Archive for Maggio 2020

UNA GALLERY NOVEL DI FANTAMUSICA PSICHEDELICA

Soniche oblique strategie", l'antologia-romanzo è fantarock - Il ...

Mario Gazzola

Come definire “S.O.S. – Soniche Oblique Strategie”, sottotitolo “8 storie di musica ai confini del delirio”, volume curato da Mario Gazzola ed edito da Arcana nel 2019?

Intanto, sarebbe banale parlare di antologia di racconti, dato che questi sono collegati tra loro in vario modo e inseriti in un contenitore boccacesco (intendendo con struttura simile al Decamerone), in cui un racconto principale contiene e rimanda agli altri. La fusione è tale da poter parlare di romanzo collettivo. Ci sono poi persino delle illustrazioni e allora mi viene in mente l’etichetta che avevo inventato per definire “Il Settimo Plenilunio”: gallery novel. Anche quello era un romanzo scritto a più mani e illustrato da ben 17 artisti con 117 immagini, tra dipinti, disegni e foto.

Qui la parte di “galleria” è meno marcata, ma ci sono comunque sette illustratori che accompagnano gli otto autori.

Fermiamoci allora un attimo per dire di chi si tratta. Gli scrittori sono Danilo Arona, Ernesto Assante, Andrea Carlo Cappi, Giovanni De Matteo, Mario Gazzola, Lukha B. Kremo, Maurizio Marsico e Claudia Salvatori. Gli illustratori sono Andrea Carlo Cappi,Erika Dagnino, Mario Gazzola, Tonia Gentile, Sandro Lettieri, Lucia Polo e Valentina Tanca. Come potete vedere ci sono dei nomi che ricorrono in entrambi gli elenchi, e il curatore compare con ben tre cappelli.

Innumerevoli sono le definizioni del fantastico e non basta certo per catalogare tutto ciò che è stato scritto dividerlo in fantascienza, fantasy, paranormale e surreale. Nel mezzo o al confine con altri generi ci sono molte altre categorie come l’ucronia o il gotico, tanto per dirne due, e ogni genere si divide in sottogeneri.

Per “S.O.S.”, la definizione del genere è ancor più complessa di quella della strutura narrativa, poiché vi sono toni da fantascienza classica, new age, psichedelico, connettivismo, cyberpunk  e, ovviamente, tanta musica con riferimenti a musicisti, brani e generi più disparati e spesso, immagino, inventati.

L’idea è che ciascun autore si immedesimi in un personaggio del mondo della musica e scriva come se fosse lui, in un’ambientazione fantascientifica. Diciamo, insomma, tanto per provare a semplificare che si tratta di un volume di “fantamusica”.

Il racconto contenitore è scritto da Gazzola, che, con un quarto cappello, scrive anche l’introduzione, nella quale si colgono alcuni riferimenti culturali: Brian Eno, David Bowie, J.G. Ballard (con la sua Mostra delle atrocità), William S. Burroughs, i Beatles, Madonna (che in un racconto appare decapitata), Duran Duran, Cat Power, Miles Davis, Sun Ra, Ornete Coleman, i Pink Floid e i Tangerine Dream. Altri riferimenti li troveremo strada facendo: Asimov, Douglas Adams, Lovecraft (e il suo Erich Zann), Philip K. Dick, Led Zeppelin, Miles Davis, Dizzie Gillespie, Don Cherry, Laurie Anderson e Mark Rotkho, in un miscuglio di letteratura, musica e persino pittura. Non mancano le autocitazioni o le citazioni reciproche tra gli autori.

Non sono un esperto di musica e certo i riferimenti a Ballard e Burroughs sono quanto di più lontano si possa immaginare per la mia idea di letteratura, ma non mi lascio scoraggiare, se non altro in onore del Duca Bianco, e mi tuffo in questo sogno psichedelico ed eccomi, con Gazzola, nel 2058 in un collettivo d’improvvisazione neo-m-base, al suono di lastre di ghiaccio atonali. Non capisco, ma mi lascio suggestionare dall’atmosfera psichedelica.

Si parla subito del mitico produttore Brain One, anagramma di Brian Eno, che distribuisce carte sulle quali sono indicati i profili delle band immaginarie da imitare/creare e gli strumenti da usare.

È quindi la volta di Lukha B. Kremo, che riprende, con il primo racconto, l’ambientazione del suo pianeta discarica “Pulphagus”, anche se qui siamo su Asteroid, un altro micro-mondo, per la ricerca da parte di un musicista della figlia di un riccone, scomparsa alla ricerca di una nuova identità.

Quando riprende la parola Gazzola ritroviamo “un aborto di essere vivente piovuto nonsisacome nel nostro studio di registrazione blindato e perfettamente insonorizzato” che “rantolava sul pavimento della saletta, forse malato, se non addirittura moribondo”.

Claudia Salvatori ci introduce al potere psicotico del dreamwater presentandoci il suo Catman, un “organismo geneticamente modificato da gatto” dopo aver letto in “Do android dreams of electric sheep?” di Dick dell’estinzione di tutte le specie animali sulla Terra.

Catman ha “artigli che imprimono alle corde della chitarra un tremolio da brividi”.

Il dreamwater è come un virus che si trasmette per via aerea, come un’epidemia. È sufficiente che uno solo si droghi per drogare un’intera comunità”. Droga inquietante per questi gironi da covid-19.

Quanto alla protagonista, “posseduta dalla Nota Sola” (“un’unica nota in cui sentivo l’intera scala musicale”, dice di sé: “Qualcuno, di cui per fortuna non ho memoria, mi ha abbandonato a tre anni in un supermercato. Il mio primo ricordo è una scatoletta di ragù alle larve che cercavo di aprire senza riuscirci. Avevo molta fame. Già allora sapevo di essere il Diavolo” e “per la collera sono corsa a casa e ho avvelenato tutta la mia famiglia”. “Secondo il vescovo mi ero convinta di essere il Diavolo perché lo stupro mi aveva sconvolto la mente”.

Riecco che, chiuso il racconto della Salvatori (ma nessuna storia qui si chiude del tutto, fondendosi con le altre, come in un concerto), riprende la parola Gazzola e ci racconta che “il coso non era più un aborto ma aveva assunto delle forme propriamente umane, anche se ancora non perfettamente definite”. “Il coso-uomo aprì lentamente la bocca come per cantare, ma nessuno di noi riuscì a sentire veramente la sua voce, perché era fusa all’unisono con quelle dei nostri strumenti che attaccarono a suonare simultaneamente. Tutti sulla stessa nota, la Nota Sola di Aleister”.

Soniche oblique strategie", l'antologia-romanzo è fantarock

Alcune illustrazioni di S.O.S.

Ma ecco che il coso inizia a “perdere consistenza sfarinandosi in spirali d’ombra”, mentre la voce narrante passa a Danilo Arona che afferra al volo i suggerimenti di Kremo e Salvatori e ci parla di nuovo di Puphagus e di dreamwater: antologia di racconti, sì, ma legati dal racconto-contenitore e che si richiamano a vicenda. È Arona ad offrirci la decapitazione della pop star Madonna per opera di un cavo di scena, seguita “un’esperienza onirica lucida e inquietante perché nelle mie orecchie tambureggia una musica che non conosco” in una “pista da ballo martoriata di effetti di luce”, del tutto occupata da “brandine ospedaliere e da un incalcolabile numero di persone”: “Le macchine musicali sono anche in grado di curare le patologie del mondo”.

Ed eccoci in una “inquietante ribellione tecnologica chiamata in codice Mad Machinery Possession”.

Giovanni De Matteo ci riporta nell’Absolute Beginners, locale già incontrato, in cui “la musica si fece sincopata, poi in qualche modo ci trovammo ad agganciare una scala pentatonica maggiore in Fa diesi che conferì alla nostra melodia un sapore esotico”. “Il marchio di fabbrica era la metamorfosi: trasformazioni della carne, evoluzione del pianeta, mutazioni psichiche incontrollate detonavano come testate nucleari nello spazio mentale delle nostre percezioni”. Quando compare in pista una ballerina sconosciuta la reazione del protagonista è: “fantasticai di tramutarmi in un treno d’onde sonore solo per potermi andare a infrangere sulle sue forme”. Strana ragazza, capace di “catalizzare la vitalità dei presenti”, “Aisha poteva ascoltare la mia musica, io vedere il suo stato d’animo”. Aisha è capace di “far ballare anche i murales!” Non con la magia, ma con “l’inserimento di nanomacchine in sospensione nella vernice delle bombolette spray”.

Ernesto Assante introduce  Max, un trafficante di “intelligenze artificiali musicali”: “della band vera non c’era più bisogno, che le AI potevano fare il lavoro meglio e con meno stress”. Solo che queste band artificiali, quando restano senza pubblico suonano “sempre di più, sempre più forte” per richiamare ascoltatori e alla fine “tutto esplode”.

C’era, in chilometri di container invisibili agli scanner interstellari tutta la musica che gli esseri umani avevano creato in millenni”. “La musica è la cosa immateriale più importante che noi esseri umani possediamo”, “è presente senza esserci”.

Andrea Carlo Cappi ci parla di un’indagine per omicidio che riguarda la Matsui, una megacompagnia A cura di Mario Gazzola - S.O.S. Soniche oblique strategie. 8 ...extraterritoriale.

Con Maurizio Marsico incontriamo “realtà parallele su linee temporali simmetriche ma dissonanti. Ricordi autentici e falsi ricordi panpottati dall’uno all’altro soggetto in una quadrifonia psicotica” e il tentativo di “far scaturire l’intera opera teatrale di Samuel Beckett dalle narici in forma ectoplasmatica” mediante un “rinovaporizzatore” con “tutte le possibilità dello spettro sonoro e di quello visivo, ma che soprattutto agisca sulla trasformazione della mente e della carne. In fondo è una semplicissima operazione  di psicoplasmica, causare uno shock tra cervello e corpo nel modo in cui l’acting–out isterico simula la falsa pazzia”.

Con queste nuvole di parole astratte, si conclude questo trip psichedelico in onore di Brian Eno e David Bowie, in cui “un cantante già morto aveva cantato per l’ultima volta, accompagnato da una band che non sarebbe mai più esistita, inghiottita dal Nulla insieme a lui”: “la session di registrazione più cosmica e insieme maledetta della storia della musica si era conclusa” chiosa Gazzola nelle pagine finali “per l’estinzione di tutti i musicisti” e non c’è spiegazione per “gli abissi insondabili delle fisica quantistica applicati alla generazione sonora”.

Libro da gustare con il cuore più che con la mente o meglio con il suo lato musicale, se mai ne avesse uno, lasciandosi guidare o, meglio, trascinare, dalle suggestioni sonore, visive e letterarie.

VEDERE LA FINE E IL NUOVO INIZIO DEL COSMO

Anderson Poul

Poul Anderson

Che cosa c’è di più classico in fantascienza di una nave interstellare che viaggia verso un nuovo pianeta da colonizzare? Se per giunta ci si aggiunge una bella e articolata teoria su come effettuare l’attraversata a una velocità superiore a quella della luce e una sana dose di ottimismo americano, allora è chiaro che siamo in un romanzo di hard sci-fi del periodo d’oro. Il libro con queste caratteristiche che ho appena letto è “Tau zero” il romanzo pubblicato nel 1970 e tratto da un racconto del 1967 del celeberrimo e quanto mai prolifico autore americano di origini scandinave Poul Anderson (Bristol, 25 novembre 1926 – Orinda, 31 luglio 2001). Come gli altri grandi autori di quell’epoca ha una solida formazione scientifica, essendo laureato in fisica, e solo un fisico avrebbe potuto scrivere un simile libro, in cui il tema centrale è che cosa accade in quest’astronave a seguito di un guasto che le impedisce di fermarsi e la porta ad accelerare sempre più fino a farle attraversare l’intero universo e con esso il tempo: gli astronauti assisteranno alla fine della sua espansione, a una sua nuova contrazione e, infine, a un nuovo ciclo espansivo.

Amazon.it: Tau Zéro - Anderson, Poul, Brèque, Jean-Daniel - Libri ...

La trama quindi alterna la visione dell’attraversamento della galassia e poi dell’intero cosmo con le reazioni dei cinquanta passeggeri nel constatare, a causa della relatività del tempo a bordo della nave che scorre diversamente per via dell’alta velocità, che mentre per loro passano solo mesi o giorni, sulla Terra prima tutti coloro che hanno conosciuto sono invecchiati e morti, poi l’intera umanità si è estinta e, infine, l’universo conosciuto si è perso nel finale big crash.

 

Altrettanto tipica è l’industriosità dei personaggi che si adoperano per adattarsi alla situazione così come il finale utopistico.

Fa sempre piacere della sana fantascienza canonica come questa, ma oggi questo genere deve affrontare nuove strade.

L’AUSTRIA VISTA DA ROMA

Sublime e orrido del mondo svelati da Bernhard | LuciaLibri

Thomas Bernhard

Sono arrivato a leggere “Estinzione. Uno sfacelo” (1986) di Thomas Bernhard (Heerlen, 9 febbraio 1931 – Gmunden, 12 febbraio 1989), per caso. Cercavo qualche romanzo che parlasse della Sesta Estinzione di Massa (se ne conoscete segnalatemeli).

Mi è parso subito chiaro che “Estinzione” non avesse nulla a che fare con quanto cercavo, ma mi ha incuriosito lo stesso.

Thomas Bernhard è un importante autore austriaco ed “Estinzione” racconta di un gentiluomo austriaco che vive a Roma. Sebbene io sia nato a Roma e sia di lontane origini austriache, questo non mi ha fatto particolarmente immedesimare nel protagonista, anche se alcuni luoghi romani da lui citati sono in zone in cui ho vissuto e questa aria da nobiltà decaduta non mi è nuova.

Estinzione” è quasi un atto d’accusa contro il modo di vivere austriaco, visto in contrapposizione con quello romano (parla sempre di Roma, piuttosto che d’Italia), che il protagonista sembra preferire di gran lunga.

Forse, Franz-Josef Murau più che prendersela con l’Austria post-bellica, che definisce cattolico-nazional-socialista, se la prende con quel piccolo feudo di proprietà della sua famiglia, Wolfsegg, luogo simbolico al punto da poter sembrare immaginario, anche se una simile località esiste davvero in alta Austria.

Il romanzo si caratterizza stilisticamente per un uso ossessivo delle ripetizioni di parole, di espressioni e di concetti.

Wolfsegg Castle and the Hole: Ghosts of Germany - Amy's Crypt

Wolfsegg

Come autore mi capita spesso di revisionare o di farmi revisionare dei testi, miei o altrui. Gli editor tendono spesso a evidenziare ogni minima ripetizione, invitando l’autore a eliminarla. Scrive, per esempio, Sergio Calamandrei: “Ho sviluppato una vera e propria idiosincrasia per le ripetizioni”. Se Bernhard fosse un autore minore e magari autoprodotto, si sarebbe potuto dire che questo lavoro di editing sia mancato al testo e in modo clamoroso. Credo che potrebbe essere agevolmente ridotto a un terzo o forse un quinto della sua lunghezza senza perdere nulla nella sostanza, nei contenuti, nei pensieri e nelle sensazioni che si vogliono esprimere. Bernhard è però poeta, narratore e drammaturgo di fama e questo non è certo il caso. Perché dunque si ripete? Io credo che abbia voluto rendere il flusso dei pensieri: quando pensiamo, certe idee e certe parole si muovono ostinatamente nella nostra testa, come il ritornello di una canzone, e non riusciamo a liberarcene. Inoltre, credo che un uso simile delle ripetizioni “scolpisca” i personaggi, i nomi, le idee nella testa del lettore, assai più del razionale “non ripetersi”. Del resto, anche la letteratura antica, penso ai classici greci, per esempio, o addirittura alla Bibbia, sono una ripetizione continua. Il mio quesito è dunque questo: se un autore vuole scrivere un testo che abbia una sua consistenza e non sia solo un esercizio scolastico, dovrebbe davvero evitare espressioni come “Già in passato avrei potuto portare Gambetti a Wolfsegg, pensai, ma a ragion veduta me ne ero sempre astenuto, sebbene molto spesso mi fossi detto che andare a Wolfsegg con Gambetti avrebbe potuto essere utile, oltre che per me, anche per Gambetti stesso. Con una verifica in prima persona da parte di Gambetti, i miei racconti su Wolfsegg acquisterebbero ai suoi occhi un’autenticità che nulla, altrimenti, potrebbe loro conferire. Conosco Gambetti ormai da quindici anni e non l’ho portato a Wolfsegg neppure una volta, pensai” di cui “Estinzione” è pieno in ogni pagina (questa l’ho scelta a caso)? Si noti il ripetersi dei nomi Gambetti e Wolfsegg, senza il ricorso a pronomi, perifrasi o sinonimi.

Oppure si veda qui come ricorrono il termine “fiducia”, presente anche nel paragrafo successivo, e “deluso”: “Mio fratello aveva sempre accordato subito a tutti la sua fiducia, e poi si era sempre sentito ferito quando la sua fiducia, in quasi tutti i casi, era stata delusa, io al contrario non ho quasi mai accordato subito a qualcuno la mia fiducia e di conseguenza raramente sono stato deluso nella mia fiducia.

 

Estinzione” è occasione per molte riflessioni sui rapporti familiari (qui descritti come tutt’altro che facili), l’arte e la cultura in genere, la società, l’Austria, Roma, la Chiesa, la filosofia, la caccia, la politica e molto altro ancora.

Eccolo dunque Franz-Josef Murau esprimere l’odio per la fotografia, che descrive un mondo deformato e perverso (“Quelli che fotografano commettono uno dei crimini più meschini che si possano commettere, perché nelle loro fotografie trasformano la natura in uno spettacolo perverso e grottesco”), per la caccia (“Fra tutte le passioni odiose, la caccia la odiava con la massima profondità”), la disapprovazione per la mania per l’arte antica, come ostentazione di cultura, l’impossibilità di comprendere la natura senza capire l’arte (“Quelli che sostengono di vedere la natura, ma non hanno una concezione dell’arte, vedono la natura solo superficialmente e mai in maniera ideale, ossia in tutta la sua infinita grandiosità”), preferendo gli artisti vivi a quelli morti, la vacuità di disporre di tante librerie senza leggere (come facevano i suoi parenti), il disprezzo verso i titoli accademici (“Quanto più imponente suona il titolo, tanto più grande è l’imbecille che lo porta”), la differenza tra l’ozio della gente comune e quella degli intellettuali (“Per l’uomo di pensiero il cosiddetto far nulla non è neanche possibile”), il suo disprezzo per insegnanti e giudici (“Gli insegnanti e i giudici sono i più meschini servi dello Stato”).

L’attacco contro la meschinità è quanto mai ricorrente. Oltre a caratterizzare docenti e magistrati, riguarda l’intera Austria (“non perdo occasione per attribuire agli austriaci meschini e abietti sentimenti cattolico-nazionalsocialisti”) e, in particolare, la sua stessa famiglia.

nuvole-3Amara è l’immagine dell’Austria che emerge da questo libro: “è già una menzogna perversa parlare dell’Austria, ancora oggi, come di un bel paese, in verità è da tempo ormai soltanto un paese distrutto, deliberatamente devastato e sfigurato, diventato vittima di perfidi affari, dove ormai, in effetti, la cosa più difficile è trovare un angolo intatto. È una menzogna dire che questo paese è un bel paese, perché in verità è un paese ucciso.” Vedendo questo Paese devastato dalla mancanza di cultura, non posso non pensare a un’altra mia recente lettura, “Gli esclusi” (1980) di Elfriede Jelinek, opera austrica contemporanea a “Estinzione”, che parla dei difficili rapporti nella famiglia austriaca di un ex-gerarca nazista mutilato e privo di uno scopo nella vita. Due mondi diversi, ma due facce della stessa Austria cattolico-nazionalsocialista. Non ama, però neanche gli pseudo-socialisti che sono succeduti ai nazionalsocialisti.

Dell’Austria e della Germania non risparmia certo la letteratura:

Siamo dinanzi a una letteratura piccolo borghese da funzionari, quando siamo dinanzi alla letteratura tedesca, anche i grandi esempi di questa letteratura tedesca non sono null’altro, Gambetti, Thomas Mann, lo stesso Musil, dissi, che fra tutti questi produttori di letteratura da funzionari metto ancora al primo posto. Ma anche Musil non ha scritto altro che una pietosa letteratura da funzionari.”

L’impiegato Kafka, ho detto a Gambetti, è stato il solo a non produrre una letteratura da funzionari e impiegati, bensì una grande letteratura, cosa che non si può certo affermare di tutti i cosiddetti grandi scrittori tedeschi di questo secolo, a meno di non volersi allineare ai milioni di chiacchieroni da pagine culturali”.

Non risparmia neppure Goethe:

Nell’insieme, ho detto a Gambetti, l’opera goethiana è l’orticello di periferia di un filisteo della filosofia. In nulla Goethe è arrivato alle vette, dissi, in tutto non è mai andato oltre la mediocrità. Non è il più grande lirico, non è il più grande prosatore, ho detto a Gambetti, e le sue opere teatrali, paragonate per esempio alle opere di Shakespeare, sono come un bassotto spelacchiato dei sobborghi di Francoforte di fronte a un colossale cane da pascolo alpino svizzero. Faust, avevo detto a Gambetti, che megalomania!”

Quanto ai filosofi, prova per loro attrazione e repulsione.

 

Se con il suo Paese non ci va leggero, anche nei confronti della Chiesa cattolica, non mostra alcuna simpatia:

La Chiesa cattolica fa tanti danni nelle giovani teste”.

Milioni, e infine miliardi di persone debbono alla Chiesa cattolica il fatto di essere state distrutte alle radici e rese inservibili per il mondo, il fatto che la loro natura è stata trasformata in contronatura. La Chiesa cattolica ha sulla coscienza l’uomo distrutto, restituito al caos, in definitiva infelice fino al midollo, questa è la verità, non il contrario. Perché la Chiesa cattolica tollera solo l’uomo cattolico, nessun altro, questo è il suo intento e il suo fine perenne. La Chiesa cattolica trasforma gli uomini in cattolici, in individui ottusi che hanno dimenticato il pensiero autonomo e l’hanno tradito per la religione cattolica.

Il vescovo Spadolini, amante della madre, è oggetto di ammirazione per l’arte teatrale dei suoi discorsi ma, nel contempo, di grande disprezzo.

 

Se il protagonista disprezza la cultura morta, vede nell’esagerazione i massimi livelli dell’arte.

Per rendere comprensibile una cosa dobbiamo esagerare, gli avevo detto, solo l’esagerazione dà alle cose forma visibile”.

Ho educato a tal punto la mia arte dell’esagerazione che a buon diritto posso definirmi il più grande artista dell’esagerazione che io conosca.

L’arte dell’esagerazione è un’arte del superare, superare l’esistenza così come l’ho in mente io”.

I grandi maestri nel superamento dell’esistenza sono sempre grandi artisti dell’esagerazione”.

Il pittore che non esagera è un cattivo pittore, il musicista che non esagera è un cattivo musicista, dissi a Gambetti, così come lo scrittore che non esagera è un cattivo scrittore, ma può anche accadere che la vera arte dell’esagerazione consista nel minimizzare tutto, allora dobbiamo dire, costui esagera la minimizzazione ed in tal modo fa della minimizzazione esagerata la sua arte dell’esagerazione, Gambetti. Il segreto della grande opera d’arte è l’esagerazione, ho detto a Gambetti, il segreto del grande pensiero filosofico altrettanto, l’arte dell’esagerazione è, in assoluto, il segreto dello spirito, ho detto a Gambetti”.

Forse, questo concetto di esagerazione spiega anche l’esagerato uso delle ripetizioni in questo romanzo.

La trama si dipana attorno all’arrivo di un telegramma che annuncia al protagonista che i suoi genitori e il fratello maggiore sono morti in un incidente d’auto. Franz-Josef Murau deve, dunque, lasciare Roma e tornare nell’odiata Wolfsegg. Riesamina, dunque, il carattere dei suoi familiari e i loro rapporti.

Il protagonista sente “il dovere di procedere a una spietata osservazione di Wolfsegg e di render conto di quella spietata osservazione.” In tale resoconto si propone di “mostrare i miei così come sono, anche se allora saranno sulla carta solo come io li ho visti e come io li vedo”. Per tale resoconto ha scelto “il titolo Estinzione, perché il mio resoconto è lì solo per estinguere ciò che in esso viene descritto, per estinguere tutto ciò che intendo con Wolfsegg, e tutto ciò che Wolfsegg è, tutto”.

Ecco, quindi, questi genitori che vanno a teatro per dovere sociale, perché “vivono la loro vita in abbonamento, e tutti i giorni entrano nella loro vita come a teatro, a vedere una commedia orrenda, e non si vergognano”.

I miei, dopo aver terminato il liceo, il cosiddetto classico, non si sono più adoperati per raggiungere nulla e sono Estinzione | Thomas Bernhard - Adelphi Edizionirimasti fermi per tutta la vita su quelle posizioni in effetti del tutto insoddisfacenti. Ma è disgustoso questo atteggiamento di chi ritiene non più necessario l’arricchimento dello spirito, superfluo l’ampliamento delle proprie conoscenze, qualunque esse siano, tempo sprecato l’ulteriore e continua formazione del carattere.”

Eccoli, dopo la fine della Guerra, ospitare e nascondere nella dependance decaduta detta Villa dei Bambini i nazisti. Ecco l’odio per i cacciatori della tenuta che vede come nazisti, in contrapposizione ai giardinieri, visti come esempio di persone semplici, verso cui va la sua simpatia.

Le sorelle sono trattate dai genitori narcisisti non come persone ma come bambole da vestire.

Il suo proposito di restaurare la Villa dei Bambini, appare come il proposito di restaurare l’infanzia, ma è solo un’idea passeggera, perché il suo vero istinto è di estinguere quei luoghi.

Tutto lo disturba, persino il cinguettio degli uccelli pare un ostacolo allo spirito.

Una simile dirompente carica di esagerato disprezzo non può che confluire nell’Estinzione di quel mondo.

FIRENZE VISTA DAI FIORENTINI

Alla fine di febbraio 2020 è stata pubblicata dalle Edizioni della Sera l’antologia di racconti “Fiorentini per sempre”, curata da Paolo Mugnai e che vede la partecipazione di molti autori attivi sulla piazza cittadina, tra cui il sottoscritto con il racconto distopico “Il mare a Firenze”.

Purtroppo, l’esplosione della pandemia di covid-19 e la conseguente quarantena hanno impedito sia la realizzazione di incontri di presentazione, che speriamo si possano fare quanto prima, sia persino a me di incontrare il curatore e ritirare le mie copie. Solo all’inizio di maggio sono così riuscito a riceverle e a iniziarne la lettura.

Il volume è corredato di una prefazione, scritta dall’importante giallista Marco Vichi e di una postafazione dell’esperto di storia fiorentina Luciano Artusi. Si inserisce in una collana dedicata a varie città e regioni d’Italia, partita con “Napoletani per sempre” e che ha visto di recente anche il volume “Toscani per sempre“.

Vichi, giustamente, nota nelle prime righe che gli piace pensare che “i fiorentini sappiano essere anche italiani ed europei”, affermazione che condivido, anche se tendo a rovesciare l’ordine, dicendomi prima europeo, poi italiano e, infine, cittadino adottivo di questa Firenze, cui ormai, dopo quasi tre decenni, sono forse persino più legato che a Roma che mi ha dato i natali. Nota Vichi che “i fiorentini si vantano un po’ troppo di avere nelle vene il sangue dei grandi del passato”, vezzo, direi, più che un vizio, del resto comune a molte città italiane, a partire dalla Roma da cui vengo, che ancora si crede caput mundi. Analogamente, molti italiani, ma i fiorentini in primis, considerano la propria la “città più bella del mondo” e questo concetto lo ritroviamo alcune volte in questi stessi racconti. Da questo ne deriva, come scrive Vichi, che “i fiorentini, tendenzialmente me compreso, sono persone chiuse, inospitali, incapaci di aprirsi agli altri”.

Vichi, infine evidenzia il gusto fiorentino per l’ironia, i giochi di parole, i doppi sensi, l’arguzia, che troppo spesso rendono l’umorismo fiorentino incomprensibile se non offensivo per chi non ne conosce lo spirito.

I racconti sono in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore.

Si comincia così con Luca Anichini che ci racconta, in chiave storico-antropologica, gli anni dopo la seconda guerra mondiale di una famiglia di mezzadri, attraverso le profonde trasformazioni seguite alla legge del 1964 che aboliva i contratti che regolavano questa forma di coltivazione, con la protagonista Emma che abbandona così la campagna per un lavoro in fabbrica dove “non era più circondata dai familiari ma dai colleghi” (in questi giorni di quarantena e smart working stiamo vivendo il processo alla rovescia!) e dove può finalmente avere con la busta paga dei soldi che siano suoi e non della famiglia. Se l’amore per Firenze è forte, però, Emma, presto subirà il sogno di una vita diversa e raggiungerà a Parigi l’amica Anna, partita assieme a uno studente francese.

Anche Lapo Baglini fa dire al suo protagonista “Firenze la amo e mi è sempre piaciuta ma nello stesso tempo sento il bisogno di scappare, almeno un paio di volte l’anno”, perché “la voglia di evadere la si può provare anche nella città più bella del mondo”. Sarà per il clima caldo estivo, ma i fiorentini mi pare sentano più di altri il bisogno di vacanze quando arrivano luglio e agosto. Del resto, come conclude Baglini il suo racconto di amore tradito, furto e omicidio,  “il cielo è azzurro come può esserlo qui a Firenze. Niente a che vedere con quello dei Caraibi”.

Carlo Menzinger, autore di uno dei racconti di “Fiorentini per sempre”

Anche Serena Bedini ci mostra un certo disagio verso questa città, con la protagonista “cieca alla perfetta simmetria del Vasari, allo scorcio che si apriva davanti del Palazzo Vecchio e delle statue antistanti”, sconvolta dalla crisi del turismo del 2008, che preconizzava quella ben più grave di questo 2020 e che l’aveva lasciata senza lavoro: “il modo di fare turismo sarebbe cambiato, era evidente che il mio posto di lavoro, un anno prima così ricco di prospettive, adesso era oltremodo precario”. Riuscirà Firenze a reiventarsi senza il turismo?

Jacopo Berti ci presenta una “lettera mai scritta di un fiorentino di altri tempi, uno dei primi botanici e naturalisti” per il quale nelle strade del proprio “quartiere c’era un’aria speciale che spingeva verso paesi lontani”: ritroviamo uno spirito non molto diverso da quello di Baglini.

In questo racconto si coglie un’altra caratteristica tipica dei fiorentini: la ritrosia verso il nuovo, così ben rappresentata dalle reazioni al Risanamento avvenuto nel periodo di Firenze Capitale, che trasformò in pochi anni la città come non lo era mai stata dai tempi del Rinascimento: “il risanamento dell’architetto Poggi che noi fiorentini abbiamo mal digerito”, che fa il paio con il disprezzo attuale verso il Tribunale Nuovo, che ha portato un po’ di novità urbanistica in una città immobile.

Come nei brani di altri autori di questa raccolta, troviamo il protagonista affermare che “dopo esser stato girovago, Firenze è sempre stata la mia meta finale: rivedere l’Arno così mite rispetto alle acque limacciose dei fiumi di Sumatra”, perché “nel mio cuore c’è sempre stata la cupola del Brunelleschi, come il bocciolo di un fiore non ancora dischiuso”.

Nel racconto di Alessandro Bini assistiamo a un invasione aliena dal centro della città e, in particolare, da Ponte Vecchio. A dir il vero, gli extraterrestri non li vediamo, ma è un’occasione per attraversare con il protagonista la zona vicino all’Arno. Se si diceva un tempi che “un disco volante non può atterrare a Lucca” (Carlo Fruttero), credo sia meritevole cercare di fare comunque fantascienza italiana e, come in questo racconto, connotarla per la sua peculiarità territoriale.

Roberta Capanni ci parla dell’alluvione del 1966, focalizzandosi sulla resistenza di una cagnetta bloccata dalle acque con la sua cucciolata.

Assai singolare il personaggio smemorato o forse con troppi ricordi del racconto di Giacomo Cialdi che “tutti gli anni, il 7 dicembre” si reca in una scuola.

Segue il racconto di quel grande poeta dei luoghi che è Paolo Ciampi, di cui ho già scritto tante volte, che ci parla di una Firenze che non c’è più, fatta di venditori ambulanti come il mitico Lachera e vista attraverso gli occhi di un cronista di strada.

Interessante l’annotazione storico-linguistica riguardo la “Loggia del Mercato Nuovo, accanto al Porcellino” dove “a pochi metri dalla pietra dell’acculata, quella in cui le natiche dei debitori insolventi, a braghe calate, venivano ripetutamente sbattute. Una raffinatezza della Firenze medievale, per inciso, da cui si intende l’espressione col culo per terra”.

Camilla Cosi ci parla dell’attentato mafioso all’Accademia dei Georgofili con la perdita, tra le altre cose, di un dipinto di Landseer, ma anche della grande alluvione del ’66 e della leggenda sul volto inciso sul fronte di Palazzo Vecchio da Michelangelo.

Livia Fabruccini ambienta in Piazza della Passera, l’antico centro di case chiuse, la sua storia di ricerca di indipendenza giovanile.

È un salto nel passato del giornalismo sportivo e della Fiorentina il racconto di Nadia Fondelli.

Quello di Andrea Claudio Galluzzo, invece, è una dichiarazione d’amore verso la propria città: “Firenze è la mia donna e io la amo follemente”, seguita subito dopo dal racconto di Andrea Gamannossi che parte come la storia di un innamoramento, “era così bella che tutta la gente che le stava attorno sembrava sbiadita”, per poi mutarsi quasi in horror, con la donna divenuta vecchia e brutta, e collegarsi infine alla vicenda storica della scultura detta “Berta”, che si scorge sulla torre campanaria  della chiesa di Santa Maria Maggiore.

Sceglie Alessandro Lazzeri di focalizzarsi sullo storico Hotel Mayflower e sulla misteriosa ospite della camera 325, la Signora Odescalchi della Nave, che mai esce da questo albergo che negli anni “più che invecchiare” “pareva decomporsi”, che da “scintillante era diventato trasandato”. Sarà mai esistito? Su Google non è trovato traccia.

Giovanni, il pensionato protagonista di Luca Lunghini, ama “passeggiare per la sua amata Firenze”, per “conoscere meglio la sua splendida città” e ripercorrendo le rive dell’Arno ricorda dell’alluvione del ’66 e della nevicata del ’85.

Per raccontare di un ritorno a Firenze, Francesco Luti, sceglie un vocabolario tutto suo in cui si susseguono termini ed espressioni come “appetto”, “si serenò”, “duo”, “intormentiti”, “rinsanguamento”, “principiare”, “fuori sceneggiava il verde”, “discacciare”, “scattoso e spasmodico”, “fremebonda”, “grifagna”, “desinare”, “diacere”, “aleggiava”, “carambolò”, “svisò gli occhiali”, rendendo così l’idea della lontananza che da fisica si fa linguistica. Anche lui, come tanti in quest’antologia, non manca di definire Firenze “la città più bella del mondo”.

Giulia Mastromartino ci parla della magia di questa città, attraverso la coincidenza degli incontri umani.

Francesco Matteini descrive una singolare maratona per le vie del capoluogo toscano, con due podisti che si scopriranno, alla fine, avere uno sguardo davvero particolare.

Carlo Menzinger, presente in “Fiorentini per sempre” con una delle sue distopie toscane.

Ed eccoci al racconto “Il mare a Firenze”, del sottoscritto Carlo Menzinger, che mostra una città futura, assediata daun mare troppo alto, per effetto del surriscaldamento, protetta da un muro, che la difende anche dai “migranti climatici” fuggiti dalle città della costa, e in cui la gente si rifugia nella realtà virtuale, per negare il presente.

Il racconto fa parte di un gruppo di cinquantuno storie da me scritte per mostrare la fragilità del nostro ambiente, focalizzandola sull’ambito a noi più vicino, la nostra città. I primi ventiquattro sono usciti nell’antologia “Apocalissi fiorentine” (Tabula Fati, Ottobre 2019) e gli altri ventisei usciranno in “Quel che resta di Firenze”.

Tommaso Meozzi ci parla di nuovo di chi ha dovuto lasciare la propria città (“la sua voglia di casa, pari solo alla sua voglia di partenze”), che vive all’estero come “venditore ambulante d’italiano”, insegnate precario, perché “insegnare italiano lo aiuta a rimanere in contatto con le proprie radici”. Ed eccolo aggirarsi di nuovo per Firenze nell’impossibile ricerca di acquistare lacci per scarpe, in una città che vende alta moda, ma si dimentica delle piccole cose.

Viene da Milano, la protagonista di Pier Vincenzo Monaci, “una truccatrice freelance”, che assieme a delle amiche aiuta il suo ex-allenatore di volley a far chiarezza sull’omicidio del figlio con “una schiacciata da una seconda linea lontanissima, oltre l’Arno, oltre il Po, oltre il Ticino, dalle sponde del Naviglio Grande!”.

Torna a Firenze anche Dante, dopo ben cinquanta anni, il protagonista ideato dal curatore Paolo Mugnai, dopo essersene andato “da quel presente fiorentino per me divenuto irrespirabile”. Torna dalla figlia Beatrice (nome non casuale) ma dice “Questa non è più la mia Firenze”. Frequenta un corso di cultura toscana per la terza età che lo porta a riscoprire la città.

Quasi un saggio sul Risanamento fiorentino dei tempi di Firenze Capitale è il racconto di Marco Salucci, a seguito del quale “le città restano due” “una sulla riva sinistra e una sulla destra”. Se i grandi spazi dei Viali, di piazzale Michelangelo, di piazza D’Azeglio erano finalizzati trasformare la città medicea in una capitale nazionale, la loro importanza la ebbero anche “Tifo, tubercolosi, scrofola, colera”: “si cercava un rimedio a queste malattie con l’abbondanza d’aria, i bagni di sole” e “il controllo delle acque”.

Eppure, come sempre accade a Firenze, “questa nuova città sulle prime non fu apprezzata”.

Quello di Enrico Zoi è un lungo interrogarsi su perché uscire di casa, attratti dalle bellezze della città.

Chiude il volume la postfazione di Luciano Artusi per il quale questo libro di “novelle per adulti” si contraddistingue per l’amore per Firenze. Come abbiamo visto, però, è un amore-odio, come sovente avviene, che porta spesso i personaggi ad allontanarsi magari poi per fare ritorno in questa città, che i fiorentini continuano a sentire come “la più bella del mondo” e a restare, seppure lontani, “Fiorentini per sempre”.

Si dice da più parti che sulla nostra meravigliosa città sia già stato detto e scritto tutto;” scrive Artusi non sono affatto in sintonia con questa linea di pensiero che, seppur prevalente, non mi convince affatto”. Come non esser d’accordo? Questa stessa antologia è la prova che c’è ancora qualcosa da raccontare.

ROMANCE AVVENTUROSO TRA LE SABBIE

Caterina Perrone | La legenda di Carlo Menzinger

Caterina Perrone con Lo sguardo e il riso

Danza nel deserto” (Dicembre 2018) è il sequel del romanzo di Caterina PerroneLo sguardo e il riso” (2017), entrambi editi da Porto Seguro, la più vivace delle case editrici fiorentine e non solo.

Peraltro, “Danza nel deserto” si legge in maniera del tutto autonoma rispetto al primo volume, con cui condivide i protagonisti Viola e Matteo, ma se ne “Lo sguardo e il riso” avevamo una storia d’amore ambientata in un non-tempo passato e in un non-luogo che ricordava l’Italia medievale ma con il sapore dei borghi fantasy, come ne scrissi leggendolo, in “Danza nel deserto” siamo invece in un vicino oriente più moderno forse non fortemente connotato, ma che è comunque un luogo fisico e temporale assai più preciso. Rimane il tema forte dei profumi, ma qui non è più così centrale. Il primo volume era soprattutto storia d’amore, questo secondo è un romance d’amore, con passioni non corrisposte o difficili, ma anche di avventura, assai più denso di eventi, con viaggi, rapimenti, ricatti, inganni, travestimenti, assalti. Forse dipende dal mio occhio, ora più allenato alla scrittura dai tratti poetici della Perrone, ma questo seguito mi è parso più maturo e intenso.

Sempre belli e ricchi di particolari i disegni in bianco e nero che accompagnano numerosi entrambe le storie, opereDanza nel deserto - Porto Seguro Editore del marito della Perrone, Gianni Mannocci, spesso caratterizzati dal moltiplicarsi di piccole presenze di contorno. Abbiamo così, per esempio, l’immagine di cammelli che si abbeverano a una pozza e sullo sfondo una donna orientale che porta una brocca d’acqua e un suricato in primo piano, oppure un vecchio che legge seduto in terra contro un’elaborata parete in maiolica e davanti a lui una pila di libri, colombe in volo e un piccolo topo o ancora un veliero che naviga tra gabbiani e delfini.

Caterina Perrone è ora membro del GSF – Gruppo Scrittori Firenze.

MULTINAZIONALI OGM E CYBER SEXY DOLL IN THAILANDIA

Mentre leggevo “Antropocene”, il volume curato da Francesco Verso e Roberto Paura, tra i titoli citati in uno dei saggi, ho notato “La ragazza meccanica” (2009) di Paolo Bacigalupi (Paonia, 6 agosto 1972), romanzo di fantascienza che avevo appena iniziato a leggere in e-book (sono, infatti, solito leggere in contemporanea un libro in cartaceo e uno digitale). Nonostante il nome, che ne denota le origini italiche, l’autore è statunitense.

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Paolo Bacigalupi

Si tratta di opera, in effetti, di una certa rilevanza, avendo vinto alcuni importanti premi come Hugo, Nebula e John Wood Campbell.

Definito biopunk da wikipedia, ha una trama complessa, ambientata, insolitamente, in Thailandia, descrive un mondo che è “andato avanti”, nel senso però non di progresso ma di decadenza, come usato da Stephen King per la sua saga della “Torre Nera”: un mondo in cui il surriscaldamento globale, oltre a rendere l’ambiente eccessivamente caldo, ha portato all’innalzamento dei mari, mentre moltissime specie (si parla soprattutto di quelle vegetali) si sono estinte. Alcune multinazionali, le Compagnie Caloriche, fanno i propri profitti diffondendo frutta e verdura geneticamente modificata, essendo introvabili quelle naturali.

In questo contesto si muove una dei protagonisti, la “sexy-doll” creata in laboratorio Emiko, una cyborg creata dai giapponesi e abbandonata in Thailandia, dove è rimasta a lavorare in un bordello.

Le cosiddette “neo persone” come lei, sebbene geneticamente condizionate all’obbedienza, sembrano avere una loro coscienza, propri sentimenti e un desiderio di procreazione. Impossibile non pensare a “Blade runner” e al racconto di Dick da cui fu tratto il film o alla serie TV “Westworld”, ma la mia mente corre anche all’Aracne di “Via da Sparta” (come lei una schiava manipolata geneticamente, sessualmente a disposizione di chi le voglia, in fuga alla La Ragazza Meccanica eBook: Bacigalupi, Paolo: Amazon.it: Kindle Storericerca di un mondo diverso e migliore) e magari all’investigatrice sintetica Lidy di “Karma avverso” di Mecati e Seganti. Chi è davvero questa Emiko? Solo una bambola erotica o piuttosto una spietata macchina da guerra, capace di stragi efferate con la letalità dello Srhike dei Canti di Hyperion di Dan Simmons?

Attorno a lei un mondo di trafficanti e malfattori, virus e batteri, ma anche altre creature geneticamente modificate come i megodonti, degli elefanti OGM, o i camaloeontici stregatti di carroliana memoria, per non parlare dell’insidiosa micoruggine. Questa Thailandia è uno dei pochi regni della Terra a essersi conservato nella sua struttura originale, ancora con una stirpe regnante al potere, mentre il resto del mondo, dagli USA all’UE, si è andato disgregando.

Importante il messaggio ecologico, articolata la trama, originale e intensa l’ambientazione, ma la storia non mi ha preso come mi sarei aspettato, disperdendosi un po’ troppo in rivoli diversi e dimenticandosi troppo spesso di parlare della vera protagonista, Emiko, che avrebbe dovuto e potuto essere l’anima della storia.

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