questi piccoli difetti possano essere limati. Noto peraltro che anche l’editing, nonostante la mancanza di un vero editore, appare sufficientemente curato.
Concludo,dunque, augurando a Elisabetta di trovare presto l’editore che sappia valorizzare il suo lavoro che è certo di qualità.
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