
Tra i romanzi (e relativi film) che mi piace leggere ci sono sia le storie di sopravvivenza in cui una o più persone resistono in ambienti ostili, sia le storie di fantascienza in cui l’ingegno umano trova soluzioni a problemi apparentemente irrisolvibili.
“The Martian – Il Sopravvissuto” (autopubblicato in e-book nel 2011 e poi stampato nel 2014), opera prima dello statunitense Andy Weir, appartiene a entrambe le categorie. Narra di un astronauta, Mark Watney, che, creduto morto, viene abbandonato dai compagni su Marte e che sopravvive mettendo in pratica le proprie conoscenze scientifiche, tecnologiche e pratiche. La trama discende direttamente da “Le avventure di Robinson Crusoe” (“The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe”) pubblicato da Daniel Defoe nel 1719, quasi tre secoli fa, e che conta numerosi emuli e abbondanti trasposizioni.
Tra tutte queste opere, quella di Weir è forse una di quelle che maggiormente ne riprende lo spirito adattandolo ai tempi moderni. I protagonisti di entrambi i romanzi sono uomini che in totale solitudine e in ambienti estremi, con pochi mezzi, riescono a mettere a frutto le migliori conoscenze del proprio tempo per sopravvivere e “domare” lo spazio alieno in cui sono stati proiettati. Mark Watney si trova su Marte, ma anche l’isola di Robinson Crusoe è non meno aliena per un gentiluomo europeo.
Indubbiamente pochi uomini del XVIII secolo avrebbero avuto le capacità di Crusoe di adattarsi alla vita sull’isola, così come quasi nessun uomo moderno e persino ben pochi astronauti sarebbero in grado di fare ciò che fa Watney per sopravvivere su Marte. Eppure ciò che fanno, agli occhi di un lettore medio, appare in entrambi i casi, in qualche modo possibile e verosimile. Veramente si può dire che Watney sia il Crusoe del XXI secolo, più di tanti naufraghi che abbiamo recentemente conosciuto dal Chuck Noland di “Cast Away”, ai sopravvissuti soprannaturali del telefilm “Lost”, ai ragazzini guerrafondai de “Il signore delle mosche”, anche perché in questi ultimi manca la solitudine che caratterizza gran parte dell’esperienza di Crusoe. Diverso è anche da “Vita di Pi” in cui lo spazio ristretto (la barca) in cui sopravvive il ragazzo – che può ricordare gli spostamenti di Mark
Watney con il Rover sulla superficie marziana – è comunque riempito da una natura invadente, seppur frutto dell’immaginazione.
Insomma, quello che accomuna Crusoe a “The Martian” è, oltre allo stato di naufrago del protagonista, soprattutto il suo sforzo per impiegare al meglio le conoscenze tecnologiche dell’epoca.
L’isolamento in ambiente tecnologico di Mark Watney fa pensare anche a quello di Bowman in “2001 Odissea nello spazio”, anche se qui la tecnologia non è ostile e non ci sono interventi da parte di entità “superiori”.
C’è però un intervento esterno. Il romanzo non parla solo dell’isolamento del protagonista, ma anche del tentativo di salvarlo, e anche qui entriamo in un campo narrativo ampissimo, che racchiude tutti i possibili sviluppi della fiaba del principe che salva la principessa in pericolo (qui con un’inversione di ruoli tra i sessi, dato che il capitano che cerca di salvare il naufrago spaziale è una donna).
Mi è già capitato di leggere un libro dopo aver visto il film che ne è stato tratto o, viceversa, di vedere il film dopo aver già letto il romanzo. Non mi era mai capitato di fare le due cose in contemporanea (o quasi) come questa volta.
Giunto circa a metà del romanzo, ho visto al cinema il film che ne stato tratto (“Il sopravvissuto” – 2015) diretto da Ridley Scott, con attore protagonista Matt Damon, che interpreta l’astronauta Mark Watney.

Andy Weir
Spesso si dice che un romanzo sia meglio del film e questo è comprensibile, perché un’opera cinematografica deve necessariamente essere più sintetica, perdendo così sia in profondità, sia in dettaglio, sia in capacità immaginativa da parte dell’utente lettore/spettatore. A volte, però, i film possono essere migliori del romanzo da cui sono nati.
Un regista navigato come Scott, rispetto a un autore esordiente come Weir, avrebbe potuto avere buone carte per contradire la consuetudine, ma il risultato, pur buono e meritevole, non permette di affermarlo con nettezza. Semplicemente i due prodotti sono diversi, pur essendo entrambi, a modo loro, validi esempi di buona fantascienza.

Ridely Scott
Leggendo l’inizio del romanzo ero molto curioso di capire come Scott potesse aver reso le ripetute e costanti riflessioni di Watney su come sopravvivere in un ambiente tanto ostile e i suoi complicati calcoli e studi per produrre e gestire le sue limitatissime risorse. Watney non è certo un uomo comune. Ha conoscenze ingegneristiche e botaniche superiori e, soprattutto, è quello che in gergo si potrebbe dire uno “smanettone”, uno che sa dove mettere le mani per costruire, smontare e rimontare le cose. Il romanzo è quasi un manuale di sopravvivenza su Marte. L’uomo che emerge dal romanzo è un autentico genio, pedante, preciso, meticoloso, arguto, grandissimo calcolatore. Watney esamina e programma ogni cosa e ogni attimo della propria esistenza marziana. Ha risorse per sopravvivere un anno, ma sa che deve restare su Marte almeno per quattro anni, prima che qualcuno torni. Ha perso il sistema di comunicazione e nessuno sa che è vivo. Deve riuscire a ristabilire i contatti se vuole che qualcuno, seppure tra moltissimi mesi, lo possa aiutare. Non si scoraggia e il suo ingegno trova soluzioni per tutto. Si può anche dire che non si emoziona molto e che Weir e Scott ne approfondiscono poco la psicologia, ma direi che la sua psicologia è proprio questa, quella di un uomo che non perde tempo a piangersi addosso, a riflettere su quanto sia sfortunato. Una persona forte e concreta.
Dal romanzo emerge dunque una morale fortissima: con intelligenza, impegno e perseveranza si può fare tutto, persino sopravvivere nell’ambiente più ostile che l’uomo possa immaginare.
Questo si coglie meno nel film. Il protagonista di Scott è più vicino a Rambo che ai protagonisti geniali e creativi di Jules Verne, come è invece quello di Weir.
Weir riporta, appunto, la fantascienza alle sue origini, allo spirito di Jules Verne, regalandoci un’opera in cui possiamo tornare a meravigliarci delle capacità tecnico scientifiche dei protagonisti, in cui il futuro raccontato è dietro la porta e in cui la plausibilità degli eventi ha il sapore dell’anticipazione.
Scott ci dà un film d’avventura, di solidarietà, di coraggio, di determinazione.
Nel complesso, però, il romanzo tende a essere piuttosto pesante con tutti questi calcoli e tutto questo continuo ponderare. Era dunque forse giusto snellirlo nella trasposizione cinematografica, che, comunque, segue piuttosto accuratamente la trama letteraria.
Come risolve, insomma, il grande Scott il problema? Ricordo, per inciso, che stiamo parlando del regista di film cult di fantascienza come “Blade Runner” e “Alien”, due dei massimi titoli del genere. Speravo dunque in qualche trovata brillante.
Non ho notato, purtroppo, alcuna soluzione geniale. Scott semplicemente si limita a semplificare la maggior parte delle numerose trovate tecniche del protagonista, dandoci alla fine un Matt Damon un po’ giuggiolone e forse più eroico del suo alter ego cartaceo (si ricuce persino una ferita con la graffettatrice, quasi fosse Rambo) ma che alla fine sembra sia solo riuscito a trovare un modo per coltivare patate concimando lo sterile suolo marziano con la sua cacca e con quella dei suoi compagni (che chissà perché l’avevano lasciata sul pianeta in sacchetti ciascuno con il nome del relativo artefice!).
Insomma, il film acquista maggior dinamicità e spettacolarità del libro, ma si perde in parte la grande morale dell’intelligenza e della capacità di calcolo che permettono di risolvere tutto. Rimane comunque l’idea americanissima del self-made-man, dell’uomo capace di superare da solo ogni difficoltà, perché secondo il sogno americano chiunque può aver successo (questa in Italia sembra la vera fantascienza!), solo che nel romanzo ci riesce con la genialità e nel film soprattutto con il coraggio e la determinazione. Due eroi, ma di stoffa diversa. Mi piace decisamente di più quello del romanzo, ma dal punto di vista narrativo tanti dettagli tecnici appesantiscono anche la lettura, figuriamoci la visione di un film.
Che dire del messaggio sulla facilità di colonizzare Marte? Questo direi che è parimenti presente nelle due opere. Mark Watney perderà anche tutto il suo orto, ma in fondo era riuscito a realizzarlo e a sfamarsi a lungo con le sue patate marziane: allora colonizzare Marte si può. Non sarà una passeggiata. Ci vorranno veri eroi e molta immaginazione, ma si può fare.
Riusciremo davvero a vedere i primi uomini sul pianeta rosso prima della fine del 2030. Chi ci sbarcherà per primo? Sarà la Nasa, con il suo
programma scientifico di lungo termine o saranno quelli di MarsOne, che avevano annunciato il 2023 ma già parlano del 2026 o saranno i cinesi? Ci riusciranno con l’aiuto dei russi? O saremo noi europei a sorprendere e superare tutti? Quello che conta è che sembra che la corsa sia partita e che anche l’industria cinematografica e mediatica si sia attivata. È un gioco? Niente affatto, è il nostro futuro. È ciò che dà senso alla nostra civiltà: portare la vita dove non c’è, proprio noi che la stiamo annientando sul nostro mondo.
Il messaggio è: Marte può essere abitato. Se un uomo da solo, in condizioni impreviste e improvvisate è riuscito (seppure nella finzione) a sopravvivere su Marte, delle spedizioni organizzate possono farcela. Questo è un messaggio importante, perché in fondo l’umanità esiste proprio per questo. Se abbiamo realizzato la nostra tecnologia non può che essere per portare la vita su altri mondi.
Come si può affermare una cosa simile? Si tratta di riflettere un attimo sull’evoluzione. Alcuni sostengono che solo la fede in qualche religione possa dare un senso alla nostra esistenza. Non è di questo che intendo parlare, ma di quel senso della vita che travalica le fedi.
L’universo è dominato dall’entropia, si dilata, tutto tende verso il disordine. C’è però una forza in controtendenza: la vita, appunto. La vita tende a organizzare, a sistematizzare, a creare organismi sempre più complessi e specializzati. Si evolve. Si adatta per raggiungere ogni angolo della Terra.
Solo della Terra? Non credo. L’esplorazione spaziale ci sta mostrando che moltissime stelle (forse è la norma) dispongono di sistemi planetari più o meno complessi e tra questi non mancano pianeti con dimensioni e caratteristiche generali simili a quelle della Terra. C’è vita su di essi? Non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai, perché sono troppo lontani.
Sappiamo però cosa faccia la vita sulla Terra: muta. Organismi semplici si trasformano in altri più complessi in grado di affrontare nuovi ambienti e situazioni via via più ostili. Dal mare la vita si è estesa alla terraferma e al cielo. Si è adattata ai climi più caldi e a quelli più rigidi, alle profondità marine e alle vette delle montagne e persino nei deserti ce ne sono tracce.
A un certo punto, piuttosto recentemente in termini geologici, è comparsa una specie tecnologica, una specie capace di manipolare l’ambiente, di costruire strumenti per vivere in habitat diversi. Questa specie somiglia a un cancro, perché arriva ovunque nell’ecosistema e lo devasta, lo stravolge. Per causa di questa nuova specie, secondo la Lista Rossa delle Nazioni Unite ogni ora si estinguono tre specie animali o vegetali! Tre all’ora! Non tre animali, ma tre intere specie! Come è possibile una simile devastazione della biodiversità? Se è vero che la vita tende a differenziarsi e a propagarsi, come può essere che si sia sviluppato questo cancro che infetta l’intero ecosistema planetario? Come può essere che la natura non l’abbia già eliminato? Noi umani siamo davvero solo la rovina del nostro pianeta, siamo solo una piaga devastante, nata per portare morte e distruzione tra tutte le altre specie e persino all’interno della nostra?
Non vorrei crederlo. Non voglio crederlo. Non lo credo. Vorrei, piuttosto, credere che, pur non essendoci alcun Destino verso cui tendiamo, pur non essendoci alcun Ordine Superiore, pur non essendoci nessuna Volontà che ci guida, l’umanità abbia un senso, biologicamente parlando. Voglio credere che questo senso sia proprio nella sua caratteristica più distruttiva: la capacità tecnologica.
Ebbene, l’umanità è stata la sola specie ad aver lasciato la Terra! Siamo la sola specie a essersi allontanata dal mondo in cui è nata (salvo credere ai microrganismi che forse girano per l’universo addormentati all’interno di meteore, comete e meteoriti). Siamo la sola specie a essere scesa su un altro corpo celeste, la Luna e, presto, scenderemo anche su un altro pianeta, superando difficoltà tecniche che nessun’altra specie terrestre, per quanto intelligente potrebbe superare. Perché questo è importante? Questo non è solo importante, questo è importantissimo non solo per l’umanità ma per l’intera vita nata sulla Terra, perché per la prima volta la potremo portare su un altro pianeta, arido, brullo e inospitale, e trasformarlo, come solo l’uomo sa fare, in qualcosa di diverso. Marte forse non diventerà mai un paradiso per l’uomo, ma un giorno potrebbe diventare un mondo in cui nuove forme di vita potranno svilupparsi. E questo sarà solo un primo passo. Nel sistema solare ci sono altri corpi, grandi satelliti, che potrebbero avere elementi in grado di consentire la vita. Se la vita non si è sviluppata (e questo dobbiamo ancora verificarlo) possiamo portarla anche in questi spazi inospitali, in questi corpi in cui la scintilla della vita non ha avuto la forza di sprigionarsi da sola, ma dove, con l’aiuto della tecnologia, potrebbe comunque attecchire. Per ora limitiamoci a pensare al sistema solare. Le stelle sono troppo lontane. All’irraggiungibile velocità della luce distano anni, secoli e millenni da noi. Un giorno forse, forte delle esperienze nel nostro sistema, potremo costruire alcune grandi arche, con migliaia di creature a bordo, e lanciarle verso l’ignoto. Ora pensiamo alla terraformazione del nostro sistema solare. Terraformare significa rendere la vita possibile in mondi diversi dal nostro.
La genetica, assieme all’esplorazione spaziale, è, infatti, l’altro grande “dovere” dell’umanità. Sarà grazie alla genetica, io spero, che potremo riuscire a creare nuove razze in grado di adattarsi alla vita su Marte o altrove. L’umanità magari sarà costretta a vivere in calotte protette con micro-habitat, ma sul suolo marziano nuove piante e nuovi microrganismi potranno crescere e, tra le altre cose, persino trasformarsi in nuove forme di cibo per quest’uomo sempre affamato.
Per questo è importante sapere se su Marte c’è acqua. Per questo sono importanti le recenti notizie giunte dal pianeta rosso che ne mostrano tracce. Perché l’acqua è alla base della vita come la conosciamo. Perché se ci sarà acqua non dovremo portarcela dietro dalla terra e non dovremo sintetizzarla in loco. Perché se ci sarà acqua sarà più facile cominciare una nuova esistenza lassù. Perché se ci sarà acqua, potremmo persino scoprire altre forme di vita. Microrganismi, magari, ma formatisi in modo diverso. Magari non basati sul carbonio, magari con strutture impensabili. Se ci sarà un simile microrganismo, potremmo capire molto, moltissimo di noi, della vita e dell’universo.
Colonizzare Marte è un dovere morale della nostra specie, ma anche un istinto insopprimibile. Dobbiamo andare. Dobbiamo partire verso il cielo e le stelle, perché questo è scritto nel nostro DNA, perché questo è l’impulso della vita: crescete e moltiplicatevi.
E sulla Terra non c’è più posto.
C’è, infine, una terza morale sia nel romanzo, sia nel film: la solidarietà vince.
Nonostante i costi proibitivi, gli americani fanno tutto il possibile per salvare il loro astronauta. Persino i cinesi rinunciano ai propri segreti (anche se avranno un tornaconto, più evidente nel romanzo che nel film) per aiutarli quando stanno per fallire. I compagni di Mark rischiano le proprie vite per tornare a salvarlo, prolungando di quasi due anni una missione già lunga e non programmata per durare tanto, con tutti i rischi e i problemi del caso.
È, insomma, una storia carica di fiducia verso un’umanità pronta a collaborare e sacrificarsi per salvare anche solo una singola vita. Alcuni (soprattutto i compagni di missione) lo fanno per vera solidarietà, altri per dare impulso al progetto spaziale o per altri interessi, ma nel complesso c’è grande positività, materia che stava diventando rara sia in letteratura, sia nel cinema, soprattutto fantascientifico (con tante distopie in giro), sia nel sentire comune.
Sarà Marte il nuovo sogno americano? Sarà il sogno americano dell’uomo di ingegno e perseveranza che tutto può il nuovo sogno dell’umanità?
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