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GIALLO PER ARCHI E TURCO

Leggendo in rete a proposito di “Concerto per archi e canguro” di Jonathan Lethem (New York, 19/02/1964) mi ero fatto l’idea che fosse una storia surreale. Come poteva non esserlo un romanzo in cui i personaggi, oltre agli umani, sono “animali evoluti” che camminano su due zampe, parlano e vestono come persone? Il problema è che se al posto di canguro, pecora, coniglio, gatto e cane l’autore avesse scritto, per esempio, turco, francese, italiano, belga e russo, la storia sarebbe cambiata ben poco e quello che ne sarebbe venuto fuori sarebbe stato un racconto hard-boiled, una classica detective-story, ambientata in un prossimo futuro che somiglia maledettamente al XX secolo americano, salvo alcune piccole trovate come la “vita a punti”, una scheda “karma” da cui vengono scalati i punti se ti comporti male, tipo patente a punti. Se rimani senza, ti congelano, che non è proprio morire ma una sorta di prigione, da cui dopo aver scontato un certo numero di anni, si esce. Certo chiamarlo “Concerto per archi e turco” avrebbe fatto meno effetto.

So bene di non amare gialli e detective story, anche se ogni tanto ne leggo qualcuno, giusto per confermare l’idea. Questa volta la scelta però è stata del tutto involontaria. Dal momento in cui ho cominciato a leggere la storia sostituendo ai nomi delle razze quello di alcune nazionalità, ne è venuto fuori un giallo, pieno di gente che si droga con miscele fantasiose di diverse sostanze, ciascuna con specifiche proprietà.

Jonathan Lethem

Più che la presenza di animali parlanti, che abbiamo visto in tanto fantasy, da “Le cronache di Narnia” a la saga di Jacopo Flammer (solo per citarne due agli antipodi della fama), quello che rende originale questo giallo sono proprio le droghe. Ognuna ha effetti diversi, ma ce n’è in particolare una che ti svuota il cervello dai ricordi e questo ha interessanti implicazioni sia come ambientazione sociologica, sia come sviluppo della trama.

C’è poi la faccenda delle “testoline” che avrebbero sostituito i bambini e le macchine della memoria che aiutano chi abusa di Dimenticol.

Per il resto, come dicevo, siamo davvero dalle parti del classico giallo. Le implicazioni fantastiche possono far pensare al ciclo dei Robot di Isaac Asimov e alle indagini di Elijah Baley, sostituendo alle tre leggi della robotica le proprietà delle droghe e agli automi gli animali.

Se non amate le detective story, però, questo romanzo potete anche lasciarlo stare.

* * * *

 

Vorrei approfittare di questa recensione, per una prima, piccola riflessione del tutto generale sulle detective story, per capire cosa c’è che mi annoia nel giallo.

Direi che la prima cosa che mi disturba sono gli interrogatori (nel romanzo di Jonathan Lethem non sono troppo presenti, ma se penso, tra le ultime letture, a “Il richiamo del cuculo” di Galbraith, alias Rowling, questo è certo un aspetto che non ho gradito). Perché non mi piacciono gli interrogatori? Perché vanno contro la semplice regola “mostra, non raccontare”. Se i fatti mi vengono narrati da un personaggio, sotto interrogatorio o meno, non li sto vedendo e il mio interesse e la mia attenzione sono mediati.

La seconda cosa che non amo dei gialli è l’argomento: in un giornale difficilmente leggo i fatti di cronaca. La cronaca quotidiana non mi interessa. Nei quotidiani leggo gli editoriali, gli articoli di opinione, i grandi fatti internazionali, la politica e l’economia. Che un tipo sia stato ucciso non mi riguarda. Deve essere l’autore a creare l’empatia e a farmi provare interesse per il morto, ma un cadavere difficilmente suscita simpatia. Per questo preferisco i thriller. Magari ci scappa comunque il morto, ma nel frattempo viviamo con lui, soffriamo con lui, abbiamo paura con lui. Nel thriller c’è molta empatia. Nella detective story potremmo provare simpatia per l’investigatore, ma questo non è mai davvero il protagonista. Il protagonista è assente. Non c’è più. È la vittima. Perché dovrei legarmi a un personaggio secondario come l’investigatore? Oltretutto, di norma, l’investigatore non dovrebbe essere direttamente coinvolto con il morto. Ne consegue che della vittima non gliene frega nulla. Gli interessa risolvere il caso, ma questo è come un gioco. Non c’è legame tra i due. Non c’è vero coinvolgimento, a meno che l’autore non sia così bravo da crearlo comunque. Non dico che sia impossibile essere coinvolti, ma non è automatico, occorre lavorarci. Qualche autore si inventa questi legami. Forse è questo il segreto del loro successo, ma, soprattutto nelle serie, questo non sempre è possibile. Un detective può essere legato a una vittima o due, non certo a tutte, se affronta decine di casi.

I gialli (con l’eccezione rara di storie come “Concerto per archi e canguro” o le indagini asimoviane) di solito hanno ambientazioni realistiche. Considerano la verosimiglianza uno dei loro pregi. Più una storia è “credibile”, più sarà apprezzata dagli amanti del genere.

Questo è però l’opposto di quello che cerco in un romanzo. Il romanzo ideale, per me, deve saper descrivere la realtà nel modo più fantasioso e inconsueto possibile.

Per questo posso anche leggere un giallo se è ambientato in contesti non comuni, magari in altre epoche storiche, passate o future. Se leggo, non voglio il quotidiano (sia esso cronaca o vita), ma l’avventura, il pathos, le situazioni estreme.

Eppure i gialli hanno molto successo. Perché? Forse per la ragione inversa per cui non amo i fatti di cronaca: tanta gente ha un interesse, che definirei morboso, per i delitti, le beghe familiari, le liti. C’è poi il gusto di scoprire l’assassino o il meccanismo del delitto, il suo movente. È un gusto da giocatori, da amanti delle parole crociate, dei rebus, dei misteri. Insomma, amore per il ragionamento logico e, nel contempo, per gli aspetti più torbidi della mente umana. La logica preferisco, però, vederla applicata alla fantascienza o al romanzo psicologico.

Non dico che questi due aspetti non mi attraggano. In altri contesti, li posso apprezzare, ma nel giallo non riescono a compensare la presenza delle altre componenti di cui dicevo.

Mi riprometto di sviluppare ancora queste riflessioni, perché mi pare importante capire i punti di forza e debolezza dei generi letterari.

CAPIRE IL TEMPO GUARDANDO UN FILM AL RALLENTATORE

“24 Hour Psycho” una videoinstallazione di Douglas Gordon, è stata ospitata per la prima volta nel 1993 a Glascow e a Berlino, ci dice Don De Lillo nei Ringraziamenti in fondo al suo volume “Punto Omega” e fa bene a ringraziarlo perché gran parte del fascino di questa lettura risiede nell’essere, in buona parte, ambientato nelle stanze di un museo in cui viene proiettato il film “Psycho” di Alfred Hitchcock, rallentato fino a farlo durare 24 ore. Andrebbe ringraziato anche il regista della pellicola originale, a dir il vero.

Il romanzo dall’esile trama si snoda soprattutto attorno ad alcuni incontri che avvengono in questa sala. Ci sono anche altri momenti, ambientati altrove, tra cui alcune osservazioni su uno spettacolo no-stop di Jerry Lewis, l’incontro tra il vecchio intellettuale e il giovane regista e la scomparsa della figlia del primo.

La scrittura di De Lillo è spesso frammentata, con voli pindarici da un tema all’altro che più che disorientare, annoiano.

Ne vorrei dare qui un esempio, con un brano che dovrebbe avere la sua importanza, se non altro perché introduce il concetto di Punto Omega del titolo:

– Ero uno studente. Pranzavo e studiavo. Studiavo l’opera di Teilhard de Chardin, – disse. – Andò in Cina, un prete fuorilegge, Cina, Mongolia, in cerca di ossa. Pranzavo sui libri aperti. Non avevo bisogno del vassoio. I vassoi restavano impilati all’inizio della fila nella mensa dell’università. Lui diceva che il pensiero umano è vivo, circola. E la sfera del pensiero umano collettivo, ecco, quella si sta avvicinando al suo periodo finale, gli ultimi bagliori. Un tempo esisteva il cammello nordamericano. Che fine ha fatto?

Stavo quasi per dire: E in Arabia Saudita. Ma mi limitai a ripassargli la bottiglia.

– Tu parlavi con loro. Si trattava di riunioni del gruppo normativo? Chi c’era? – chiesi. – Pezzi grossi dei ministeri? Gente dell’esercito?

– C’era chi c’era. Ecco chi c’era.

Mi piacque questa risposta. Diceva tutto. Più ci pensavo più tutto mi appariva chiaro.

Disse: – La materia. Tutti gli stadi, dal livello subatomico agli atomi alle molecole inorganiche. Noi ci espandiamo, corriamo verso l’esterno, è la natura della vita dalla nascita della cellula in poi. La cellula ha rappresentato una rivoluzione. Cioè, pensa. I protozoi, le piante, gli insetti, che altro?

– Non lo so.

:. – I vertebrati.

– I vertebrati, – dissi.

– E le conformazioni finali. Il serpeggiare, lo strisciare, il bipede accovacciato, l’essere cosciente, l’essere cosciente di sé. La materia bruta che diventa il pensiero umano analitico. La nostra meravigliosa complessità mentale.

Fece una pausa, bevve, fece un’altra pausa.

– Cosa siamo?

– Non lo so.

– Siamo una folla, uno sciame. Pensiamo in gruppi, viaggiamo in eserciti. Gli eserciti portano il gene dell’autodistruzione.

Una bomba non è mai abbastanza. La confusione della tecnologia, è lì che gli oracoli tramano le loro guerre. Perché adesso arriva l’introversione. Padre Teilhard lo sapeva, il punto omega. Un salto fuori dalla nostra biologia. Chieditelo. Dobbiamo essere umani per sempre? La coscienza è esaurita. Ora si ritorna alla materia inorganica. È questo che vogliamo. Vogliamo essere pietre in un campo.

Entrai a prendere del ghiaccio. Quando tornai lui stava pisciando giù dal terrazzo, in punta di piedi per impedire al flusso che affiorava di toccare la ringhiera.

Non dico che non ci sia profondità in alcuni di questi pensieri, ma non ci viene restituita. De Lillo se la tiene tutta per sé. Questo passare  veloce dalla guerra in Iraq, alla fisica, alla biologia, all’evoluzione, alla sociologia, per arrivare al Punto Omega del paleontologo e teologo Pierre Teihlard dà solo la sensazione di leggere una lista di idee, un elenco che fa persino rimpiangere gli elenchi di eroi omerici. Punto Omega è un termine coniato dallo scienziato gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin per descrivere il massimo livello di complessità e di coscienza verso il quale sembra che l’universo tenda nella sua evoluzione. Un concetto affascinante che meriterebbe un ampissimo sviluppo, ma che non trovo nel romanzo.

Cosa me ne faccio di una simile carrellata di spunti di ragionamento, se poi non li sviluppo?

Basta scriverne questo?

C’è quasi una legge matematica o fisica che non abbiamo ancora del tutto inquadrato, secondo la quale la mente trascende ogni direzione procedendo verso l’interno. Il punto omega, – disse.

e

Proseguimmo in silenzio dietro un motoscafo trainato da un pickup nero. Pensai alle sue osservazioni sulla materia e l’essere, quelle lunghe notti sul terrazzo, mezzi sbronzi, io e lui, la trascendenza, il parossismo, la fine della coscienza umana. Ora sembrava un’eco morta.

Psycho

Punto omega. Un milione di anni fa. Il punto omega si è ristretto, qui e ora, alla punta di un coltello che penetra un corpo. Tutti gli elevati temi di quell’uomo ristretti in un dolore locale, un solo corpo, li da qualche parte, o forse no.

Tutto qui?

Scopro molto di più sul Punto Omega se leggo Wikipedia!

 

La nota di copertina dice: “Un’inquieta e misteriosa meditazione sul destino di ogni uomo.

In una casa isolata nel deserto due uomini discutono della natura del tempo e del significato dell’agire umano nella storia. Discutono e aspettano.

Uno, Richard Elster, è un anziano intellettuale per niente pentito dell’appoggio che ha dato al governo nella guerra in Iraq, l’altro è un giovane regista che vorrebbe girare un documentario su di lui. L’improvvisa scomparsa della figlia di Elster li costringe a interrompere discussioni e attese e a cercare altre risposte per altre domande: che cosa è capitato alla ragazza? Scelta, fatalità oppure orrendo crimine?

L’intensità della scrittura di DeLillo al servizio di una straordinaria riflessione sull’enigma del tempo, il tempo in cui ogni momento perduto è la vita, la nuda vita.

Ebbene, sì, questa meditazione è inquieta, così inquieta che mi pare conduca a poco, se non al mistero… di se stessa.

Mi sarebbe piaciuto leggere davvero una discussione seria sulla natura del tempo, ma non ho trovato spunti su cui soffermarmi, a parte l’idea suggestiva di vedere un film rallentato e lo stimolo a rivedere il film di Hitchcock, magari anche alla sua velocità originale. Il merito però credo che qui sia più di Douglas Gordon.

Direte voi che forse avrei fatto meglio a leggere un libro di filosofia e che qui si racconta solo una storia. Quando però una storia verte soprattutto sulle riflessioni dei protagonisti, mi piacerebbe poter partecipare ai loro ragionamenti, non ricevere solo imbeccate saccenti.

Questo è il primo romanzo di DeLillo che leggo. Ne ho letto recensioni molto positive, per cui forse sono io a non averne colto lo spirito e mi riprometto di affrontare altri suoi romanzi, anche perché, nonostante le osservazioni precedenti, qualcosa di stimolante sono riuscito a trovarlo in queste pagine: di idee ce ne sono. Quello che mi piace poco e che qui siano poco sviluppate. Magari in altre opere le cose vanno diversamente. Proverò.

IL LUPO, LA SCIMMIA E IL MISANTROPO

Se prendo un filosofo e gli metto accanto un lupo, cosa ottengo? Se il filosofo si chiama Mark Rowlands, il risultato sono delle riflessioni sulle differenze tra i lupi, i canidi, gli uomini e le scimmie, ma anche riflessioni sul contratto sociale, sull’alimentazione, sulla morte, sul tempo. Queste riflessioni le potete leggere ne “Il lupo e il filosofo” che è un po’ autobiografia, un po’ diario, un po’ saggio filosofico e un po’, in fondo, romanzo.

Il lupo e il filosofo” parla dell’incontro tra Mark Rowlands e un cucciolo di lupo, cui darà nome Brenin (“Re” in gallese) e con cui passerà una decina di anni, tra Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda e Francia.

Ho appena manifestato le mie perplessità sulla mescolanza di autobiografia e consigli di scrittura in merito a “On writing” di Stephen King. Come per quel volume, anche per questo, sento come stonata quest’unione, anche se entrambi i libri sono leggibilissimi, piacevoli e scorrevoli.

Nel caso di Rowlands le parti descrittive della sua vita con il lupo e alcuni cani sono da vedere come una sorta di romanzo e come tali si leggono volentieri, anche se non si è appassionati di animali, grazie a una scrittura vivace ed efficace, senza sbavature. Ciò che rende questo libro importante e degno di esser letto non sono però le passeggiate di Rowlands con i suoi animali o i tentativi di non farsi distruggere casa da loro, ma le riflessioni filosofiche che ne derivano.

Importante, mi pare l’approccio di Rowlands, che accomuna l’uomo alle altre scimmie e il lupo ai canidi Rowlands sembra, peraltro, quasi vedere maggiori differenze tra un lupo e un cane, che tra un uomo e un altro primate! Dalle differenze di approccio tra lupi e scimmie derivano numerose considerazioni interessanti e di un certo valore.

Riporto di seguito un paio di citazioni che meritano delle riflessioni e da cui derivano molte delle considerazioni successive dell’autore:

Brenin e Mark Rowland

“La tendenza a vedere il mondo e coloro che ci vivono in termini di costi – benefici, a pensare alla vita, e a ciò che di importante vi accade, come a qualcosa che può essere quantificato e calcolato è possibile solo perché esistono le scimmie.”

e

“La scimmia è la tendenza a comprendere il mondo in termini strumentali: il valore di ogni cosa è in funzione di ciò che quella cosa può fare per la scimmia. La scimmia è la tendenza a vedere la vita come un processo di valutazione delle possibilità e di calcolo delle probabilità, per poi sfruttare i risultati di quei calcoli a proprio favore. È la tendenza a vedere il mondo come una serie di risorse, di cose da usare per i propri scopi.”

Quante cose si capiscono dell’umanità solo leggendo queste due frasi! Quanto siamo simili agli altri primati! Quanto la nostra evoluzione è già tutta scritta nella mentalità delle altre scimmie!

Come è falso immaginare il lupo come simbolo del male, se è invece la scimmia quella sempre pronta a mentire, tradire e complottare, come ci spiega l’autore. Quanto sono più onesti e fedeli lupi e cani!

Che dire poi della diversa concezione del tempo tra umani e lupi (e la maggior parte degli animali), concetto connesso al precedente (per sapere in che modo non avete che da leggere il libro): per noi il tempo è lineare, per il lupo circolare, dice Rowlands, nel senso che lupi e cani amano la ritualità del tempo e non si stufano mai del ripetersi di certi gesti o momenti, mentre l’uomo vive ogni attimo in funzione del passato e del futuro, non riuscendo così a godere quasi mai appieno dell’attimo presente, sempre raffrontato e filtrato attraverso le esperienze e le aspettative. L’uomo non ama la ripetitività ma corre in avanti lungo la freccia del tempo.

Da questo deriva anche una diversa concezione della morte. Rowlands disquisisce con dettaglio sia sul tempo che sulla morte che su altri temi. Cercherò qui di semplificare dicendo che la morte per l’uomo è più dolorosa che per il lupo, perché si carica delle aspettative sul futuro (che vengono perse morendo) e dell’investimento sul futuro fatto nel passato (che risulta vano).

Ci sono animali che si preparano al futuro, ma l’uomo lo fa in massimo grado, dedicando lunghi anni alla propria formazione, a prepararsi un benessere economico, tutte cose che andranno perdute nel caso di una morte statisticamente anticipata.

Cos’è allora la felicità e quale animale è il più felice? Cosa determina la felicità in genere e per l’uomo? Ne derivano considerazioni sulla prevalenza dei concetti di avere e essere.

Dalle considerazioni sul contratto sociale, criticando Hobbes, Rowlands arriva a immaginarne uno che includa anche tutti gli animali, in una comunanza spirituale, una fratellanza allargata, facendone derivare il corollario dell’immoralità di un’alimentazione carnivora.

Considerazioni tutte molto concrete, rese ancora più realistiche dalla descrizione di come siano nate semplicemente da riflessioni sulla vita (complicata) con un lupo in mezzo a un ambiente civilizzato. Vita che porterà Rowlands a isolarsi, accentuando un carattere che appare piuttosto da misantropo (come amare un simile uomo egoista, mentitore e crudele, del resto?), per la difficoltà di far accettare alla gente la presenza di un lupo (che si porta persino in classe quando fa lezione), per il cui camuffamento non sempre basta dichiarare che si tratta di una razza esotica di cane (un malamute).

Abbinamento questo, tra vita reale e riflessione filosofica, che rende la scrittura de “Il lupo e il filosofo” particolarmente accessibile e adatta a un pubblico eterogeneo, ben diverso da quello degli addetti ai lavori, pur esprimendo pensieri di una certa profondità, acutezza e originalità, almeno agli occhi di un profano della filosofia come me.

 

SULLA SCRITTURA E LA VITA DEL RE

Quella che segue, più che una recensione, sono alcune riflessioni e appunti sui consigli di lettura inseriti nel volume di quello che considero uno dei migliori scrittori viventi, forse il migliore. Parlo di quello strano testo che è un misto di autobiografia e manuale di scrittura scritto da Stephen King e intitolato, anche nella versione italiana “On writing”. L’illuminante sotto titolo è “Autobiografia di un mestiere”. King è uno di quei rari fortunati che di mestiere fa lo scrittore e che guadagna abbastanza da non doverne fare altri, a parte, magari sceneggiare qualcuno dei numerosi film tratti dai suoi best-seller mondiali.

 

La prima parte di “On writing” è una sorta di autobiografia di Stephen King, particolarmente concentrata sugli anni dell’infanzia e, in secondo luogo, sulle prime esperienze di scrittura.

All’inizio non aveva fatto caso al sottotitolo del libro “Autobiografia di un mestiere”, per cui questa parte mi aveva lasciato un po’ interdetto, aspettandomi qualcosa di più simile a un manuale di scrittura. In effetti, disapprovo l’idea di mescolare due oggetti tanto diversi come un autobiografia e un manuale, anche se entrambi possono essere utili allo scopo di capire come scrive un grande autore. Nelle prime pagine, dunque, troviamo ben pochi suggerimenti diretti di scrittura, a parte forse i seguenti:Stephen King in 1952, 3 years after his father walked out on his family.

 

Non esiste un Deposito delle Idee, non c’è una Centrale delle Storie, un’Isola dei Best-Seller sepolti; le idee per un buon racconto spuntano a quel che sembra letteralmente dal nulla, ti piombano addosso di punto in bianco: due pensieri che prima erano del tutto indipendenti tutto a un tratto trovano un punto d’incontro e si concretizzano in qualcosa di assolutamente nuovo. Il tuo compito non è trovare queste idee ma riconoscerle quando si manifestano.

Altrove King scrive che le storie sono sepolte e che tocca a noi, come archeologi tirarle fuori con cura, evitando di rovinarle.

 

Il giorno in cui andai da lui a consegnare i miei primi due articoli, Gould mi disse qualcos’altro di molto interessante: scrivi con la porta chiusa, riscrivi con la porta aperta. In altre parole, ciò che scrivi comincia come una cosa tutta tua, ma poi deve uscire. Dopo che hai ben capito che storia è e la scrivi nella maniera giusta, o comunque al meglio di cui sei capace, appartiene a chiunque abbia voglia di leggerla. O criticarla.”

Questo è un concetto che ripete più volte nel volume: la prima stesura si fa in solitudine, ma poi occorre accettare le critiche altrui e prenderne atto, adattando la nostra creatura.

La sensazione che ho avuto nel leggere queste prime pagine è stata che King volesse dirci: la tua scrittura dipende dalla tua vita. Credo che questo sia in parte vero: quel che scriviamo, anche se non è per nulla autobiografico, in qualche modo riflette quel che siamo e noi siamo così perché abbiamo vissuto in un certo modo, in un certo posto e in un certo momento.

Ne deriva la considerazione scoraggiante “non potrò mai diventare un grande scrittore come Stephen King, perché la mia vita è stata molto più semplice e meno drammatica della sua”. È però un impressione errata. Provate a riscrivere la vostra infanzia allo stesso modo di King e vedrete che contiene non meno emozioni importanti della sua.

Un’altra cosa che emerge dall’autobiografia di King è il suo amore infantile per le storie horror. Non per nulla è noto come il Re del Brivido, anche se questa definizione è ingenerosa, essendo molto di più.

Ne deriva allora che da adulti scriveremo storie simili a quelle che amavamo da bambini?

Pensando a me stesso, la risposta parrebbe affermativa: da bambino amavo le storie di avventura (Salgari, Verne, London) e da adulto scrivo romanzi che hanno spesso una forte componente avventurosa (solo una componente, però, eh!). Da ragazzino amavo la fantascienza e da adulto scrivo storie fantastiche ma razionali (come dovrebbe essere la buona fantascienza).

Il corollario potrebbe essere che chi non amava leggere da bambino, non potrà mai diventare uno scrittore. Forse è così, ma penso che l’amore per la lettura possa essere sostituito dall’amore per qualche altro genere di storie, come quelle dei film.

Insomma, l’amore per la scrittura è amore per il racconto e l’amore per il racconto nasce con noi.

Aver messo questa parte all’inizio dovrebbe servire a far capire a chi legge che se non ha questo amore per le storie, è inutile che vada avanti con il libro, che nella seconda parte si addentra nelle tecniche di scrittura, pur non essendo mai davvero troppo tecnico.

 

La prima lezione ci fa capire quanto sia importante disporre, nella propria testa, di un buon vocabolario, ma anche e soprattutto come il più grande errore sia quello di fingere di disporre di un vocabolario più grande di quello che abbiamo: il lettore se ne accorgerà subito e tutto diverrà artificiale.

Tra le parole da cui diffidare, come ogni buon maestro di scrittura, King mette gli avverbi. Lui come altri ci dice: evitate gli avverbi. Se avete costruito bene la storia, sono inutili. Quel che dicono dovrebbe esser già stato detto dal contesto. Se servono, aggiungo io, interroghiamoci su quel che abbiamo scritto prima, che forse non è così buono. Concetto su cui devo ancora riflettere, perché amo il barocchismo degli avverbi, anche se credo di abusarne meno di quanto vorrei.

Un’altra lezione è sulla grammatica. Dobbiamo conoscerla, perbacco! Si può anche violare e a volte è necessario farlo (se ho un personaggio ignorante mica posso farlo parlare come un professore!), ma occorre conoscerla. Se la conosciamo poco, vale la regola del vocabolario: usiamo quella che conosciamo. Non lo dice King, ma lo dico io: se non sappiamo scrivere in modo complesso, scriviamo con periodi semplici.

A proposito, King ci parla anche dei paragrafi, che per lui sono il cuore della narrazione, più delle frasi o dei periodi. Devono avere una loro unitarietà e coerenza. Un paragrafo può durare una riga, come molte pagine, ma deve avere una sua vita.

King ci spiega anche che crede poco nella trama. Questo lì per lì mi ha un po’ spiazzato, basti pensare agli “ingredienti magici” della scrittura come li avevo individuati nell’analisi dei romanzi della Rowling, un’altra delle migliori autrici viventi e che poi ho utilizzato per esaminare la scrittura di molti altri autori, compreso lo stesso King, che ho raffrontato persino con la Rowling stessa. Ho sempre pensato che un romanzo senza trama parta già male, poi ho capito cosa intendesse: la trama viene su da sola. L’errore è la trama precostituita. King dice che le storie si devono scavar fuori dal terreno. Vengono fuori un pezzo per volta. Capisco allora che ha perfettamente ragione. Anche io non scrivo mai una trama per esteso, in dettaglio, prima di cominciare. Parto da un concetto, da una scena, da un personaggio. Ci immagino sopra una direzione, più che una trama. Questa, che poi è un sinonimo di intreccio, si sviluppa da sola. Le sue varie linee si mescolano, uniscono e dividono. Magari, posso pensare di alternarle (parlare ora di un personaggio, ora di un altro e poi di entrambi assieme, per esempio), di tendere verso un finale, ma non so mai bene dove vado veramente e per quale percorso. Alla fine, però, ci sarà una trama da poter raccontare e descrivere, dico io e, aggiungo sempre io, se alla fine non avremo tirato fuori un bell’intreccio, che con le sue corde sorregga tutta la storia e i personaggi, rischieremmo di veder venir tutto giù.

Mi permetto di raccontare come è nato il mio ultimo racconto: dall’abbinamento di una frase di Mark Rowlands che parlava dell’intelligenza utilitaristica delle scimmie e dall’invito a partecipare a un concorso sul tema del futurismo. Mi è bastato mettere assieme le due parole “scimmia” e “futurismo”, rileggermi il Manifesto di Marinetti ed è nata la storia. La trama è venuta dopo, riga per riga.

A proposito dei dialoghi, King ci invita a essere naturali. Come sono difficili i dialoghi! Quando facciamo parlare qualcuno non siamo più noi a parlare, ma lui. Non è possibile che in un romanzo tutti parlino allo stesso modo, a meno che non siano personaggi tutti con la stessa origine, tipo gli alunni di una classe, i membri di una famiglia. Anche in questi gruppi così stretti, ci sono sempre differenze. Moglie e marito hanno origini diverse. Nella classe ci possono essere ragazzi di fuori città. Non è una questione di usare forme dialettali (odio il dialetto!), ma di diversi modi di usare il vocabolario e la grammatica, le forme retoriche, i cliché, le ripetizioni, le pause…

Lo stesso discorso vale per i personaggi. Per essere veri non possono essere solo delle macchiette o, peggio, non avere nessuna caratteristica. Ci vuole equilibrio tra i due estremi. Occorre caratterizzarli quando basta da non farli confondere l’uno con l’altro e, possibilmente, da crearne almeno uno o due che siano indimenticabili.

King ci dice di osservare chi ci sta intorno, che i personaggi dei libri non vengono direttamente dal mondo reale, ma ne prendono gli elementi. Non è facile però costruire un personaggio mettendo assieme le caratteristiche di persone reali, anche perché di solito sono tra loro incompatibili, come in quel gioco per bambini in cui uno disegna una testa, uno il busto e uno le gambe e poi le tre parti vengono messe assieme, creando dei mostri che di solito suscitano l’ilarità dei bambini. Di solito però non è quello l’obiettivo di un autore. Mi pare di capire che King sia più per creare ex-novo i propri personaggi, “decorandoli” magari con qualche elemento preso dalla realtà.

Nello scrivere dobbiamo sempre cercare di essere “reader-friendly”: questo credo sia un concetto fondamentale, ma di non facile applicazione Stephen King, 1967quando si vuole essere “sofisticati”. Una scrittura spontanea e immediata, però, raggiunge molto meglio il suo scopo di una arzigogolata o artificiosa. Questo non deve voler dire apparire scialbi, ma cercare di essere in sintonia con il lettore. Come ricorda King:

Io non credo che debba essere concesso a un racconto o un romanzo uscire dalla porta del vostro studio o della vostra stanza di scrittura se non siete convinti che sia ragionevolmente reader-friendly. Non potete soddisfare sempre tutti i lettori; non potete soddisfare sempre nemmeno alcuni dei vostri lettori, ma dovete sforzarvi in ogni modo di soddisfare almeno alcuni lettori qualche volta. Credo sia stato William Shakespeare a dirlo.

 

King ci parla anche dell’importanza degli elementi “decorativi” del romanzo, come il simbolismo. Sul simbolismo non possiamo costruire la nostra storia, ma potrebbe esser questo a dargli un diverso spessore. L’autore cita il simbolismo del sangue nel suo “Carrie”. Io penso, invece, ai numerosi simboli nascosti nel mio “Il Colombo divergente”. Per aiutare il lettore a scoprirli ho inserito persino delle parti in corsivo, che compaiono nel mezzo della narrazione e che forniscono la chiave per scoprire i simboli nascosti, ma quasi nessun lettore che mi ha recensito mi pare essersene accorto! In un certo senso l’obiettivo era quasi questo: il simbolismo doveva arricchire la trama, ma non invaderla. Diciamo che i simboli servono soprattutto all’autore e a pochi lettori, dato che gli altri leggono senza badarvi. Difficilmente un testo viene esaminato come fosse la “Divina Commedia”. Non certo quello di un autore sconosciuto o presunto commerciale. Dunque, il simbolismo serve soprattutto a lui, all’autore. Serve all’autore, perché per applicarli porta la storia in nuove direzioni, in cui non si sarebbe orientato senza la presenza dei simboli. Come ogni elemento che aggiungiamo a una storia, ci apre nuove porte, che possiamo decidere (come lettori e come autori) di aprire o meno.

Il simbolismo non è solo un elemento decorativo, dunque, ma è una porta per nuovi mondi, una chiave per una diversa comprensione, uno stimolo intellettuale.

Il più delle volte scorgo la possibilità di aggiungere i particolari estetici e i tocchi ornamentali quando la narrazione in sé è pressoché finita.scrive King. Anche in questo il mio modo di scrivere somiglia al suo (avrei voluto aggiungere “maledettamente”, ma oggi voglio essere diligente e eviterò l’avverbio). Non so lui, ma io scrivo per stratificazioni successive. A volte mi limito ad aggiungere solo frasi qua e là, altrove volte sono proprio elementi che più che decorativi sono unificanti: decorazioni che fungono da richiamo, che creano non una struttura, ma una cornice per la storia, elementi che ritornano a dare un ritmo, nuovi personaggi che mutano il senso della storia. Per “Il Colombo divergente” cambiai addirittura la persona in cui era scritto (dalla terza alla seconda singolare) e il tempo. L’ultimo racconto che ho scritto, di cui parlavo prima, nasce di 10.000 caratteri e diventa alla fine di 20.000. Nella prima stesura il secondo personaggio è appena accennato, nella seconda lo delineo maggiormente. Nella prima ci sono meno allusioni al futurismo, meno dettagli sulla mentalità delle scimmie.

King ci parla poi dei retroscena. Possono essere utili per presentare una situazione, un personaggio, ma tendono a essere divagazioni e come tali ci portano lontano dalla storia. In linea di massima è bene evitarli. Mi vengono in mente i romanzi di Hugo, grande e gradevole autore, ma che aveva il viziaccio di scrivere interi lunghissimi capitoli su cose che non c’entravano nulla con la trama principale, tipo la descrizione delle fogne parigine, la vita conventuale delle suore, quella di Bonaparte, l’argot, come ne “I miserabili”. Tutti temi che hanno ben poco a che fare con la storia principale, sebbene interessanti, ben documentati e ben scritti. Bisogna rifuggire dalla paura di essere semplici. Alcuni autori sembrano nascondersi dietro le loro digressioni, per mettersi in mostra e dire “guardate come sono colto, quante cose so. Non scrivo mica solo storielle”. Però sbagliano (e forse sono colpevole anche io, soprattutto nei miei primi romanzi), perché non è quello che chiede il lettore.

Una parte importante del volume è dedicata ai momenti della scrittura e riscrittura. Come detto nella prima parte, la prima stesura, per King, deve avvenire tutta d’un fiato, a porte chiuse, senza che nessuno interferisca, la revisione deve invece avvenire a porte aperte, accogliendo i consigli di alcuni lettori fidati, amici per King, mentre io preferisco affidarmi ai lettori impersonali della rete, più liberi di “aggredire” le mie opere, senza paura di offendermi, a volte persino nascosti dietro nickname o il totale anonimato. Alcuni autori non accettano le critiche esterne e credono che adattare la propria opera a tali suggerimenti sia come prostituirsi. Io concordo con King nel dire che autori così farebbero bene a lasciare i propri libri nel cassetto. Se non si accetta i commenti, buoni o cattivi, del pubblico, tanto vale non pubblicare. Le critiche se non arrivano prima della pubblicazione, arriveranno dopo e sarà troppo tarsi per porre rimedio. King ritiene che 6 o 7 lettori siano sufficienti. Io ne preferisco alcune decine, ma anche perché i lettori del web sono meno attenti degli amici e quindi occorre compensare, anche se poi, di solito tra 50 lettori distratti, di solito ne trovo sempre 4 o 5 che contribuiscono in modo importante.

King di solito fa una prima bozza, una seconda bozza e revisioni successive. Dice che la seconda bozza dovrebbe essere del 10% più corta della prima.

Tagliare i ragionamenti che dovrebbe fare il lettore, non l’autore. Tagliare l’elaborazione dell’ovvio e i retroscena. Gli elementi importanti nello sviluppo della trama, vanno anticipati. Tagliare gli avverbi.

King suggerisce di scrivere per un lettore ideale. Lui scrive per la moglie. Ritiene importane immaginarne la reazione durante la lettura. È una tecnica che non ho mai sperimentato. Personalmente scrivo per me e riscrivo e revisiono per un pubblico generico. Solo i romanzi per ragazzi, in particolare il primo con protagonista Jacopo Flammer li avevo scritti appositamente per mia figlia, creando personaggi della sua età allora e immaginando le cose che le piacevano, ma anche quelle che piacevano a me alla sua età.

C’è anche una parte sui consigli per trovare un editore e un agente. In sostanza, è bene conoscere il mercato e contattare solo soggetti potenzialmente interessati alla nostra produzione. Per King è importante avere un agente. Personalmente ho considerato l’ipotesi, ma non ne trovavo i vantaggi, dato che i migliori sono altrettanto irraggiungibili delle migliori case editrici e i peggiori possono trovarmi un editore peggio di come potrei farlo da me. In America forse, poi, sarà utile fare indagini di mercato per trovare un editore. Da noi la situazione mi pare piuttosto semplice: ci sono 5 o 6 editori con cui può essere interessante pubblicare, anche se pubblicare con loro non è una garanzia di successo, poi ci sono una ventina circa di editori medio grandi con cui può valer la pena fare un contratto e poi una miriade di piccoli editori che non sono in grado di dare alcun contributo a quel che scriviamo in termini di editing, promozione e distribuzione. Se ci si sa muovere e se non si riesce a farsi pubblicare dai migliori editori, tanto vale autopubblicarsi. King parla di pubblicare sulle riviste ma non sono convinto che in Italia sia utile per farsi conoscere nell’ambiente. In Italia è una lunga strada in cui solo pochissimi arrivano in fondo!

La Regola Principe per King (su cui concordo in pieno per scrivere bene è: “scrivere molto e leggere molto”. Come si può pretendere di scrivere se non si legge e come si può pretendere di partecipare a una gara, se non ci si è allenati? Che cosa legge King? “Tutto quello che mi capita sottomano”. La mia risposta non sarebbe molto diversa: di tutto. Comunque King fa anche un elenco piuttosto lungo (considerato che ne ho letti ben pochi, potrebbe impegnarmi non poco leggere quelli che mi mancano). Quel che leggo io lo potete vedere leggendo la mia Libreria su aNobii o il mio blog.

Un’altra regola importante è: “L’onestà nel raccontare compensa moltissimi difetti stilistici mentre mentire è il peccato irreparabile in assoluto”.

 

Il finale, come l’inizio del volume, viene nuovamente “invaso” dall’autobiografia di King, che ci parla dell’allora recente incidente in cui ha rischiato di perdere la vita (fu investito da un minivan blu), portandogli grande paura e dolore. La vicenda viene narrata in modo molto simile anche nella saga della Torre Nera, quando il protagonista Roland incontra il proprio autore. La (troppo lunga) narrazione qui credo serva per dirci che anche dopo le peggiori sciagure, ci si può (deve) rimettere a scrivere, perché questo serve a “rendere la mia esistenza un luogo più luminoso e più piacevole”. “Scrivere è tirarsi su, mettersi a posto e stare bene”. Questa è una visione della scrittura come terapia quotidiana che non condivido, anche se capisco che per molti è così. Mi stupisce possa esserlo anche per un grande autore come King, ma chiaramente ci sono diversi livelli della cosa. In un certo senso, per tutti noi che amiamo scrivere la scrittura serve a “Darsi felicità” come scrive King. “Scrivere è magia, è acqua della vita come qualsiasi altra attività creativa. L’acqua è gratuita. Dunque bevete. Bevete e dissetatevi.

Se la prima parte dell’autobiografia poteva avere un qualche senso, questa ripresa mi pare del tutto superflua. Se King voleva scrivere la propria autobiografia non aveva che da farlo e avrebbe certo trovato moltissimi lettori interessati a farlo, senza mascherarla con consigli di scrittura, dato che la sua penna può scrivere mirabilmente anche di questo. Non c’aveva appena messo in guardia dalle digressioni? Sarebbe stato meglio fare due volumi: “On writing” e “Autobiografia di un mestiere”.

 

ARRIVEDERCI, GRAZIANO

Graziano Braschi

Graziano Braschi ieri (martedì 13 ottobre 2015) è mancato, per un’emorragia cerebrale. Lo avevo incontrato solo poche volte, ma lo conoscevo per i tanti progetti realizzati e ancora da realizzare e per tutto il suo entusiasmo nel realizzarli.

Mi dicono che non ha sofferto e non si è reso conto che ci stava lasciando.

 

Raccolgo di seguito alcune notizie che ho letto su di lui in rete (i link all’inizio di ogni parte rimandano agli articoli originali, che ho brutalmente copiato):

Fu consigliere comunale per il PCI dal 1975 al 1978. Nel 1971 aveva fondato insieme a Berlinghiero Buonarroti e Paolo Della Bella la rivista satirica ‘Ca Balà’, che partita da Compiobbi (Fiesole) ha assunto carattere internazionale e successivamente è stato scrittore, disegnatore e collaboratore di varie riviste satiriche e umoristiche per approdare negli ultimi anni al giallo. Come autore aveva pubblicato anche sotto lo pseudonimo di Franco Valleri. Suoi disegni satirici e scritti umoristici, oltre che su “Ca Balà”, sono apparsi su “Il Male”, “Carte segrete”, “Humor Graphic” e nel volume antologico “Humour mon amour” (1982).

Graziano Braschi

Ha curato l’antologia di racconti brevi polizieschi “Un breve brivido (1987), contribuendo anche con alcuni suoi racconti. Ha fatto parte del comitato scientifico del mensile “Febbre Gialla”. Ha collaborato a “Nosferatu”, mensile di cinema horror e fantastico, e a “Torpedo”, rivista di materiali polizieschi.
Ha collaborato alle pagine culturali de “Il Giornale”, “L’Europeo”, “La Nazione”, “L’Indipendente”, “L’Unità”, “Liberazione”, “Max”, “Carnet”, etc. Collaborava a riviste specializzate sul giallo come “Delitti di carta” e “Foglio Giallo”.

Nel 1990 ha curato, insieme a Massimo Moscati, l’antologia critica “Stephen King: da Carrie a La Metà Oscura. Al grande narratore americano ha successivamente dedicato diversi interventi critici. Nel 1996, insieme a Laura Desideri, ha curato e allestito la mostra e il relativo catalogo “Una sola parola: Murder! Il “giallo” in lingua inglese al Gabinetto Vieusseux.”

Nel 1997, insieme a Cristina Proto, ha scritto “Il quaderno di Stephen King. Vita opere idee del Re dell’Horror. Nel 2000 esce, a sua cura, l’antologia di racconti gialli di autori toscani “Toscana, delitti e misteri. Nel 2001 è la volta di “Delitti per ridere, in cui partecipa ― oltre che come curatore ― col racconto “Potenziali serial killers da sagre”. Nel giugno 2002 è uscito, a cura sua e di Luigi Sanvito, “Cronache di delitti lontani, una raccolta di racconti storici ambientati in Firenze e nella Toscana tra Otto e Novecento, a cui partecipa con due racconti.

30 Maggio 2013 - Firenze, Libreria IBS

Sergio Calamandrei, Graziano Braschi e Carlo Menzinger – Firenze, 30 Maggio 2013

Qualche tempo fa ho avuto il piacere di leggere il suo “Arrivederci, mondo”, titolo che oggi suona come un suo commiato ottimistico. Ne avevo scritto qui. Avevo anche avuto la possibilità di presentare il volume alla IBS di Firenze, incontrandolo. Il testo dell’intervista fattagli in quell’occasione è qui, mentre parlo dell’incontro qui.

Abbiamo infine collaborato entrambi alla rivista “IF – Insolito & Fantastico” e ricordo in particolare la sua partecipazione al n. 7 dedicato alle Distopie e al n. 4 dedicato a Giallo & Noir.

 

Il funerale sarà domani, giovedì 15, alle ore 10.00 nella chiesa della Pentecoste di Bagno a Ripoli (Firenze).

 

Arrivederci, Graziano.

MANUALE DI SOPRAVVIVENZA SU MARTE

Tra i romanzi (e relativi film) che mi piace leggere ci sono sia le storie di sopravvivenza in cui una o più persone resistono in ambienti ostili, sia le storie di fantascienza in cui l’ingegno umano trova soluzioni a problemi apparentemente irrisolvibili.

The Martian – Il Sopravvissuto” (autopubblicato in e-book nel 2011 e poi stampato nel 2014), opera prima dello statunitense Andy Weir, appartiene a entrambe le categorie. Narra di un astronauta, Mark Watney, che, creduto morto, viene abbandonato dai compagni su Marte e che sopravvive mettendo in pratica le proprie conoscenze scientifiche, tecnologiche e pratiche. La trama discende direttamente da “Le avventure di Robinson Crusoe” (“The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe”) pubblicato da Daniel Defoe nel 1719, quasi tre secoli fa, e che conta numerosi emuli e abbondanti trasposizioni.

Tra tutte queste opere, quella di Weir è forse una di quelle che maggiormente ne riprende lo spirito adattandolo ai tempi moderni. I protagonisti di entrambi i romanzi sono uomini che in totale solitudine e in ambienti estremi, con pochi mezzi, riescono a mettere a frutto le migliori conoscenze del proprio tempo per sopravvivere e “domare” lo spazio alieno in cui sono stati proiettati. Mark Watney si trova su Marte, ma anche l’isola di Robinson Crusoe è non meno aliena per un gentiluomo europeo.

Indubbiamente pochi uomini del XVIII secolo avrebbero avuto le capacità di Crusoe di adattarsi alla vita sull’isola, così come quasi nessun uomo moderno e persino ben pochi astronauti sarebbero in grado di fare ciò che fa Watney per sopravvivere su Marte. Eppure ciò che fanno, agli occhi di un lettore medio, appare in entrambi i casi, in qualche modo possibile e verosimile. Veramente si può dire che Watney sia il Crusoe del XXI secolo, più di tanti naufraghi che abbiamo recentemente conosciuto dal Chuck Noland di “Cast Away”, ai sopravvissuti soprannaturali del telefilm “Lost”, ai ragazzini guerrafondai de “Il signore delle mosche”, anche perché in questi ultimi manca la solitudine che caratterizza gran parte dell’esperienza di Crusoe. Diverso è anche da “Vita di Pi” in cui lo spazio ristretto (la barca) in cui sopravvive il ragazzo – che può ricordare gli spostamenti di Mark Watney con il Rover sulla superficie marziana – è comunque riempito da una natura invadente, seppur frutto dell’immaginazione.

Insomma, quello che accomuna Crusoe a “The Martian” è, oltre allo stato di naufrago del protagonista, soprattutto il suo sforzo per impiegare al meglio le conoscenze tecnologiche dell’epoca.

L’isolamento in ambiente tecnologico di Mark Watney fa pensare anche a quello di Bowman in “2001 Odissea nello spazio”, anche se qui la tecnologia non è ostile e non ci sono interventi da parte di entità “superiori”.

C’è però un intervento esterno. Il romanzo non parla solo dell’isolamento del protagonista, ma anche del tentativo di salvarlo, e anche qui entriamo in un campo narrativo ampissimo, che racchiude tutti i possibili sviluppi della fiaba del principe che salva la principessa in pericolo (qui con un’inversione di ruoli tra i sessi, dato che il capitano che cerca di salvare il naufrago spaziale è una donna).

 

Mi è già capitato di leggere un libro dopo aver visto il film che ne è stato tratto o, viceversa, di vedere il film dopo aver già letto il romanzo. Non mi era mai capitato di fare le due cose in contemporanea (o quasi) come questa volta.

Giunto circa a metà del romanzo, ho visto al cinema il film che ne stato tratto (“Il sopravvissuto” – 2015) diretto da Ridley Scott, con attore protagonista Matt Damon, che interpreta l’astronauta Mark Watney.

Andy Weir

Spesso si dice che un romanzo sia meglio del film e questo è comprensibile, perché un’opera cinematografica deve necessariamente essere più sintetica, perdendo così sia in profondità, sia in dettaglio, sia in capacità immaginativa da parte dell’utente lettore/spettatore. A volte, però, i film possono essere migliori del romanzo da cui sono nati.

Un regista navigato come Scott, rispetto a un autore esordiente come Weir, avrebbe potuto avere buone carte per contradire la consuetudine, ma il risultato, pur buono e meritevole, non permette di affermarlo con nettezza. Semplicemente i due prodotti sono diversi, pur essendo entrambi, a modo loro, validi esempi di buona fantascienza.

Ridely Scott

Leggendo l’inizio del romanzo ero molto curioso di capire come Scott potesse aver reso le ripetute e costanti riflessioni di Watney su come sopravvivere in un ambiente tanto ostile e i suoi complicati calcoli e studi per produrre e gestire le sue limitatissime risorse. Watney non è certo un uomo comune. Ha conoscenze ingegneristiche e botaniche superiori e, soprattutto, è quello che in gergo si potrebbe dire uno “smanettone”, uno che sa dove mettere le mani per costruire, smontare e rimontare le cose. Il romanzo è quasi un manuale di sopravvivenza su Marte. L’uomo che emerge dal romanzo è un autentico genio, pedante, preciso, meticoloso, arguto, grandissimo calcolatore. Watney esamina e programma ogni cosa e ogni attimo della propria esistenza marziana. Ha risorse per sopravvivere un anno, ma sa che deve restare su Marte almeno per quattro anni, prima che qualcuno torni. Ha perso il sistema di comunicazione e nessuno sa che è vivo. Deve riuscire a ristabilire i contatti se vuole che qualcuno, seppure tra moltissimi mesi, lo possa aiutare. Non si scoraggia e il suo ingegno trova soluzioni per tutto. Si può anche dire che non si emoziona molto e che Weir e Scott ne approfondiscono poco la psicologia, ma direi che la sua psicologia è proprio questa, quella di un uomo che non perde tempo a piangersi addosso, a riflettere su quanto sia sfortunato. Una persona forte e concreta.

Dal romanzo emerge dunque una morale fortissima: con intelligenza, impegno e perseveranza si può fare tutto, persino sopravvivere nell’ambiente più ostile che l’uomo possa immaginare.

Questo si coglie meno nel film. Il protagonista di Scott è più vicino a Rambo che ai protagonisti geniali e creativi di Jules Verne, come è invece quello di Weir.

Weir riporta, appunto, la fantascienza alle sue origini, allo spirito di Jules Verne, regalandoci un’opera in cui possiamo tornare a meravigliarci delle capacità tecnico scientifiche dei protagonisti, in cui il futuro raccontato è dietro la porta e in cui la plausibilità degli eventi ha il sapore dell’anticipazione.

Scott ci dà un film d’avventura, di solidarietà, di coraggio, di determinazione.

Nel complesso, però, il romanzo tende a essere piuttosto pesante con tutti questi calcoli e tutto questo continuo ponderare. Era dunque forse giusto snellirlo nella trasposizione cinematografica, che, comunque, segue piuttosto accuratamente la trama letteraria.

Come risolve, insomma, il grande Scott il problema? Ricordo, per inciso, che stiamo parlando del regista di film cult di fantascienza come “Blade Runner” e “Alien”, due dei massimi titoli del genere. Speravo dunque in qualche trovata brillante.

Non ho notato, purtroppo, alcuna soluzione geniale. Scott semplicemente si limita a semplificare la maggior parte delle numerose trovate tecniche del protagonista, dandoci alla fine un Matt Damon un po’ giuggiolone e forse più eroico del suo alter ego cartaceo (si ricuce persino una ferita con la graffettatrice, quasi fosse Rambo) ma che alla fine sembra sia solo riuscito a trovare un modo per coltivare patate concimando lo sterile suolo marziano con la sua cacca e con quella dei suoi compagni (che chissà perché l’avevano lasciata sul pianeta in sacchetti ciascuno con il nome del relativo artefice!).

Insomma, il film acquista maggior dinamicità e spettacolarità del libro, ma si perde in parte la grande morale dell’intelligenza e della capacità di calcolo che permettono di risolvere tutto. Rimane comunque l’idea americanissima del self-made-man, dell’uomo capace di superare da solo ogni difficoltà, perché secondo il sogno americano chiunque può aver successo (questa in Italia sembra la vera fantascienza!), solo che nel romanzo ci riesce con la genialità e nel film soprattutto con il coraggio e la determinazione. Due eroi, ma di stoffa diversa. Mi piace decisamente di più quello del romanzo, ma dal punto di vista narrativo tanti dettagli tecnici appesantiscono anche la lettura, figuriamoci la visione di un film.

 

Che dire del messaggio sulla facilità di colonizzare Marte? Questo direi che è parimenti presente nelle due opere. Mark Watney perderà anche tutto il suo orto, ma in fondo era riuscito a realizzarlo e a sfamarsi a lungo con le sue patate marziane: allora colonizzare Marte si può. Non sarà una passeggiata. Ci vorranno veri eroi e molta immaginazione, ma si può fare.

Riusciremo davvero a vedere i primi uomini sul pianeta rosso prima della fine del 2030. Chi ci sbarcherà per primo? Sarà la Nasa, con il suo programma scientifico di lungo termine o saranno quelli di MarsOne, che avevano annunciato il 2023 ma già parlano del 2026 o saranno i cinesi? Ci riusciranno con l’aiuto dei russi? O saremo noi europei a sorprendere e superare tutti? Quello che conta è che sembra che la corsa sia partita e che anche l’industria cinematografica e mediatica si sia attivata. È un gioco? Niente affatto, è il nostro futuro. È ciò che dà senso alla nostra civiltà: portare la vita dove non c’è, proprio noi che la stiamo annientando sul nostro mondo.

Il messaggio è: Marte può essere abitato. Se un uomo da solo, in condizioni impreviste e improvvisate è riuscito (seppure nella finzione) a sopravvivere su Marte, delle spedizioni organizzate possono farcela. Questo è un messaggio importante, perché in fondo l’umanità esiste proprio per questo. Se abbiamo realizzato la nostra tecnologia non può che essere per portare la vita su altri mondi.

Come si può affermare una cosa simile? Si tratta di riflettere un attimo sull’evoluzione. Alcuni sostengono che solo la fede in qualche religione possa dare un senso alla nostra esistenza. Non è di questo che intendo parlare, ma di quel senso della vita che travalica le fedi.

L’universo è dominato dall’entropia, si dilata, tutto tende verso il disordine. C’è però una forza in controtendenza: la vita, appunto. La vita tende a organizzare, a sistematizzare, a creare organismi sempre più complessi e specializzati. Si evolve. Si adatta per raggiungere ogni angolo della Terra.

Solo della Terra? Non credo. L’esplorazione spaziale ci sta mostrando che moltissime stelle (forse è la norma) dispongono di sistemi planetari più o meno complessi e tra questi non mancano pianeti con dimensioni e caratteristiche generali simili a quelle della Terra. C’è vita su di essi? Non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai, perché sono troppo lontani.

Sappiamo però cosa faccia la vita sulla Terra: muta. Organismi semplici si trasformano in altri più complessi in grado di affrontare nuovi ambienti e situazioni via via più ostili. Dal mare la vita si è estesa alla terraferma e al cielo. Si è adattata ai climi più caldi e a quelli più rigidi, alle profondità marine e alle vette delle montagne e persino nei deserti ce ne sono tracce.

A un certo punto, piuttosto recentemente in termini geologici, è comparsa una specie tecnologica, una specie capace di manipolare l’ambiente, di costruire strumenti per vivere in habitat diversi. Questa specie somiglia a un cancro, perché arriva ovunque nell’ecosistema e lo devasta, lo stravolge. Per causa di questa nuova specie, secondo la Lista Rossa delle Nazioni Unite ogni ora si estinguono tre specie animali o vegetali!  Tre all’ora! Non tre animali, ma tre intere specie! Come è possibile una simile devastazione della biodiversità? Se è vero che la vita tende a differenziarsi e a propagarsi, come può essere che si sia sviluppato questo cancro che infetta l’intero ecosistema planetario? Come può essere che la natura non l’abbia già eliminato? Noi umani siamo davvero solo la rovina del nostro pianeta, siamo solo una piaga devastante, nata per portare morte e distruzione tra tutte le altre specie e persino all’interno della nostra?

Non vorrei crederlo. Non voglio crederlo. Non lo credo. Vorrei, piuttosto, credere che, pur non essendoci alcun Destino verso cui tendiamo, pur non essendoci alcun Ordine Superiore, pur non essendoci nessuna Volontà che ci guida, l’umanità abbia un senso, biologicamente parlando. Voglio credere che questo senso sia proprio nella sua caratteristica più distruttiva: la capacità tecnologica.

Ebbene, l’umanità è stata la sola specie ad aver lasciato la Terra! Siamo la sola specie a essersi allontanata dal mondo in cui è nata (salvo credere ai microrganismi che forse girano per l’universo addormentati all’interno di meteore, comete e meteoriti). Siamo la sola specie a essere scesa su un altro corpo celeste, la Luna e, presto, scenderemo anche su un altro pianeta, superando difficoltà tecniche che nessun’altra specie terrestre, per quanto intelligente potrebbe superare. Perché questo è importante? Questo non è solo importante, questo è importantissimo non solo per l’umanità ma per l’intera vita nata sulla Terra, perché per la prima volta la potremo portare su un altro pianeta, arido, brullo e inospitale, e trasformarlo, come solo l’uomo sa fare, in qualcosa di diverso. Marte forse non diventerà mai un paradiso per l’uomo, ma un giorno potrebbe diventare un mondo in cui nuove forme di vita potranno svilupparsi. E questo sarà solo un primo passo. Nel sistema solare ci sono altri corpi, grandi satelliti, che potrebbero avere elementi in grado di consentire la vita. Se la vita non si è sviluppata (e questo dobbiamo ancora verificarlo) possiamo portarla anche in questi spazi inospitali, in questi corpi in cui la scintilla della vita non ha avuto la forza di sprigionarsi da sola, ma dove, con l’aiuto della tecnologia, potrebbe comunque attecchire. Per ora limitiamoci a pensare al sistema solare. Le stelle sono troppo lontane. All’irraggiungibile velocità della luce distano anni, secoli e millenni da noi. Un giorno forse, forte delle esperienze nel nostro sistema, potremo costruire alcune grandi arche, con migliaia di creature a bordo, e lanciarle verso l’ignoto. Ora pensiamo alla terraformazione del nostro sistema solare. Terraformare significa rendere la vita possibile in mondi diversi dal nostro.

La genetica, assieme all’esplorazione spaziale, è, infatti, l’altro grande “dovere” dell’umanità. Sarà grazie alla genetica, io spero, che potremo riuscire a creare nuove razze in grado di adattarsi alla vita su Marte o altrove. L’umanità magari sarà costretta a vivere in calotte protette con micro-habitat, ma sul suolo marziano nuove piante e nuovi microrganismi potranno crescere e, tra le altre cose, persino trasformarsi in nuove forme di cibo per quest’uomo sempre affamato.

Per questo è importante sapere se su Marte c’è acqua. Per questo sono importanti le recenti notizie giunte dal pianeta rosso che ne mostrano tracce. Perché l’acqua è alla base della vita come la conosciamo. Perché se ci sarà acqua non dovremo portarcela dietro dalla terra e non dovremo sintetizzarla in loco. Perché se ci sarà acqua sarà più facile cominciare una nuova esistenza lassù. Perché se ci sarà acqua, potremmo persino scoprire altre forme di vita. Microrganismi, magari, ma formatisi in modo diverso. Magari non basati sul carbonio, magari con strutture impensabili. Se ci sarà un simile microrganismo, potremmo capire molto, moltissimo di noi, della vita e dell’universo.

Colonizzare Marte è un dovere morale della nostra specie, ma anche un istinto insopprimibile. Dobbiamo andare. Dobbiamo partire verso il cielo e le stelle, perché questo è scritto nel nostro DNA, perché questo è l’impulso della vita: crescete e moltiplicatevi.

E sulla Terra non c’è più posto.

 

C’è, infine, una terza morale sia nel romanzo, sia nel film: la solidarietà vince.

Nonostante i costi proibitivi, gli americani fanno tutto il possibile per salvare il loro astronauta. Persino i cinesi rinunciano ai propri segreti (anche se avranno un tornaconto, più evidente nel romanzo che nel film) per aiutarli quando stanno per fallire. I compagni di Mark rischiano le proprie vite per tornare a salvarlo, prolungando di quasi due anni una missione già lunga e non programmata per durare tanto, con tutti i rischi e i problemi del caso.

È, insomma, una storia carica di fiducia verso un’umanità pronta a collaborare e sacrificarsi per salvare anche solo una singola vita. Alcuni (soprattutto i compagni di missione) lo fanno per vera solidarietà, altri per dare impulso al progetto spaziale o per altri interessi, ma nel complesso c’è grande positività, materia che stava diventando rara sia in letteratura, sia nel cinema, soprattutto fantascientifico (con tante distopie in giro), sia nel sentire comune.

Sarà Marte il nuovo sogno americano? Sarà il sogno americano dell’uomo di ingegno e perseveranza che tutto può il nuovo sogno dell’umanità?

 

 

 

PERCHE’ DOBBIAMO ASSOLUTAMENTE ANDARE SU MARTE

Acqua su marteQuesto è un blog dedicato ai libri, mi scuserete quindi se esco fuori tema, ma vorrei affrontare una questione che merita attenzione. In ogni caso, potete considerare questo post una premessa alla mia prossima recensione di “The Martian – Il Sopravvissuto”, che sto leggendo in questi giorni.

In questi giorni la notizia che su Marte siano state trovate tracce di una possibile presenza di acqua ha fatto comparire su Facebook alcuni post che mi hanno disturbato e ai quali ho risposto per ora solo succintamente. Il tema necessita però un maggior approfondimento, essendo di estrema importanza.

Il post (stimolando i nostri istinti protettivi con un’immagine che impietosisce) mostra un bambino assetato, che beve da una pozzanghera e la scritta “L’umanità non ha i soldi per estrarre l’acqua dalle zone aride, però ha i soldi per cercare l’acqua su Marte. La domanda è: c’è vita intelligente sulla Terra?175529647-34894ed6-1358-4130-b927-b964bd798686

L’insieme dell’immagine e del messaggio portano a far credere che l’affermazione sia giusta. Chi non vorrebbe che quel bambino possa avere acqua pulita da bere? Chi vorrebbe suo figlio costretto a bere in quel modo? Spinti dall’immagine, non ragioniamo sul senso dell’affermazione che vuole essere polemica ma anche ironica.

Innanzitutto, è sbagliato mettere in relazione le due questioni della mancanza di acqua e dell’esplorazione spaziale. La siccità in alcune zone della Terra è problema gravissimo e che va risolto, ma ci sono risorse altrove che possono essere impiegate a tal fine. Soprattutto c’è un più ampio problema di ridistribuzione delle ricchezze tra ricchi e poveri, tra zone floride e zone aride, tra Paesi sviluppati e Paesi in ritardo cronico sulla via dello sviluppo. Non è fermando gli investimenti per la ricerca che questi problemi si risolvono, anzi, dato che è solo grazie alla scienza che il nostro pianeta riesce a sfamare (più o meno bene, purtroppo) una moltitudine sterminata di esseri umani, il cui numero è in costante crescita (a ottobre 2015 l’insostenibile 175529634-e1d44ec0-c3e5-4a09-84ca-3af61a94373cnumero era già di 7,37 miliardi di bocche da sfamare e nel 2050 dovremmo essere 9,7 miliardi!). La ricerca scientifica va sempre sostenuta ed è proprio a causa della bassa entità delle spese dedicate a tal fine da molti governi, tra cui quelli del nostro Paese che lo sviluppo si arresta o rallenta. Non dimentichiamoci poi che lo sviluppo di tecnologie per estrarre l’acqua da Marte, con buona probabilità avrà effetti positivi proprio nella risoluzione dei problemi di siccità della Terra. Se si risolvono i problemi dell’approvvigionamento d’acqua su Marte, sarà poi un gioco farlo nelle zone aride del nostro pianeta.

Che cosa dire piuttosto di serie politiche demografiche che arginino la crescita forsennata della popolazione umana? Popolazione, poi, che vive consumando risorse pro capite sempre crescenti, con effetti disastrosi per l’ecosistema.

 

Potrebbe bastare questo a dire che il messaggio circolato è sbagliato e fuorviante, ma c’è una ragione più profonda e seria che ci fa capire quanto quella riportata sia un’affermazione demagogica.175529637-b01d4975-287d-45b1-96ee-8cbd2159f535

Si tratta di riflettere un attimo sull’evoluzione della vita. Alcuni sostengono che solo la fede in qualche religione possa dare un senso alla nostra esistenza. Non è di questo che intendo parlare, però c’è un senso della vita che travalica le fedi. Da uomini moderni credo sia difficile non accettare il concetto dell’evoluzione della vita. Diamolo per accettato, come base del ragionamento che segue.

L’universo è dominato dall’entropia, si dilata, tutto tende verso il disordine. C’è però una forza in controtendenza: la vita. La vita tende a organizzare, a sistematizzare, a creare organismi sempre più complessi e specializzati. Si adatta per raggiungere ogni angolo della Terra.

182340072-d40974a9-e94b-474b-a3d4-f6a4f418841cSolo della Terra? Non credo. L’esplorazione spaziale ci sta mostrando che moltissime stelle (forse è la norma) dispongono di sistemi planetari più o meno complessi e tra questi non mancano pianeti con dimensioni e caratteristiche generali simili a quelle della Terra. C’è vita su di essi? Non lo sappiamo e forse non lo sapremo mai, perché sono troppo lontani.

Sappiamo però cosa faccia la vita sulla Terra: muta. Organismi semplici si trasformano in altri più complessi in grado di affrontare nuovi ambienti e situazioni via via più ostili. Dal mare la vita si è estesa alla terraferma e al cielo. Si è adattata ai climi più caldi e a quelli più rigidi, alle profondità marine e alle vette delle montagne e persino nei deserti ce ne sono tracce.

A un certo punto, piuttosto recentemente in termini geologici, è comparsa una specie tecnologica, una specie capace di manipolare l’ambiente, di 175529612-07657fe6-3dec-439f-bb84-954624fbd88bcostruire strumenti per vivere in habitat diversi. Questa specie somiglia a un cancro, perché arriva ovunque nell’ecosistema e lo devasta, lo stravolge. Per causa di questa nuova specie, secondo la Lista Rossa delle Nazioni Unite ogni ora si estinguono tre specie animali o vegetali!  Tre all’ora! Non tre animali, ma tre intere specie! Come è possibile una simile devastazione della biodiversità? Se è vero che la vita tende a differenziarsi e a propagarsi,
come può essere che si sia sviluppato questo cancro che infetta l’intero ecosistema planetario? Noi umani siamo davvero solo la rovina del nostro pianeta, siamo solo una piaga devastante, nata per portare morte e distruzione tra tutte le altre specie e persino all’interno della nostra?

Non vorrei crederlo. Non voglio crederlo. Non lo credo. Vorrei, piuttosto, credere che, pur non essendoci alcun Destino verso cui tendiamo, pur non essendoci alcun Ordine Superiore, pur non essendoci nessuna Volontà che ci guida, l’umanità abbia un senso, biologicamente parlando. Voglio credere che questo senso sia proprio nella sua caratteristica più distruttiva: la capacità tecnologica.

Ebbene, l’umanità è stata la sola specie ad aver lasciato la Terra! Siamo la sola specie a essersi allontanata dal mondo in cui è nata (salvo credere ai 182340049-92872407-1f62-41e4-8470-5714e960688amicrorganismi che forse girano per l’universo addormentati all’interno di meteore, comete e meteoriti). Siamo la sola specie a essere scesa su un altro corpo celeste, la Luna e, presto, scenderemo anche su un altro pianeta, superando difficoltà tecniche che nessun’altra specie terrestre, per quanto intelligente potrebbe superare. Perché questo è importante? Questo non è solo importante, questo è importantissimo non solo per l’umanità ma per l’intera vita nata sulla Terra, perché per la prima volta la potremo portare su un altro pianeta, arido, brullo e inospitale, e trasformarlo, come solo l’uomo sa fare, in qualcosa di diverso. Marte forse non diventerà mai un paradiso per l’uomo, ma un giorno potrebbe diventare un mondo in cui nuove forme di vita potranno svilupparsi. E questo sarà solo un primo passo. Nel sistema solare ci sono altri corpi, grandi satelliti, che potrebbero avere elementi in grado di consentire la vita. Se la vita non si è sviluppata (e questo dobbiamo ancora verificarlo) 175529676-aae381b9-069e-4325-a95b-ce735037e6d0possiamo portarla anche in questi spazi inospitali, in questi corpi in cui la scintilla della vita non ha avuto la forza di sprigionarsi da sola, ma dove, con l’aiuto della tecnologia, potrebbe comunque attecchire. Per ora limitiamoci a pensare al sistema solare. Le stelle sono troppo lontane. All’irraggiungibile velocità della luce distano anni, secoli e millenni da noi. Un giorno forse, forte delle esperienze nel nostro sistema, potremo costruire alcune grandi arche, con migliaia di creature a bordo, e lanciarle verso l’ignoto. Ora pensiamo alla terraformazione del nostro sistema solare.
Terraformare significa rendere la vita possibile in mondi diversi dal nostro.

La genetica, assieme all’esplorazione spaziale, è, infatti, l’altro grande “dovere” dell’umanità. Sarà grazie alla genetica, io spero, che potremo riuscire a creare nuove razze in grado di adattarsi alla vita su Marte o altrove. L’umanità magari sarà costretta a vivere in calotte protette con micro-habitat, ma sul suolo marziano nuove piante e nuovi microrganismi potranno crescere e, tra le altre cose, persino trasformarsi in nuove forme di cibo per quest’uomo sempre affamato.

175529611-8307af36-9467-4838-899a-dec90a9bb0e0Per questo è importante sapere se su Marte c’è acqua. Perché l’acqua è alla base della vita come la conosciamo. Perché se ci sarà acqua non dovremo portarcela dietro dalla terra e non dovremo sintetizzarla in loco. Perché se ci sarà acqua sarà più facile cominciare una nuova esistenza lassù. Perché se ci sarà acqua potremmo persino scoprire altre forme di vita. Microrganismi, magari, ma formatisi in modo diverso. Magari non basati sul carbonio, magari con strutture fondamentali impensabili. Se ci sarà un simile microrganismo potremmo capire molto, moltissimo di noi, della vita e dell’universo.

175530343-2ab43552-f44c-48c3-b941-9a3f84f47bceCredo che siano possibili biologie diverse da quella terrestre, basate su diversi elementi, ma se su un mondo non c’è vita, se su Marte non c’è vita, dovremo cercare di ricrearla nella forma più simile a quella che già conosciamo. Per questo ci serve l’acqua. Anche se poca, anche se nascosta in profondità, anche se presente nella tenue atmosfera. La nostra tecnologia ci permetterà di estrarla, studieremo come e un giorno questo servirà anche a dissetare i bambini africani. Per questo dobbiamo cercare l’acqua su Marte.

Potremmo anche popolare l’universo di robot autoriproducentesi e persino capaci di evolvere, ma la vita, la vita cui apparteniamo, di cui siamo il cancro e la speranza, è quella che veramente dobbiamo diffondere. È qualcosa che le dobbiamo, alla Vita, per tutti i danni che le stiamo provocando. Un dovere morale, ma anche un istinto insopprimibile. Dobbiamo andare. Dobbiamo partire verso il cielo e le stelle, perché questo è scritto nel nostro DNA, perché questo è l’impulso della vita: crescete e moltiplicatevi.

E sulla Terra non c’è più posto.

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IL FORMARSI DELLA CONOSCENZA COMUNE

Quest’estate Mark Zuckerberg (il fondatore di Facebook) aveva consigliato la lettura di alcuni libri. Sebbene il personaggio sia importante, non ha molto a che fare con la letteratura o la saggistica, ma i titoli suggeriti erano tutti interessanti e me ne sono procurato alcuni. Tra questi c’era anche “Rational ritual”, che ho appena finito di leggere.

Rational ritual” del giovane Michael Suk-Young Chwe è un saggio che esplora il concetto di conoscenza comune, l’importanza del coordinamento delle informazioni per generare una conoscenza comune e le distorsioni che si creano quando questa è assente o manipolata, come nel caso della informazione politica o del razzismo, dove la percezione che altri la pensino in un certo modo induce le persone ad adattarsi alla nuova forma di pensiero, senza capire che quello che percepiscono come un pensiero maggioritario è in realtà ancora minoritario, ma tende a diventare maggioritario proprio per i meccanismi di errato coordinamento delle informazioni alla base della conoscenza comune. Viene allora da pensare all’uso dei sondaggi fatto dalle televisioni italiane durante il periodo berlusconiano. Non è necessario dare informazioni false o censurarne altre. È più utile far credere che tutti credano a certe cose, perché in molti comincino a credere a tali cose. All’apparenza la televisione si mostra neutrale, ma, di fatto, manipola la conoscenza comune, creandone una artificiale.

Michael Suk-Young Chwe

Il volume affronta il tema anche dal punto di vista marketing e delle campagne promozionali.

Tutto gira intorno al meccanismo io so che tu sai che io so e alla possibilità che questo si inceppi. L’autore spende varie pagine sull’esempio dell’autobus dove qualcuno è sveglio e qualcuno dorme.

Se io guardo qualcuno seduto davanti a me e lui mi guarda lui sai che io so che lui sa che io lo vedo e viceversa, ma cosa succede se uno dei due dorme? Il meccanismo salta.

Il testo è denso di ripetizioni e lo stesso concetto viene rigirato più volte come un tempo si faceva con un abito usato. Deve essere un vizio americano (l’autore sebbene sembri di origine asiatica ha studiato e pubblicato in America). Anche i documentari statunitensi che si vedono in televisione hanno il vizio di ripetere i concetti all’infinito. L’impressione è che prendano i lettori per deficienti o che l’autore si senta molto più intelligente degli altri e quindi debba rivolgersi al pubblico come se fosse formato da bambini. Anche i bambini però si stufano, se uno ripete sempre le stesse cose! L’altra ipotesi che verrebbe da formulare guardando tali documentari è che il quoziente intellettuale d’oltreoceano possa essere davvero parecchio più basso di quello di un italiano medio! Scherzo. Ovviamente credo sia solo un problema di livello di attenzione. Danno per scontato che nessuno si concentri nella visione o (talora) nella lettura. Sono programmi fatti per gente che ne vede solo un breve pezzo e poi cambia canale o che si collega a trasmissione già iniziata. Anche questo però non mi pare un buon indice del livello intellettuale.

Visto chi suggeriva questo saggio, speravo in un testo più innovativo, ma non mi ha dato molto. Spero di rifarmi con gli altri titoli suggeriti.

 

Questo è il primo libro in inglese che leggo usando il TTS (Text-To-Speech). Ormai leggo soprattutto con il sintetizzatore vocale, ma sempre in italiano. Alcuni trovano difficile concentrarsi leggendo con il TTS, percui (conoscenza comune!) temevo che leggere in un’altra lingua avrebbe potuto comportare una certa difficoltà e, soprattutto, mi avrebbe reso difficile avere la medesima concentrazione che riesco ad avere con un testo italiano, ma devo dire che l’esperienza di è rivelata abbastanza positiva e intendo ripeterla. La pronuncia del sintetizzatore vocale inglese mi parrebbe buona, almeno e forse più di quella del lettore italiano e la lettura (più correttamente “ascolto”) di testi inglesi si è rivelata anche un buon esercizio per la pronuncia inglese.

Nello specifico, dato che, come scrivevo, questo saggio presenta numerose ripetizioni questo ne rende più facile la comprensione anche con un simile strumento e in una lingua straniera, mentre l’uso del sintetizzatore vocale su questo saggio dà dei problemi per la presenza di numerosi grafici, tabelle e illustrazioni. Il prossimo testo inglese che leggero con TTS sarà un romanzo e spero che la lettura possa essere ancora più fluida. Ho già iniziato “The Martian” di Weir.

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