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GUARITORI E TOPI

Spesso vedere un film, anche se mi è piaciuto, m’induce a non leggere il libro da cui ne è tratto, mentre volentieri guardo un film dopo averne letto il romanzo originario. Sono consapevole che è un errore perché quasi sempre il romanzo ha molti più contenuti che, necessariamente nel film si perdono.

È stato così che ho lasciato passare molti anni da quando vidi “Il miglio verde” (“The Green Mile, 1999) prodotto, scritto e diretto da Frank Darabont, con protagonisti Tom Hanks e Michael Clarke Duncan.

Il film è tratto dal romanzo omonimo di Stephen King, pubblicato nel 1996.

Avevo molto apprezzato il film e mi pareva che la il romanzo poco potesse aggiungermi. Leggendolo, in

effetti, un po’ è stato così, segno che la trasposizione cinematografica era buona, anche se a vent’anni dalla visione non posso certo dire di aver notato davvero le differenze. Leggo però che King lo considera la miglior resa cinematografica di un suo libro.

La storia è abbastanza semplice, rispetto ad altre del Re. Un secondino, Paul Edgecombe, ormai anziano, sessant’anni dopo, racconta della sua esperienza nel braccio dei condannati a morte (c.d. “miglio verde”) di una prigione americana degli anni ’30 del secolo scorso. Trattandosi di King, non poteva mancare qualcosa di un po’ magico. Tra i condannati c’è John Coffey, un corpulento uomo di colore (a quei tempi si diceva, senza tanti falsi moralismi lessicali, “negro”) condannato per aver violentato e ucciso due bambine. In realtà, non sembra essere davvero colpevole, ma solo essere accorso per cercare di aiutarle, invano, con il suo potere. È, infatti, un potentissimo guaritore e sarà messo all’opera, di nascosto, persino sulla moglie del giudice, gravemente malata.

John Coffey mi ricorda molto il corpulento protagonista di “Uomini e topi” di John Steinbeck, con un cuore grande, muscoli ancor più grandi ma un cervello modesto, che lo rende incapace di affrontare il mondo.

Scritto da King il romanzo non poteva che essere intenso e coinvolgente e la simpatia / empatia per i personaggi importante. Un altro successo per questo autore che ben di rado sbaglia un libro.

PICCOLI UOMINI CRESCONO

Ho già scritto molte volte come Stephen King sia un grande narratore dell’infanzia e delle sue paure.

Doctor Sleep. Ediz. italiana - Stephen King - copertina

Pare, poi, avere come motto i versi del poeta Alfonso Gatto “Ogni uomo è stato un bambino”. Anche quando parla di adulti non è difficile per il lettore immaginarli bambini e spesso King apre finestre sulle loro infanzie.

Alcune volte poi, King ci presenta dei personaggi da bambini e ce li ripropone poi da adulti. Esemplare in tal senso è il suo capolavoro “It”, in cui incrociamo i sette ragazzi di Derry nel 1957-58 e nel 1984-85.

Nel caso di “Shinning” (1977) il doppio piano temporale, 1975-76 e 2001, non nasce dall’inizio della stesura, ma si realizza con la pubblicazione del sequel “Doctor Sleep” (2013).

Se nel primo era protagonista l’intera famiglia Torrance, in “Doctor Sleep”, morto il padre, il figlio Dan assume un ruolo centrale. Come per “It” è occasione per mostrare il diverso approccio di un bambino e di un adulto verso l’orrore, ma anche per mostrarci come questi orrori dell’infanzia abbiano trasformato il ragazzino in un ubriacone, non privo però di voglia di riscattarsi e di notevoli poteri paranormali. Non poteva bastare a King il ricordo dell’infanzia di Dan per fare un romanzo: accanto a lui troviamo una bambina, Ambra, con poteri paranormali persino maggiori dei suoi.

Se l’Overlook Hotel era scenario e protagonista al contempo di “Shinning”, in “Doctor Sleep” ha ruolo assai minore. I veri nemici non vengono da lì ma dal Nodo, una banda di “vampiri d’anime” vaganti come zingari sui loro caravan, a caccia del “vapore” di ragazzini dotati di singolari doti ESP, da succhiare, torturare e uccidere o da assoldare tra le loro file.

Ambra, però, appare troppo potente, sebbene ancora bambina, per loro per entrambe le soluzioni: una

Stephen Kings Doctor Sleep [Edizione: Regno Unito]: Amazon.it: Film e TV

nemica da distruggere. Toccherà a Dan Torrance cercare di aiutarla, superando le tentazioni dell’alcol.

Dal romanzo è stato tratto un film, che si collega di più a quello realizzato da Kubrick che al romanzo stesso, dato che il regista aveva reinterpretato la trama a modo suo, ma che nel complesso appare forse più attinente all’opera di King rispetto al suo precedente.

Certo vedere, seppure per poco, Jack Torrance con una faccia diversa da quella di Jack Nicholson fa un po’ effetto.

Se “Shinning” era soprattutto la storia di una casa stregata, “Doctor Sleep” somiglia di più a una storia di vampiri, sebbene questi succhia anima somiglino forse più a dei Mangiamorte della Rowling che al Dracula di Stoker. Del resto, non si nutrono neppure di sangue e vivono tranquillamente alla luce del sole.

ASCIA-SHINING

Libro vs Film - Shining | Books Room

Se ho già visto il film da cui è tratto un libro, sono più restio a leggerlo. Così mi sono ridotto a leggere solo ora “Shining” (1977) di Stephen King, da cui fu tratto nel 1980 il film cult girato da Kubrik con Jack Nicholson come protagonista. Un grande film che rimane impresso nella memoria anche dopo tanti anni.

Finalmente, mi è parso fosse ormai sufficientemente sfumato nella memoria da poter affrontare il romanzo. Del resto, nel frattempo, è andata crescendo la mia ammirazione per questo autore e mi pare delittuoso non leggere almeno tutte le sue opere principali.

Certo avevo ancora ben in mente le due sorelle fantasma vestite uguali, i lunghi corridoi dell’hotel che

Trama e recensione del libro "Shining" di Stephen King

Danny percorreva con la sua automobilina a pedali, la scena di Jack Torrance che sfonda la porta del bagno con l’ascia, ma il ricordo dell’insieme si era finalmente perso.

Innanzitutto, sono tornato a riflettere sul titolo, che da ragazzino, quando vidi il film, non credo mi fossi mai preoccupato di tradurre in alcun modo. Il suono “Shining” mi riportava quello della parola “Ascia” e tanto bastava. Ascia-shining, assassino

Nel film si spiegava, invero, che gli “Shining” sono le visioni paranormali del piccolo Danny e degli altri personaggi. In inglese, però, vuol dire “brillante, lucente”. Non so se possa essere in qualche modo collegato a visioni o telepatia. Interpretazione di King, insomma.

Ebbene, il libro mi è apparso subito diverso da quanto mi era rimasto del film: molto più ricco e articolato, con rimandi al passato dell’hotel, dello scrittore Jack Torrance, della sua famiglia.

A metà del libro, quindi, ho ceduto alla curiosità e sono tornato a vedere il film di Kubrick.

In effetti, quelle differenze ci sono. È diversa anche la trama e persino il finale.

King ci porta dentro la vicenda raccontandoci l’infanzia del padre di Danny, le drammatiche vicende dell’hotel, le tensioni tra Jack e sua moglie Wendy, mentre il film si apre con Jack che attraversa in auto splendidi paesaggi di montagna, del tutto deserti, con l’auto vista sulla strada vuota dall’alto. Il regista sembra quindi privilegiare l’impatto psicologico del luogo isolato, mentre lo scrittore punta di più sui precedenti psicologici dei personaggi e sull’influsso malefico dell’hotel, luogo maledetto dalla violenza che lo ha attraversato.

La cinepresa spesso si colloca alle spalle dei personaggi (pensate a Danny che pedala per i corridoi) dandoci un punto di vista che è quasi quello del personaggio, ma distaccato (direi come un’anima che guarda se stessa, librandosi sopra, in punto di morte).  Questo ben rende la prospettiva del romanzo.

Shining - Le recensioni originali che stroncarono il film nell'80

Nulla vorrei dire sui diversi finali, per non spoilerare ai pochi che non li conoscano, ma colpisce come siano diametralmente opposti nell’elemento scatenante: ghiaccio nel film, fuoco nel libro. Singolare mi pare anche la scelta di Kubrick di mostrare nell’ultima scena la foto degli anni ’20 del secolo scorso, con tutto ciò che questa implica.

Il Jack Torrance interpretato da Nicholson appare assai più nel ruolo del carnefice, del cattivo, del pazzo,

Stasera in tv, venerdì 30 luglio su Iris «Shining»: curiosità e trama del  film con Jack Nicholson

che non quello del romanzo, che in fondo è la prima vittima della “possessione” dell’hotel. È il male che vi alberga il vero nemico per King. Assai diversi anche alcuni particolari. Intanto, le due bambine del film paiono gemelle (a guardar bene non lo sono, ma sembrano almeno della stessa età), mentre nel libro si dice che il precedente guardiano aveva due figlie non gemelle, che assassinò, assieme alla moglie.

Insomma, due diverse storie che partono da una medesima traccia.

Da notare anche come anche qui emerga l’attenzione di King per la psicologia infantile, che ben abbiamo visto in “It”, “L’istituto”, “La bambina che amava Tom Gordon”, “Stand-by me” e persino nella saga della “Torre nera” o magari in “Cujo”. Non solo un personaggio importante è il figlio di Jack, ma analizza l’infanzia stessa dello scrittore-guardiano.

In seguito King ha scritto “Doctor Sleep” che vede il piccolo, traumatizzato, Danny Torrance alle prese con alcol e poteri paranormali. Ho iniziato a vedere il film e mi riprometto di leggere subito anche il romanzo. Certo senza Nicholson e Kubric, il film non mi pare sui livelli del precedente.

ASSEDIATI DA UN CANE IDROFOBO

Cujo : King, Stephen: Amazon.it: Libri

Sebbene abbia letto ormai un buon numero di libri di Stephen King, continuo a faticare a comprendere perché sia definito il Re dell’Horror, etichetta che gli sta decisamente stretta, essendo uno dei grandi della letteratura mondiale a tutto tondo.

Ho ora finito di leggere “Cujo” (1981) che, finalmente, può in effetti accogliere abbastanza bene l’etichetta di horror, dato che la situazione descritta, con una madre bloccata in auto assiema al figlio piccolo e malato, mentre un enorme cane sanbernardo, che ha appena preso la rabbia, li assedia senza posa.

Eppure persino in questo romanzo c’è molto di più. Innanzitutto, la provincia americana, così diversa dalla nostra, qui esemplificata dall’immaginario villaggio del Maine Castle Rock, presente anche in altre storie di King. Poi ci sono i difficili rapporti familiari, i tradimenti, le ripicche, i rapporti di vicinato.

Ho già scritto più volte di come la provincia americana ben si presti all’horror e di come sia difficile

libri, Stephen King, Sicilia, Cultura
Stephen King

scrivere di zombie, mannari o vampiri in un’ambientazione italiana.

Questo romanzo conferma la sensazione. La fragilità degli accessi alle case di campagna americana è qualcosa di inconcepibile per un italiano, abituato a porte blindate, inferriate alle finestre e altri muri impenetrabili con cancelli che spesso sono cortine persino per lo sguardo. L’idea che un assassino, uno zombie o persino un cane possa accedere con una spinta in un appartamento ci pare forse più fantastico dell’esistenza delle creature della notte!

Il romanzo, come sempre per King, è scritto da maestri, con il succedersi degli eventi e delle coincidenze che spingono inesorabilmente verso la tragedia ma creando la suspance e la speranza di possibili diversi corsi della storia. Un autore da cui non si finisce mai di imparare. Basta leggere un suo romanzo, senza neanche prendere in mano la bibbia di ogni scrittore che è il suo “On writing”.

LA PANDEMIA GLOBALE DEL 1978

Cosa pensa Stephen King delle serie tratte dalle storie di Stephen King -  Il Post
Stephen King

Dopo aver letto il bel numero monografico dedicato a Stephen King dalla rivista “IF – Insolito & Fantastico” (Edizioni Odoya, 2019), mi è venuta voglia di leggere “L’ombra dello scorpione”, di cui hanno scritto in questo numero 23 soprattutto Salvatore Proietti e Roberto Risso.

Per Proietti questo romanzo è “forse la sua versione del ‘grande romanzo americano’” in cui “anche i linguaggi (a partire dal dialetto) si affastellano” e l’autore pare “sempre alla ricerca di significati multipli, contraddittori e sfuggenti”.

Dato che considero King forse il miglior autore vivente, non potevo perdermi un’opera simile, oltretutto in un momento storico come questo, in cui ce ne stiamo rintanati per paura della pandemia globale di covid-19. “L’ombra dello scorpione” (“The stand”, 1978) ci parla proprio di questo, di un’epidemia (ancor più) devastante, che decima la popolazione mondiale. Libro da far leggere a tutti gli incompetenti che osano dire che “nessuno poteva immaginarsi l’arrivo di una pandemia come questa”, quando esperti e scrittori ne annunciano l’arrivo almeno dai tempi della spagnola e ancora, probabilmente, questa non è la grande pandemia globale attesa, che dovrebbe portare almeno cento milioni di morti.

Leggo su wikipedia che “L’ombra dello scorpione (The Stand) è un romanzo post apocalittico scritto da Stephen King, pubblicato nel 1978. Il romanzo sviluppa l’ambientazione già presente nel racconto Risacca notturna e presenta per la prima volta l’antagonista per eccellenza di King, Randall Flagg, che apparirà anche in Gli occhi del drago e nella saga della Torre Nera. Nel 1990 ne è stata pubblicata una “Edizione integrale” (The Stand: The Complete & Uncut Edition), datata febbraio 1975 – dicembre 1988.”

Ne ho letto tale versione completa.

Devo dire che, forse, partivo con troppe aspettative verso questo romanzo, che, nella sua prima parte mi è parso un po’ troppo mainstream, storia di provincia americana, con tanti (troppi) personaggi, ognuno con una sua bella storia e profondità ma che stentano a confluire, come avverrà dopo molte pagine, in una narrazione unitaria. Diciamo che è un romanzo “corale”, ma in questo non mi è parso il migliore che ho letto. Meglio, per dirne uno, “Invasione” di Turtledove. Persino la malattia, ora che la stiamo già vivendo, mi è parsa fin troppo

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“normale”. Poi, King prende velocità, compare l’uomo nero, compaiono un po’ di poteri ESP, la storia prende una sua unitarietà e un suo perché. Mi chiedo se non mi sarebbe piaciuta di più la versione breve del 1978, forse sì, anche se nessuna pagina in King è senza contenuti o emozioni, ma una maggior densità di trama non avrebbe guastato. Certo, andrebbe ormai letto in una prospettiva storica: nel 1978 era un romanzo che annunciava un futuro distopico che poteva parere fantascientificamente impossibile e la sua carica di novità era certo diversa.

Ho adorato la serie della “Torre nera”. Anche questa saga parte un po’ al rilento e se mi fossi fermato al primo volume, non avrei potuto apprezzarla. Altre volte, invece, King riesce a partire subito in quinta. Pensando alla “Torre Nera”, si dice Randall Flag, l’uomo in nero, sia lo stesso lì e qui, ma a me pare che lì sia quasi un altro personaggio, con altra funzione.

Anche qui abbiamo un “mondo che è andato avanti” in senso negativo. Ci sono le amicizie, che sono tra le cose più belle di King, ci sono personaggi ai margini della società con una loro dignità (il sordomuto, lo scemo, l’ultracentenaria….), c’è la violenza che ci caratterizza come specie, ci sono le armi, c’è la triste provincia americana, qui ancor più devastata, c’è la magia della mente, come spesso in King. Un grande libro importante, anche se non il migliore che io abbia letto sinora del re degli scrittori.

1990 - L'Ombra Dello Scorpione (Edizione integrale)

IL RE DEI BAMBINI

Stephen King, tra ossessioni, incubi e deliri | Samantha Casella
Stephen King

Dopo aver letto il bel numero monografico di “IF – Insolito e Fantastico” (n. 23 – dicembre 2019) dedicato a Stephen King, mi è venuta voglia di leggere ancora qualcosa di questo autore che considero forse il migliore tra i viventi e certo uno dei migliori in assoluto. Ho così preso un’altra “manciata” di suoi libri. Ho, dunque, ora letto “L’Istituto” (Settembre 2019), una bella storia ESP con dei bambini sfruttati da un ente segreto.

Stephen King spesso viene riduttivamente definito il re dell’horror. Non ho certo letto tutta la sua produzione, ma devo dire che ben poco di quello che mi è capitato di leggere rientrava in tale etichetta e se lo faceva aveva comunque ben altri contenuti ad arricchirlo. Sono andato su Wikipedia per vedere in che anno fosse stato pubblicato e ho letto nella prima riga “L’Istituto è un romanzo horror/fantascientifico di Stephen King, pubblicato in contemporanea negli USA e in Italia il 10 settembre 2019”. Certo Wikipedia non è il Vangelo (per chi ci crede), ma definire “L’istituto” un “romanzo horror/fantascientifico”? Preoccupato ho dato un’occhiata ai siti di Sperling & Kupfer (l’editore italiano), IBS e Amazon. Per fortuna, questa definizione non compare.

Veniamo al libro. Che cos’ha di fantascientifico? Forse, l’idea che possa esistere un istituto governativo americano che sfrutta le capacità psioniche (telepatia, telecinesi e precognizione) per propri fini e, in particolare, che possa essere previsto il futuro. Tutto ciò rientra, però, più nel genere paranormale, anche se vi è chi sostiene che i poteri ESP (Extra-sensory perception) abbiano un fondamento scientifico.

Quello che non vi trovo per nulla è l’elemento horror. Certo, i bambini, per potenziare i propri poteri, sono sottoposti a torture, ma King non indulge nei dettagli, né cerca di spaventare e in ogni caso sono quantitativamente marginali. Sarebbe come definire horror un romanzo sui campi di concentramento tedeschi, sui lager sovietici o su Guantanamo!

In questo romanzo, invece, King si conferma un maestro nel raccontare storie con dei bambini come protagonisti, come nel mitico “It”, in “L’autunno dell’innocenza – Stand by me” o nel meno noto “La bambina che amava Tom Gordon”, e si dimostra un attento conoscitore della mente umana e delle interrelazioni personali. I bambini per King non sono mai personaggi caricaturali, ma piccoli adulti, con grandi capacità potenziali che il pericolo e la difficoltà sanno tirar fuori. Bambini capaci di forti affetti e grandi amicizie, in cui la solidarietà può essere un’arma potente (qui esemplificata – e direi quasi metaforizzata – dal cerchio delle menti che attiva il “grande telefono”).

Che genere di romanzo è, dunque, “L’istituto”? Direi un ottimo thriller ESP.

L' istituto - Stephen King - copertina

Per chi ha già letto precedenti capolavori di questo autore, forse aggiunge poco, ma letto a sé, rimane comunque una splendida prova narrativa.

Un altro tema kinghiano che qui ricorre è la possibilità di mutare il futuro, già rappresentato in modo esemplare nella splendida ucronia fantascientifica “22/11’63”, con cui dimostra che mutare la storia in meglio a volte può avere conseguenze catastrofiche.

Non manca poi, come in altre opere, la descrizione della triste provincia americana, di un sud armato e sempre pronto a farsi giustizia da solo.

King non delude mai.

SCOPRIRE IL RE E NON TROVARLO NUDO

Ho scoperto davvero tardi, Stephen King. Ho cominciato a leggerlo per caso, partendo da opere minori. Dico troppo tardi, perché più lo leggo e più mi rendo conto della sua grandezza, ecletticità, profondità e ricchezza narrativa e capisco sia stato un peccato averlo letto già in precedenza.

Il primo romanzo che lessi fu “Cell”, che mi piacque, ma come tante altre cose, insomma, non abbastanza da convincermi di leggere altro del suo autore. Lessi poi un’altra opera minore “La bambina che amava Tom Gordon” e cominciai a rendermi conto che questo signore meritasse maggior attenzione.

Known Alias: How Stephen King Was Outed as Richard Bachman | Mental Floss
Stephen King

Qualche tempo dopo, eravamo nel 2010, mi trovai tra le mani “L’ultimo cavaliere”, primo volume della serie della “Torre nera”, che mi incuriosì ma mi lasciò piuttosto perplesso, tanto che impiegai un po’ a riprendere in mano la serie. E dire che in seguito mi sarei appassionato all’intera serie, trovandola davvero straordinaria.

Furono, nel 2012, la lettura di “It” e “22/11/’63” a farmi comprendere davvero l’importanza di questo autore.

Dunque, la lettura del numero 23 di “IF – Insolito & Fantastico, dedicata a “Stephen King, reality stranger than horror” mi ha fatto particolarmente piacere, dato che mi ha permesso di calarmi in una materia in cui comincio ad avere una certa dimestichezza, ma della quale mi piacerebbe conoscere di più. Il volume è, infatti, ricchissimo di spunti per nuove letture (che spero di poter fare presto) e una buona guida per scegliere quelle più significative nel vastissimo panorama produttivo del Re.

Il volume è curato da Valerio Massimo De Angelis, subentrato allo scomparso Giuseppe Panella in corso di lavorazione, e suo è l’editoriale iniziale.

Aprono poi la serie di articoli le riflessioni di Umberto Rossi su “La lunga marcia”, un affascinante romanzo distopico uscito sotto lo pseudonimo di Richard Bachman, un’opera di notevole maturità, se si pensa che King lo scrisse a solo 18 anni. È, infatti, il suo primo romanzo, anche se non il primo da lui pubblicato e, anzi, occorrerà attendere vari anni prima che di scoprire chi si nascondesse dietro la personalità immaginaria di Bachman.

Sbaglia chi crede che King sia un autore solo horror e la produzione uscita in stampa con questo pseudonimo ne è un esempio. “La lunga marcia” ne ha qualche tono ma è soprattutto spaccato di vita di provincia americana, come molte opere del Re. È anche fantascienza sociologica, con la creazione di un contesto sociale parzialmente immaginario. È opera di formazione. È romanzo sportivo, anche se la marcia praticata è qui uno sport estremo e immaginario. È, persino, romanzo ucronico (genere di cui King si dimostrerà poi maestro), dato che il presente narrato non potrebbe esistere senza che una diversa Storia lo abbia preceduto. Come fa notare Rossi, citando Smythe, “La lunga marcia” è anche “una metafora della guerra; specificamente del conflitto in corso in Vietnam”. Il romanzo poi anticipa i reality competitivi e tutta la narrativa che ne è derivata come, tanto per fare un esempio, “Hunger Games”. Sin dalla sua prima opera King mostra, insomma, la sua capacità di attingere da generi diversi, mescolandoli e reinventandoli in modo del tutto originale e si dimostra attento conoscitore della mente e delle dinamiche umane. E dire che un simile romanzo è considerato “minore” nella sua produzione!

Giuseppe Panella (in quello che è immagino sia uno dei suoi ultimi scritti) descrive il concetto di Male in King, concentrandosi soprattutto su romanzi come “Shinning”, “La nebbia”, “Le notti di Salem”, “L’ombra dello scorpione” e “Cujo”, e su come abbia trasformato e adattato alle sue classiche ambientazioni nel Maine il vampiro della letteratura gotica.

Riccardo Gramantieri esordisce nel suo testo affermando: “Col passare degli anni, e dei romanzi, Stephen King ha reso la propria opera sempre più complessa e ricca di riferimenti intertestuali”. In effetti, ogni opera di King ne richiama altre. Il ciclo della Torre Nera è esemplare in questo. Non solo sono 8 romanzi, ma ciascuno è collegato a molti altri. Ritroviamo in varie opere di King personaggi e luoghi di altre storie all’apparenza scollegate. Quasi ovunque è presente il Maine kinghiano, questo strano luogo-non-luogo, in cui posti e città reali si mescolano con località inventate. Molti autori hanno creato luoghi del tutto immaginari. King, invece, ha reinventato il suo Maine, creandogli anche una profondità che si perde in luoghi inconoscibili, da cui possono emergere creature quasi lovecraftiane come It.

Gramantieri poi evidenzia l’importanza del doppio, a partire dallo sdoppiamento dell’autore stesso nel suo alter ego Richard Bachman, per arrivare a tante opere in cui affronta il tema, come “La metà oscura”. Gramantieri cita Freud dicendo che “soltanto il fattore della ripetizione involontaria rende perturbante ciò che di per sé sarebbe innocuo”. In King il doppio si sdoppia e diviene, infatti, ripetizione e ossessione. Quello che Gramantieri non dice è che in molte storie (penso soprattutto alla “Torre Nera”, il doppio comporta schizofrenia e King se ne rivela uno dei più grandi narratori, capace di creare personaggi che si frammentano e ricompongono follemente, entrando e uscendo da loro stessi.

Tocca poi a Marco Petrelli esplorare il multiverso kinghiano, perché, già, il re del Maine non si limita a descrivere l’America di provincia come tutti noi la vediamo ma anche un universo invisibile che spesso emerge da universi paralleli o più spesso divergenti (“Credo che attorno a noi ci sia un mondo invisibile”) o da paesaggi onirici (una sua raccolta, per esempio, si chiama “Nightmares & dreamscapes”). King pare avere ben in testa il Lovecraft che scrive “egli aveva dimenticato che la vita non è nient’altro che una teoria di immagini della mente, che non c’è differenza tra quelle nate dalle cose reali e quelle scaturite da sogni segreti e che non c’è motivo di ritenere più vere le prime delle seconde” (da “La chiave d’argento”).

Stephen King e i suoi Libri: il Meglio e il Peggio
Stephen King

Come ricorda Petrelli, King riprende e muta il concetto quando scrive in “A volte ritornano”; “L’essere che, sotto al mio letto, aspetta di afferrarmi la caviglia, non è reale. Lo so. E so anche che, se sto bene attento a tenere i piedi sotto le coperte, non riuscirà mai ad afferrarmi la caviglia”.

Insomma, scrive Petrelli, “King ha ampiamente sfruttato l’idea che la realtà sia molto più complessa (e spaventosa) di quanto appaia”.

I romanzi del ciclo della Torre Nera ma anche “A volte ritornano”, entrambi citati in proposito da Petrelli, sono esempi di come anche in concetto di spazio-tempo in King assuma una nuova visione, con passaggi che ci conducono in altri tempi o altri luoghi. Si pensi anche alla porta nello scantinato (la tana del coniglio che richiama alla mente Carroll e la sua Alice) che fa tornare sempre indietro allo stesso anno in “22/11/’63”.

La realtà è sottile e (…) la realtà vera che c’è al di là è una tenebra sconfinata piena di mostri” ben descrive un’altra visione dell’universo kinghiano. Non è, in fondo, questo l’universo in cui viviamo? Non siamo forse prigionieri su questo microscopico granello di polvere che è la Terra, circondato dal buio interstellare di cui nulla conosciamo e dal quale sempre attendiamo emergano dei mostri? Il mondo di King ne è espressione e metafora.

L’articolo di Roberto Risso parla di quello che fu il primo romanzo di King da me letto, “Cell” (2006), che raffronta con il precedente “The Stand” (in Italia “L’ombra dello scorpione”), per il carattere post-apocalittico di entrambi. Credo che questo tempo di pandemia sarebbe il momento giusto per leggere quest’ultimo, in cui “una malattia si diffonde per errore da un laboratorio dove si effettuano ricerche chimico-batteriologiche con fini bellici”, portando al “collasso della civiltà”.

Una volta che la super-influenza ha sterminato l’umanità la narrazione si concentra sui personaggi superstiti positivi e negativi”.

“I sopravvissuti sono vittime di sogni”, come spesso accade in King, per il quale “telepatia, telecinesi, poteri soprannaturali, sogni premonitori e ‘interattivi’ sono tratti distintivi” della scrittura.

Cuori in Atlantide | Mangialibri

Nicola Paladin tratta un King quanto mai lontano dai canoni dell’horror, cui viene ingiustamente relegato, parlando di “Cuori in Atlantide” (1999), che affronta gli effetti della guerra del Vietnam sulla società americana. Paladin ci spiega che “nonostante la sua distanza dalla ‘combat zone’, esso mostri una realtà altrettanto corrotta della guerra”. Quest’opera “esplicita a livello metaforico la stretta relazione tra dipendenza e mortalità”. I protagonisti sono ossessionati (dipendenti) dal gioco Cuori, che, però, li distrae dallo studio, facendogli rischiare di essere presto candidabili per partire militari. Non si parla, dunque, di dipendenza da droghe, ma dal gioco. “Giocare a Cuori provoca contemporaneamente appagamento e angoscia in quanto può causare la morte” rendendo i ragazzi protagonisti di quella guerra che sentono ancora come lontana e distante.

Si vede qui la ricchezza di questo autore, che si esplica non solo nella creazione di trame geniali, personaggi intensi ed emblematici, ma anche nella capacità di usare con perizia il linguaggio: King mette “in mostra la portata culturale della guerra anche nel modo in cui influenza la lingua stessa del racconto”.

King cancella i confini tangibili di Atlantide: fuor di metafora, tutta l’America si inabissa a causa del Vietnam”. “Cuori in Atlantide, per quanto peculiare, costituisce una profonda analisi della Guerra del Vietnam, vista da una prospettiva inconsueta”.

Si occupa ancora de “The Stand” l’articolo di Salvatore Proietti, che

Amazon.it: The Stand - King, Stephen - Libri in altre lingue

esordisce “A ‘The Stand’, romanzo pubblicato da Stephen King nel 1978, il concetto di enciclopedia si applica su più livelli. È enciclopedica l’eterogeneità dei generi letterari: l’inizio è realista, prestissimo irrompe la fantascienza, poi si vira in direzione del soprannaturale; nel finale gli elementi ‘fantastici’ disturbanti escono di scena, adombrando un’utopia. È enciclopedico lo scenario geografico, in cui ampi spazi della nazione statunitense fungono da sfondo e da argomento di riflessione. È enciclopedica la portata delle allusioni letterarie e culturali”. Ed è gigantesca la dimensione del romanzo, dalla composizione lunga e complessa”.

Per Proietti questo romanzo è “forse la sua versione del ‘grande romanzo americano’” in cui “anche i linguaggi (a partire dal dialetto) si affastellano” e l’autore pare “sempre alla ricerca di significati multipli, contraddittori e sfuggenti”.

Richiama allora Carlo Bordoni quando evidenzia “la sua versatilità nell’esplorazione del tema dell’alienazione nel mondo moderno”, arrivando a sostenere, dandoci un’importantissima chiave di lettura, che “l’orrore può anche essere presentazione di uno scetticismo profondamente politico, riflessione critica del quotidiano”.

Alissa Burger affronta quindi la spina dorsale dell’opera kinghiana, la favolosa epopea western-ucronico-fantascientifica che è il ciclo di romanzi della “Torre Nera”, la più affascinante saga che mi sia mai capitato di leggere: “Il ciclo della Torre Nera copre quasi l’intero arco della carriera di Stephen King, si riverbera attraverso molte delle sue altre opere, ed è una chiave  di volta per comprendere il metaverso kinghiano e gli innumerevoli personaggi, luoghi e conflitti che esso include”. Si caratterizza non solo per descrivere un incredibile multiverso, ma per personaggi con personalità multiple, richiamando i miti di Artù e della ricerca del Sacro Graal, partendo dall’opera di Robert Browning (“Childe Roland alla Torre Nera giunse” del 1855).

Il curatore Valerio Massimo De Angelis nel suo intervento si concentra sulla splendida ucronia sulla morte del presidente Kennedy “22/11/’63”, leggendolo come “una riflessione metaletteraria sul rapporto tra horror e Reale, perché l’organizzazione  strutturale del testo si fonda sull’iterazione tra quella che noi consideriamo la ‘realtà’ del nostro presente, che si dà per stabilita e condivisa, e una vastissima  serie di possibili variazioni del passato così come lo conosciamo, e gli effetti potenzialmente dirompenti che tali variazioni possono esercitare su quel nostro presente”.

Secondo De Angelisper King il Reale è molto più strano dell’horror, e l’horror altro non è che il risultato (sempre malriuscito) di denunciare tutta una serie di traumi che la società statunitense (o più in generale la civiltà occidentale, o anche quella umana tout court) non ha alcuna intenzione di affrontare nella loro insopportabile, ingestibile, infine incredibile essenza ‘Reale’”.

De Angelis fa notare come questo scelto da King sia uno dei tre “grandi traumi che hanno definitivamente infranto il mito della ‘innocenza americana’”: “l’omicidio di Kennedy, la sconfitta nella guerra del Vietnam (la prima e unica nella storia americana), e la scoperta che il leader della nazione era un bugiardo”.

Il direttore della rivista Carlo Bordoni,chiudendo la parte monografica della rivista, esamina le opere scritte sotto lo pseudonimo di Richard Bachman e la scelta dell’autore di pubblicare sotto falso nome alcuni libri di notevole qualità.

Richard Bachman - Wikipedia
Richard Bachman

Forse la volontà di cambiare nome derivò anche dal fatto che “King restava (e restò per molto tempo, fino alla seconda metà degli anni Ottanta) un fenomeno da baraccone, un autore di seconda serie, da far circolare fra gli appassionati, fra i lettori di genere, ben lontano dal meritare l’inclusione nel Parnaso letterario”, di cui meriterebbe invece il trono. Il Premio Nobel potrà forse rivalutarsi ai miei occhi e tornare a essere quel che era stato un tempo, quando saprà riconoscerne la rilevanza insignendolo del dovuto riconoscimento.

Un segno della sua grandezza è anche nelle parole di Bordoni quando afferma: “Malgrado il successo, malgrado quei lavori, King maturava. Cambiava genere, attualizzando i suoi contesti, perfezionando la sua tecnica. Non rimestava la stessa frittata, cosa che fanno per prassi consolidata molti scrittori nostrani quando sono riusciti a imporsi”.

Stephen King. Questo autore così poco scontato, da cui dobbiamo aspettarci ancora molte sorprese”.

Finita la parte della rivista dedicata a King, troviamo un articolo di Riccardo Gramantieri sulla figura archetipale di Robinson Crusoe, a metà tra homo faber e bricoleur, e di come sia stata ripresa nella letteratura successiva a Defoe, in particolare dalla fantascienza e da questa di ambientazione marziana, con tutte le difficoltà dell’uomo nel tentativo di dominare con le sole proprie forze un ambiente alieno.

Seguono i ricordi degli scomparsi e compianti Giuseppe Panella e Giuseppe Lippi, per poi entrare nella sezione narrativa, che comprende solo tre racconti, uno di Massimo Acciai Baggiani, uno di Roberto Marchi e uno di un certo Carlo Menzinger di Preussenthal.

Avevo già avuto il piacere di leggere il racconto “Qualcuno bussò alla porta” di Massimo Acciai Baggiani e trovo che dei tre sia quello che meglio si inserisce in questo volume, in quanto descrive un misterioso incontro in un paesino del Casentino, Corezzo, che chi conosce gli scritti di questo autore ha certo già avuto modo di incontrare. Al Casentino Acciai ha persino dedicato un intero libro. A rendere adatto a questo volume il racconti è l’insolito protagonista della storia, che non vi posso però rivelare per non togliervi il gusto della lettura.

Roberto Marchi ci parla di un altro incontro, quello con una “Tromba marina”.

Il mio racconto “Protesi” lo avevo scritto e pensato per un altro numero della rivista dedicato a Frankestein. Mi ha fatto comunque piacere trovarlo in questo numero che parla di un autore, che come avrete capito apprezzo molto. Sono sempre lieto, del resto, di poter avere una presenza in questa rivista che considero molto interessante, curata e seria, non per nulla è riconosciuta anche dall’ANVUR come rivista dell’Area 10 (ovvero è considerata citabile nei lavori letterari ufficiali).

In oltre dieci anni di produzione, la rivista ha cambiato editore passando da Tabula Fati a Odoya e ha visto alternarsi tanti nomi importanti come autori e curatori. Di quelli delle origini, credo di essere uno dei pochi rimasti.

“Protesi” mostra un mondo che come scriverebbe King è “andato avanti” (il che non sempre è un bene come credevano molti dei primi autori di fantascienza), in cui anziché comprare cellulari, smartphone e orologi, la gente si ricopre di protesi anatomiche, arrivando ad avere vari arti aggiuntivi e finendone schiava.

Anche questa volta il volume si chiude con l’analisi di Riccardo Gramantieri dei libri editi nel fantastico durante l’anno precedente, che, in questo caso sarebbe il 2018, dato che sebbene la rivista sia stata stampata dopo l’estate 2020, questo numero 23 è quello di dicembre 2019.

UNIDENTIFIED BURIED OBJET (U.B.O.)

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Stephen King

Pare che nell’antichità, per esempio in Grecia, fosse normale bere il vino annacquato. Io non sono né un appassionato, né un esperto di vini, ma credo che annacquare un buon vino, un po’ lo uccida.

Ci sono vigne che di norma producono vini pregiati. Una di queste, in letteratura, si chiama Stephen King. Difficilmente un libro scritto da lui non ha qualcosa di buono, anzi di norma sono ottimi. A volte gli autori di successo, però, pare che scrivano come se fossero pagati per numero di pagine (temo che spesso sia così). Avviene dunque che quando hanno una buona idea, invece di offrirla ai lettori pura e perfetta, si sentono in dovere di annacquarla. Temo sia questo il caso di “Le creature del buio” (“The Tommyknockers”, 1987) di Stephen King (Maine, 21/09/1947).

La buona idea alla base è: che cosa fareste se trovaste un’antica astronave aliena sepolta in giardino. A quest’idea ne accompagna un’altra altrettanto buona: immaginate che dopo migliaia di anni l’astronave sepolta, questo oggetto che avrei chiamato Unidentified Buried I grandi vini italiani: il Chianti - la RepubblicaObjet (U.B.O.), sia ancora attivo, praticamente vivo, anche se i suoi passeggeri paiono morti. Giusto un grande come King poteva aggiungere la terza idea: man mano che l’astronave viene disseppellita, comincia ad agire sui corpi e sulle menti delle persone dei dintorni, ovvero del paesino di Haven. La gente diventa molto abile con la tecnologia e la scienza, ma nel frattempo perde l’aspetto umano.

Fin qui un’ottima base per una storia di fantascienza con una certa originalità e con qualche elemento horror (già, King lo considerano un autore horror, ma anche qui per me siamo molto di più dalle parti della fantascienza e, come ho già scritto spesso il Re del Maine è assai di più). C’è anche molto altro di buono nel romanzo, come, per esempio, il rapporto tra i due protagonisti Bobby Anderson e Jim Gardener, il bambino che fa sparire il fratello, spedendolo su un altro mondo tramite un portale spazio-tempo da lui stesso creato, e impazzisce, l’idea di alieni tecnicamente evoluti ma incapaci di comprendere la scienza, le orde di persone mutate che inseguono Gardener e varie altre cose.

Di cattivo c’è l’acqua! Tanta acqua in cui le idee buone affogano. Troppe pagine. Troppe digressioni. Certo non siamo ai livelli di prolissità di un Dostojewski, ma qui l’autore vien meno a una regola di scrittura che se non ricordo male fu profferita dallo stesso King: “non ci sia una sola pagina in cui non succeda qualcosa”. Diciamo che qualcosa, in effetti, nelle pagine di King succede sempre, anche in queste, ma in alcune pagine de “Le creature del buio”, quel che succede non è particolarmente interessante o utile alla trama.

Pazienza. È stata comunque una bella lettura e di certo non mi ha scoraggiato dal leggere altro del Re, ma non lo consiglierei come primo libro a chi non lo ha mai letto o non ha mai letto fantascienza. Buono soprattutto per chi ama il vino annacquato. Personalmente preferisco i sapori forti cui la vigna del Re mi ha abituato.

 

IL RE DELLA MENTE

Stagioni DiverseSono davvero pochi gli autori intensi come Stephen King. Di norma preferisco i romanzi ai racconti ma persino in un’antologia come “Stagioni diverse”, Stephen King dimostra la sua assoluta superiorità non solo rispetto ai contemporanei ma alla maggioranza dei romanzieri di ogni tempo. Va detto che questi quattro racconti sono così lunghi da potersi definire romanzi brevi (neanche poi tanto brevi a dir il vero) e questo certo aiuta l’autore a dare a personaggi e trama la grande profondità psicologica che sempre lo distingue come gran conoscitore degli aspetti più oscuri della mente umana.

 

Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank” è una magnifica storia carceraria di un bancario finito ingiustamente in carcere. L’ambiente del penitenziario crea in chi ci vive uno straniamento particolare e sembra quasi di leggere storie ambientati in altri mondi. Sorprende in King la capacità di inserire una gran quantità di dettagli mai inutili, ma sempre funzionali a una forte caratterizzazione della storia principale, senza diventare mai prolisso. Tutto è utile alla storia. Notevole la caratterizzazione sia del protagonista che del narratore, singolare la loro amicizia, affascinante la resistenza e la determinazione del protagonista.

 

Un ragazzo sveglio” ci racconta di un ragazzino che va a caccia, a metà degli anni ’70, di criminali nazisti, ne trova uno e ci instaura un rapporto speciale, dapprima riuscendo persino ad assoggettare psicologicamente il vecchio gerarca, ma poi sviluppando in modo coerente eppure sorprendente, questo rapporto in qualcosa che diventa amicizia e collaborazione. Forse parte un po’ lentamente e l’episodio del gatto bruciato nel forno mi è parso un po’ sopra le righe, ma King realizza, nella prima parte, un altro capolavoro psicologico. Nella seconda parte mi pare, invece, che si faccia prendere un po’ la mano con la vicenda dei barboni assassinati. Diciamo che il profilo psicologico di un nazista che dirige un campo di concentramento mi pare diverso da quello di un serial killer di barboni e non credo che l’uno possa diventare l’altro. Se non altro perché il primo si muove in un contesto gerarchico, sociale e di regole che lo supporta e lui rispetta, mentre il secondo si muove in autonomia e contro ogni regola. Se, però, accettiamo questo sviluppo, la storia è certo avvincente e si evolve con originalità, riprendendo più volte slancio anche quando si ha l’impressione che possa essere ormai conclusa.

 

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Stephen King

L’autunno dell’innocenza – Il corpo (stand by me)” ha ispirato il film “Stand by me” che, quando lo vidi molti anni fa da ragazzino, mi impressionò al punto da indurmi a scrivere la prima recensione cinematografica che osassi inviare a un quotidiano (che ovviamente neppure mi rispose). Non ricordo bene che cosa mi colpì, nè che cosa scrissi, ma di certo lo trovai geniale nel suo modo di raffigurare quella fine d’infanzia da cui io stesso mi ero allora allontanato da poco.

Il ritratto di questo gruppetto di ragazzini in viaggio lungo i binari del treno alla ricerca del cadavere di un altro ragazzo morto è un esempio della capacità di penetrazione psicologica di Stephen King, questo autore che ha magistralmente raccontato la schizofrenia della colossale saga della “Torre nera” e che qui, ancora una volta dimostra di essere un fine conoscitore della mente umana e dei suoi meccanismi, soprattutto quelli legati alla paura.

Eppure questo terzo racconto, leggendolo oggi, mi è parso più lento e meno efficace dei due che lo hanno preceduto. Non mi hanno convinto, in particolare, le descrizioni troppo lunghe delle vite familiari dei ragazzini (non credo che nel film fossero così marcate). Nonostante questo, rimane comunque un’opera di gran lunga superiore a tante cose che si leggono in giro e, forse, sì, tutto sommato, si potrebbe dire che è un piccolo capolavoro anche questo, sebbene la qualità del volume vada progressivamente decrescendo dal primo al quarto racconto.

 

“Una storia d’inverno – Il metodo di respirazione” che chiude la raccolta è un racconto che racchiude al suo interno un altro racconto. Nel primo si parla di uno strano club che forse non è un vero club. Nel racconto che contiene si racconta di un medico che segue una donna madre nella sua gravidanza e, infine, nel parto.

Risultati immagini per stephen king stand By me filmSinceramente la parte sul club mi ha persino annoiato, come se King viaggiasse in prima. Appena comincia il racconto della ragazza, ingrana subito la terza, ma comincia a farci una sorta di quadretto di come fosse difficile la vita per le ragazze madri negli anni ’30 del XX secolo e quanto arretrati i metodi medici per la preparazione al parto. Tutto molto interessante, ma poco “kinghiano”. Appena, però, si arriva al parto, King ingrana non la quarta, ma la sesta e ci troviamo davanti a un “seppur breve” momento di grandissima tensione emotiva, che forse ripaga di tutte le altre pagine.

 

Chiudono il volume le riflessioni di King (“Una parola di conclusione”) su come sia difficile pubblicare racconti come questi quattro perché troppo lunghi per un racconto e troppo corti per un romanzo.

Devo dirvelo: da venticinquemila a trentacinquemila parole sono cifre in grado di far rabbrividire fino nelle ossa il più intrepido scrittore di fiction. Non c’è una definizione semplice e concisa di quello che è un romanzo o un racconto… per lo meno non in termini di conteggio di parole, né dovrebbe esserci. Ma quando uno scrittore si avvicina al limite delle ventimila parole, sa di essere sul punto di sconfinare dal paese del racconto, e ugualmente, quando supera il limite delle quarantamila parole, penetra nel paese del romanzo” scrive.

Spiega così come è arrivato a pubblicarli assieme in un unico volume. Personalmente avrei preferito pubblicarli come singoli romanzi brevi, ma lui ha molta più esperienza di me.

In questo finale, King racconta come accadde che fu etichettato (ed accettò la cosa) come autore horror, sebbene il suo editor lo sconsigliasse di seguire quella strada, poco remunerativa (cosa ben smentita dalle notevoli vendite dei suoi libri).

 

King è comunemente noto come “re dell’horror”. Certo lo è ma questo titolo è quanto mai riduttivo per lui. In questi racconti non c’è nulla dell’horror come lo immaginiamo, con fantasmi, vampiri, zombie. C’è semmai, come spesso è in King, l’orrore dell’abiezione della mente umana.

Il direttore del carcere che si rifiuta di verificare l’innocenza del suo prigioniero o il ragazzino che si appassiona delle atrocità dei campi di sterminio e si trasforma in un assassino ci fanno orrore, ma non certo paura. È questo l’horror di cui King è davvero re.

Nella postfazione King stesso scrive:

Così sono stato etichettato e non me ne importa granché… dopotutto, scrivo per rappresentare qualcosa… per lo meno, quasi sempre. Ma è solo di orrore che scrivo? Se avete letto i precedenti racconti, saprete che non è così… eppure in tutte quelle storie sono riscontrabili elementi dell’orrore, non solo in Il metodo di respirazione… quella faccenda delle sanguisughe in Il corpo è piuttosto raccapricciante, come lo è l’immagine onirica in Un ragazzo sveglio. Prima o poi, Dio solo sa perché, sembra che la mia mente si volga sempre in quella direzione.

Insomma, leggete questi piccoli grandi romanzi brevi e capirete che anche qui, in queste piccole cose, più che un Re dell’Horror, King è un Re della Psiche.

IL MIGLIOR ALIENO DELLA FANTASCIENZA?

Risultati immagini per acchiappasogni kingDi norma si abbina il nome di Stephen King all’horror e molti pensano a lui come il “re” di questo genere. Per me, però, Stephen King, oltre a essere un grande indagatore della psiche umana, è anche uno dei maggiori scrittori viventi di fantascienza.

Credo che opere come “22/11/’63” e la saga della “Torre Nera” potrebbero essere sufficienti a collocarlo nel Gotha della science fiction. Anche il romanzo distopico “La lunga marcia” è, in effetti, fantascienza.

Ho ora letto “L’acchiappasogni”. Mi era stato segnalato come appartenente al genere, ma durante molte delle prime pagine mi sono chiesto che cosa ci fosse di fantascientifico in un uomo che va a caccia di cervi, anche se le pagine introduttive parlavano di avvistamenti di U.F.O. Devo ora dire che questa sì, è davvero fantascienza, sebbene con la presenza del tema della telepatia, che lo fa un po’ scivolare nel paranormale, ma qui ha una motivazione e un senso del tutto fantascientifici.

Si assiste a un tentativo di invasione aliena e fin qui nulla di nuovo. Quello che rende questo libro eccezionale (del resto la genialità di King mi pare indiscutibile) è la caratterizzazione assolutamente unica degli alieni.

Gli alieni de “L’acchiappasogni” di King fanno impallidire per la loro ingenuità quelli di film come “Alien”, “E.T.”, “Incontri ravvicinati del terzo tipo” o “Guerre stellari”, tanto per citare alcuni capisaldi.

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Acchiappasogni

Abbiamo degli alieni originalissimi nella loro triplice conformazione. Si tratta, all’apparenza (ma vedremo nel finale che le cose non sono proprio così) di una razza che assume tre diversi aspetti: di muffa rossastra, di mostro donnolesco e sanguinolento e di piccoli omini grigi. Inoltre, queste creature hanno la capacità di controllare in vario modo le menti umane. Un po’ come in “Alien” i mostri donnoleschi crescono all’interno dei corpi degli ospiti umani e depongono uova con grande frequenza. La muffa, invece infetta ogni cosa, mentre gli omini grigi fanno da mediatori. Gli omini grigi, in realtà, sono proiezioni mentali delle nostre fantasie! Fin qui, l’originalità sta nell’immaginare una razza capace di mutare per tre fasi tanto diverse. King, però, ci aggiunge ancora di suo immaginando che le creature non solo comunichino telepaticamente, ma, in alcuni casi s’impossessino (tipo possessione demoniaca) delle menti di alcuni malcapitati, oltre a possederne il corpo nel modo suddetto. Altra cosa affascinante è che una volta nella loro mente, cominciano a subire l’influsso dell’ospite, ovvero si umanizzano progressivamente e cominciano a provare gusto a risiedere nel corpo umano.

Bene, prendete queste subdole creature e fatele incrociare con un gruppetto di 5 amici, quali King è così bravo a rappresentare, mostrandoceli nel momento attuale, da adulti, e da ragazzi, quando la loro amicizia si è cementata. Immaginate che uno di loro abbia la sindrome di Down, ma anche un “dono speciale”, una capacità telepatica davvero particolare (non vorrei dare troppi dettagli, ma anche qui King supera i normali cliché). Immaginate che questa loro amicizia si fonda in qualcosa di più grande (come non pensare al Ka-tet della Torre Nera). Immaginate che questo gruppetto reagisca in modo anomalo ai comportamenti di questi invasori ed ecco “L’acchiappasogni”, un romanzo decisamente “kinghiano” per la presenza di turbe mentali, schizofrenie, amicizie profonde, luoghi consueti (anche qui si passa da Derry) della provincia americana. Non mancano i riferimenti a altre opere di King, come è sua consuetudine, come “It” o “Le notti di Salem”.

Forse, questo non è il miglior libro del “Re” (anche se l’amicizia del gruppetto e l’introspezione psicologica dell’alieno nella mente schizofrenica umana Gary-Gray sono degnissime), ma è certo una delle migliori creazioni di alieni della letteratura, forse persino superiore agli alieni di Asimov in “Neanche gli dei” (che rimangono tra i miei preferiti)  o in “Nemesis” o a quelli di Sheckley e appena un filo sotto a “Solaris” di Lem. Tra l’altro la muffa rossa di King mi pare imparentata con i microbi intelligenti di “Nemesis”.

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