Il 14 aprile 2022 presenteremo al Caffè Chiaroscuro di Firenze due antologie di narrativa su Dante Alighieri, “Gente di Dante” (Tabula Fati Editore, 2021), il volume del Gruppo Scrittori Firenze, e “Le altrui scale” (Clown Bianco Edizioni, 2021) silloge curata da Nevio Galeati e che riunisce autori proveniente da Urania e dal Giallo Mondadori. Sono racconti, dunque, che, pur parlando del poeta fiorentino, lo fanno spesso usando le chiavi della fantascienza o del giallo.
Apre il volume il racconto di Luigi Boccia in cui Dante è un cyborg proveniente dal futuro e incontra Tesla, cui racconta dei messaggi segreti contenuti nella Divina Commedia.
Si va alla ricerca delle spoglie dantesche durante il fascismo nel racconto di Paolo Casadio.
Nel racconto di Alberto Costantini si discute di filosofia aristotelica, di mondi alternativi e di viaggi nel tempo, quello di Dante, il XIX secolo e il futuro.
Caterina Falconi ci parla di una donna innamorata di Dante, che lo ritrova nell’alidlà, senza che lui la noti mai, e che si confessa nientemeno che con Minosse, di aver posseduto, da fantasma le discendenti di Beatrice Portinari.
Annamaria Fassio ci parla del difficile amore di Paolo e Francesca.
Il curatore Nevio Galeati nel suo racconto, alternando passato e presente, ci mostra un’indagine sulla morte di Dante Alighieri. Fu davvero per malaria?
Un’altra indagine è quella di Giulio Leoni, ma questa volta a indagare è lo stesso poeta, sulla morte di Beatrice Portinari.
Nel testo di Nicola Lombardi, uno scrittore di scarsa fortuna ricorre a un medium per farsi aiutare dall’Alighieri e questo gli recita il seguito della Divina Commedia, in cui Dante ripercorre a ritroso il suo viaggio.
Lisa Milano ci racconta come durante le celebrazioni ravvenati per i settecento anni dalla morte di Dante, funestati dall’epidemia di covid-19, due pantere da circo vengono rubate dalla ‘Ndrangheta.
Maico Morellini fa risvegliare Dante a bordo di una misteriosa astronave nel futuro, del tutto privo di memoria. Grazie all’incontro con alcune “anime” rinchiuse in coni luminosi riacquisterà la memoria e apprenderà il suo nuovo, determinante, ruolo.
Kim Paffenroth dà voce a Gemma Donati, la moglie dell’Alighieri di cui così poco sappiamo e le fa confessare che “«Mio marito non ha mai amato altri che sé stesso.»
Gemma lo aveva pensato per gran parte del tempo da quando si era sposata, ma aveva comunque avuto bisogno di fermarsi e ricomporsi mentre la sua voce pronunciava per la prima volta quelle parole.
«Non lo dico come rimprovero. Lui era davvero così. Non si può biasimare un rospo perché non sa cantare o volare; fa ciò per cui è nato. E così faceva mio marito. Scriveva e si cacciava nei guai, ed eccelleva in entrambe le cose. Ma sono sicura che non abbia mai amato nessuno davvero, né bene né male.»”
Ispirandosi a questi versi della “Vita Nova”:
“Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.”
Linda Traversi immagina un moderno Dan, innamorato di Bea, studentessa di legge, che sogna di mangiare il suo cuore in un incubo ricorrente che va facendosi sempre più concreto.
Da questa veloce rassegna, credo si possa comprendere come “Le altrui scale” appaia dunque ancora più di “Gente di Dante” come un’antologia di narrazioni scritte attorno al poeta fiorentino, ai personaggi del suo mondo, reale o immaginario. Se “Gente di Dante” vede i suoi 36 racconti equamente suddivisi in due parti “La suggestione della storia” e “L’incanto della fantasia”, dove la prima parte è più attenta alla ricostruzione storiografica e la seconda dà maggior sfogo all’immaginario, “Le altrui scale” si pone assai più vicina a questa seconda parte e, anzi, ancora più lascia libero sfogo alla fantasia, quasi a voler celebrare di Dante soprattutto la capacità immaginativa, che, come ho già avuto modo di scrivere, lo pone alle basi di tutto il fantastico italiano. “Le altrui scale” sembra quindi proprio rimarcare questa peculiarità dello spirito dantesco, che rende il poeta a noi ancora vicino nonostante lo scorrere dei secoli e che, sebbene aspetto poco rimarcato dalla critica ufficiale, è senz’altro uno degli elementi fondanti della sua grandezza.
“Le altrui scale” si presenta dunque come opera moderna e del tutto contemporanea che rilancia e ripropone la figura del sommo poeta alleggerendolo di tutti gli orpelli che talora rischiano di renderlo figura ostica per gli studenti liceali. Opera in cui uomini e donne quanto mai reali, vivi e attuali, prendono forma e corpo e si dispiegano in vivide avventure, ora con i toni del giallo ora persino con quelli della fantascienza.
Vita dura e difficile quella di Lodovico Manetti, detto Vico, il nonno di Nicoletta Manetti, autrice di “Vico” (Soleombra Edizioni, 2016), sottotitolo “Quando torno ti porto un fiore”.
La nipote la ricostruisce, romanzandola, credo partendo da un diario pubblicato dal nonno stesso, come si capisce a pagina 158:
“L’Anna corse a prendere le forbici e lo aprirono sul tavolo in giardino; erano trenta copie di cartone avorio e il titolo in rosso “Un ragazzo intraprendente”. Settanta pagine di vita e ventotto poesie”.
Una vita intensa scandita da tanto dolore e tanti lutti, a partire da quello per il padre, seguiti da numerose vedovanze, dalla perdita della primogenita ancora bambina, dall’alternarsi della sorte nelle vicende lavorativa di uno che era partito, direi scappato, di casa a otto anni per cercar fortuna e che di mestieri ne ha fatti tanti, dal garzone, al lustrascarpe, al cameriere, all’imprenditore, al negoziante, di uno che pur non avendo studiato ha saputo appassionarsi alla poesia.
Una vicenda che attraversa quasi tutto il secolo scorso, con le guerre coloniali e le due grandi guerre vissute in prima persona, con il fascismo, la spagnola, la tisi e altre avversità che tanti italiani ricordano ancora.
Nicoletta Manetti
Un libro che è intensa ed emozionante storia familiare ma anche storia d’Italia, vista dalla parte della gente comune, delle ripercussioni che la Storia ha sempre sulle vite di tutti.
E fa effetto leggerlo oggi, mentre ci illudiamo che la pandemia di covid stia finendo (ma a me che sono malato proprio ora non pare davvero) e i telegiornali lugubremente ci parlano di nuovo di una possibile guerra mondiale, come se l’orologio fosse tornato se non al 1915 o al 1939 almeno agli anni della Guerra Fredda e al tempo del terrore nucleare, di cui credevamo di poterci liberare pur vivendo all’ombra di migliaia di missili schierati.
Di Nicoletta Manetti avevo già apprezzato alcuni racconti, tra cui quelli delle antologie del Gruppo Scrittori Firenze “Accadeva in Firenze Capitale”, “Gente di Dante” e il volume da lei stessa curato “Le sconfinate”. Questa prova di maggior respiro ha il fascino vivo della storia vera, resa con grande efficacia e realismo che emozionano e commuovono proprio per la capacità dell’autrice di far immedesimare il lettore nei suoi personaggi, qui forse aiutata dal sentirseli particolarmente vicini.
Di Davide Tarò ho già letto il romanzo breve “Corazzata Spaziale Mussolini” e il racconto “Il ritorno degli Shogun Warriors…” in cui in una Detroit in rovina dei giocattoli giapponesi hanno assunto la forma di grandi automi per la difesa urbana, presente nell’antologia “Soundscapes”.
Leggo ora “OroborO”. Il sottotitolo lo definisce “Romanzo ucronico” e all’interno Tarò parla di “Taròucronia”, termine che fa pensare alla Torino in cui è ambientato ma che fa chiaramente riferimento al cognome dell’autore.
Va detto che il concetto di ucronia nella sua accezione più comune mal di adatta a questo romanzo. Dai tempi di Charles Rènouvier, infatti, il termine indica un andamento alternativo della storia, derivante da una divergenza storica che ne ha mutato il corso. Ecco quindi che nei miei romanzi Cristoforo Colombo non riesce a tornare dal viaggio alla scoperta delle Indie, ecco che Sparta distrugge Atene e la sua cultura, ecco che Giovanna D’Arco sopravvive al rogo. Queste sono ucronie.
Davide Tarò, invece, pare andare più indietro, risalendo all’etimologia del termine per il quale la “u” di “ucronia” è la negazione greca, mentre “Cronia” fa riferimento a “cronos”, il tempo.
Davide Tarò
Per Tarò, dunque, l’ucronia pare più che descrizione di un tempo alternativo, quello di un non-tempo. Siamo però, in queste pagine, ancora più dalle parti della ciclicità del tempo, che mi ricorda la saga della Torre Nera di King ma anche “La casa per bambini speciali di Miss Peregrine” di Ramson Riggs e perché no la mia Giovanna D’arco che alla fine ritroviamo bambina. Concetto evidenziato dal titolo, con la doppia O maiuscola, a sottolineare come il nome palindromo “OroborO” si possa leggere nei due versi.
Che genere di narrazione ci troviamo di fronte? Non quella classica dell’ucronia che vede prevalere i riferimenti storici, ma piuttosto quella fantascientifica dei viaggi nel tempo con i loro paradossi. Lo scontro con gli Arrampicatori, esseri rivestiti di nanomacchine, mi ricorda stranamente la mia macchina del non-tempo che appare nel racconto “Il mio nome è Apocalisse” in “Apocalissi fiorentine”.
Ecco quindi il gioco di specchi temporali offerto da Tarò con il padre che è anche il figlio e il suo stesso assassino, come si scopre poco per volta, muovendosi per questo testo dallo stile narrativo originale che sottolinea la ripetitività temporale degli eventi.
La passione della lettura per me cominciò alle scuole elementari con Emilio Salgari. Il primo romanzo “vero” che lessi furono “I misteri della jungla nera”, cui seguirono decine di altri romanzi di questo autore. Non erano abbastanza per cui lessi anche quelli scritti dai figli!
A distanza di tanti anni, con una diversa esperienza di lettura e uno sguardo da autore, mi è ricapitato di riprendere in mano, mesi fa, proprio “I misteri della jungla nera” e di leggere un’opera fantascientifica che allora mi era sfuggita “Le meraviglie del duemila”.
Torno ora a rileggere un altro grande classico di Emilio Salgari “I pirati della Malesia”. Vi ritrovo Tremal-Naik e il suo fido servitore Kammamuri ma vi compaiono anche i celeberrimi Sandokan e Yanez e il loro antagonista Lord Brooke. Il volume, infatti, unisce le storie di questi personaggi, cominciando a dar vita a quello che diverrà un ciclo di romanzi. Pensavo che questo volume venisse subito dopo “I misteri della jungla nera” (e così è) ma scopro che Marianna, la Perla di Labuan è già morta. I due romanzi sono infatti preceduti da “La tigre della Malesia”, poi ridenominato “Le tigri di Mompracem”.
Kammamuri nello sceneggiato “Sandokan”
Noto innanzitutto che il vero eroe di queste vicende pare essere Kammamuri, il più attivo e ingegnoso dei personaggi. Strano effetto dei ricordi: sarà perché è solo un servitore, ma mi pareva, dai ricordi di infanzia, un personaggio secondario!
Nel leggere da adulto mi viene da chiedermi che cosa potesse essere piaciuto al Carlo Menzinger bambino. Sicuramente la ricchezza e varietà di avventure. Ci sono battaglie ma la loro soluzione avviene in maniera quasi sempre “omerica”, con qualche ingegnoso “cavallo di Troia”. Non penso che mi sarei appassionato a dettagliate scene di guerra. Quello che mi colpisce oggi è poi l’abbondanza di dettagli e particolari nonché un linguaggio ricco e articolato: uno dei pregi, per esempio, della saga di Harry Potter, a riprova di quanto ho già sostenuto, ovvero che per i bambini non si deve scrivere in modo facile e banale e neppure lesinare scene forti e violente. Ricordo peraltro che leggendo alle elementari prediligevo i dialoghi e saltavo a volte a piè pari le parti descrittive. Le ricordavo lunghe in Salgari, ma viste ora appaiono molto brevi e funzionali a creare l’atmosfera del racconto. Azione e dialoghi si succedono in modo incalzante, creando la dovuta suspance. Salgari mi appare quindi come un autore dalla scrittura diretta ed efficace ma non povera. Un autore capace di arrivare al cuore e alla mente del lettore, giovane o adulto. Un grande, la cui capacità espressiva giustifica il successo tra i lettori di tante generazioni e dovrebbe far vergognare i critici letterari che ancora si ostinano a tenerlo fuori dalle antologie scolastiche.
Ieri mi sono arrivati due numeri della rivista Prospettive.Ing su cui scrivo sin dal primo numero. Si tratta di due numeri del 2021, quello di settembre, dedicato alla “Cognitive flexibility” e quello di dicembre sul “Follow-up”.
Il primo volume contiene il mio racconto “Passaggio per Fruchtbar”, il più lungo quelli da me scritti per la cosiddetta “Saga di Fruchtbar”, nonché quello cronologicamente inziale, in quanto racconta come i due protagonisti si ritrovino ad attraversare un worm-hole e a raggiungere un pianeta nuovo cui devono trovare un modo per adattarsi. Lo faranno con mutazioni genetiche su loro stessi.
Nel secondo volume si trova, invece, il mio racconto “Ireni e rane”, che si inserisce nella saga “Via da Sparta” e mostra un gruppo di mutanti anfibi. Il racconto non è un inedito assoluto dato che fu già pubblicato in esperanto (nella traduzione di Massimo Acciai Baggiani) su “Beletra Almanako”.
In questi giorni poi sulla rivista IF – Insolito & Fantastico dedicata al “Postumano” c’è la mia riflessione “Alla ricerca di una nuova casa” sui viaggi interstellari in fantascienza e non solo.
Il mio racconto “Il pescatore” su una Firenze post-apocalittica allagata è apparso sia sul numero di Febbraio de “Il salotto” sia a marzo su “L’Italia l’Uomo l’Ambiente”, entrambe riviste di Pro Natura Firenze.
Vari altri racconti spero usciranno presto in riviste e antologie.
Periodo intenso di pubblicazioni questo per il GSF Gruppo Scrittori Firenze che dopo aver pubblicato due antologie nel 2021, “Gente di Dante” (Tabula Fati) sul poeta fiorentino e “Accadeva in Firenze Capitale” (Carmignani), esce ora con la prima antologia per il 2022 e già annuncia la prossima. Si tratta del volume curato da Nicoletta Manetti “Le sconfinate” (Carmignani) che riunisce i monologhi di 14 autori dell’associazione che danno voce a 15 donne “fuori dai confini”, contro-corrente, persino negative e violente.
Insomma non la solita antologia sulle donne e a favore delle donne, ma un volume dal quale emerge tutta la malvagità femminile, pur senza una critica verso questo sesso, che forse qui raggiunge la vera parità con i maschi: nella cattiveria, nella perversione, nella lussuria, nella violenza. “Non-eroine per eccellenza”. “A volte si tratta di donne perfide, crudeli, mostruose” si legge nella “Valutazione editoriale Premio Città di Come” che fa da prefazione al volume.
Sono soprattutto autrici ad aver aderito, ma non solo. Il primo racconto, per esempio, è di Roberto Mosi e dà voce ad Antigone che, come attraverso una sorta di macchina del tempo, parla a un gruppo di persone di oggi che sta allestendo a Pisa un’opera teatrale sull’opera sofoclea a lei dedicata. È proprio lei a parlare ma suona strano sentirle dire di precedenti contatti in videoconferenza! Una Pisa che ci narra, potrebbe avere origini, più mitiche che reali, proprio nella sua Tebe. Donna ribelle, Antigone, condannata a morire d’inedia, sepolta viva, come il Conte Ugolino, a Pisa, affinché “le nostre mani non si macchino del sangue di questa donna”. Come ai tempi dell’Inquisizione si bruciava gli eretici e le streghe per non versare il loro sangue. La condanna di Antigone è occasione per una riflessione politica: “fino a che punto lo Stato con le sue leggi più o meno arbitrarie può forzare a compiere atti aberranti”?
E poi eccoci a Cleopatra, la lussuriosa regina d’Egitto. Lussuriosa? “Amore? No, passione piuttosto, piacere senza limiti. Ossessione del piacere. Perché chiamarla lussuria? Suona spregevole?” afferma la sovrana per mano di Caterina Perrone, che ci mostra poi, con il suo punto di vista, i suoi rapporti con i grandi romani Cesare, Antonio e Ottaviano. Quest’ultimo non disposto a piegarsi al suo fascino di donna non troppo bella ma affascinante e sempre provocante, nelle movenze e negli abiti discinti.
Sceglie una serial killer Fabrizio De Sanctis, Ersébet Bathory, creatrice di macchine di tortura. Versione femminile di Barbablù (il Maresciallo De Rais di cui scrissi nel mio “Giovanna e l’angelo”), finché scelse le sue vittime tra il popolo rimase impunita. Sceglierle tra la piccola nobiltà segna la sua fine.
La vediamo ormai catturata: “Parlo al nulla. Il Nulla nel quale credete di avermi rinchiusa da… Da quanto? Non so. Non m’importa”.
Ecco poi Cristina Gatti, presidente dell’associazione, che ancora una volta si cimenta con la sua amata Mary Shelley, che ha portato anche a teatro. Una donna che è non solo la creatrice del celebre mostro, la creatura realizzata da Victor Frankestein mettendo assieme parti di cadaveri e dandogli vita, opera iniziatrice della fantascienza e nel contempo dell’horror e del romanzo gotico. Una donna che è stata anche poetessa, moglie affezionata e madre sfortunata, orbata dei suoi figli. La sua immagine più intima è quella che ci regale l’autrice.
Nel loro sconfinare queste donne non sempre diventano simboli del male, a volte il loro desiderio di andare contro le regole e il comune sentire è volto a un profondo desiderio di fare il bene, di salvare e aiutare l’umanità, non limitarsi a essere “la donna di un solo uomo. Troppo restrittivo, troppo confinato. Il mio destino è occuparmi dell’umanità intera, e posso farlo attraverso la cura e l’assistenza” fa dire l’infermiera Antonella Cipriani alla sua infermiera Florence Nightingale (1820-1910) in questo racconto ambientato durante un’altra Guerra di Crimea. Non mancano anche qui i toni cupi, un po’ pulp, anche se solo per negazione: “Adesso il fetore di escrementi, sangue rappreso, sudore, carne putrida, fogne maleodoranti è soltanto un lontano ricordo” perché “la mortalità malaria e colera è notevolmente calata”. Altri tempi, altri mali, stessi mali. Stessi anni in cui la mia bisnonna Teresita Ruata esercitava la medicina. Professione rara e difficile per una donna, che fu poi costretta ad abbandonare.
La donna scelta da Andrea Zavagli oggi l’avremmo chiamata hostess. All’epoca fu coniato un nome apposta per lei e altre come lei: lorette. Aveva inventato un modo nuovo di dare piacere agli uomini, accompagnandoli nella vita e non solo a letto. Si chiamava Rose Alphonsine Plessis ma si faceva chiamare Marie Duplessis. Di lei e della sua breve vita, stroncata ad appena ventitré anni (quante giovani vite stroncate troppo presto in questo volume, quasi un destino!), scriverà uno dei suoi amanti, Alexandre Dumas ne “La signora delle Camelie” ma anche il librettista de “La traviata” di Giuseppe Verdi.
Camille Claudel fu la modella, l’allieva e l’amante di Auguste Rodin e questo suo rapporto con il grande artista ha un po’ oscurato la sua arte. Nel racconto di Marco Tempestini la troviamo in manicomio che sogna di vivere su Marte, un pianeta dove trova finalmente la sua dimensione e tutti ne riconoscono l’autonoma grandezza.
“Non mi chiamo Suzanne. Da piccola a Montmartre, ero Marie Clementine, la figlia bastarda della lavandaia” così si presenta Suzanne Valadon nel racconto della curatrice Nicoletta Manetti. Un’artista più nota per le sue relazioni che per la sua arte, madre di Maurice Utrillo, in rapporti con pittori come Degas, Renoir e Toulouse-Lautrec. Quest’ultimo le diede il nome biblico della donna spiata dai vecchioni, per la sua attività di modella.
Nel racconto troviamo una donna alla ricerca dell’arte e dell’amore “era dell’amore che in realtà ero innamorata. Comunque, in ognuno vedevo una possibile via d’uscita. Ero bugiarda, infedele, ma a mio modo ero vera. Facevo ciò che mi andava di fare, solo quello. Ero io a scegliere”.
Gabriella Tozzetti ci parla poi di Marina Cvetaeva e del suo innamoramento per Sonja Parnok. Anche in questo racconto ritroviamo la Crimea: suggestioni di questi tempi di guerra? Eppure, i racconti dovrebbero essere precedenti.
Mi ha colpito qui un’affermazione messa in bocca al personaggio “per scrivere avevo bisogno di entusiasmarmi, provare emozioni, innamorarmi più e più volte”. Nel leggere questo volume mi sono, infatti, chiesto quale sia la differenza di approccio al tema dell’antologia tra gli autori e le autrici e più in generale che cosa distingua lo scrivere maschile da quello femminile. Forse la risposta è proprio in questo bisogno tutto femminile. Credo che un uomo per scrivere non abbia bisogno tanto di emozioni quanto di idee, di ambientazioni, di contesti. Le emozioni ci sono, ovviamente, ma vengono dopo. O forse no. Merita una riflessione.
“Ho sempre scritto per tutta la mia vita perché traboccavo di sentimenti, ma adesso non mi sono rimaste che l’umiliazione, la solitudine, la paura” scrive Gabriella Tozzetti. E io? Io ho sempre scritto perché trabocco di idee, di trame, di ambientazioni nuove, di personaggi. Umiliazione, solitudine e paura sarebbero semmai fonti d’ispirazione. Sta qui la differenza?
Arriviamo così a un racconto maschile, quello di Nicola Ronchi sulla saponificatrice di Correggio Leonarda Cianciulli. Non sarà dunque un caso se un uomo, come alcuni racconti prima Fabrizio De Sanctis, non sceglie una poetessa o una pittrice ma un’assassina? Non che questo racconto sia privo di emozioni e sentimenti, ma prevale la trama noir di questa donna malata, di cui delinea la psicologia sin dall’infanzia: “mia madre diceva che ero stata uno sbaglio”. Una donna la cui prima ossessione era: “dovevo uccidermi, dunque, e dovevo farlo in modo spettacolare, comico”.
Molti di questi racconti sono narrazioni delle protagoniste in fin di vita. Quasi che il loro essere sconfinate dovesse trovare un limite almeno nella morte.
Ecco poi alcune profezie infauste a incupire la narrazione: “avrai figliolanza, ma tutti i figli tuoi moriranno”. Sarà proprio la paura della morte del figlio a scatenare la furia omicida di Leonarda Cianciulli, dopo diciassette gravidanze con solo 4 figli sopravvissuti. Sono cose che ti provano. “Vedo nella tua mano destra il carcere e nella sinistra il manicomio”.
Ecco poi il racconto di Andrea Zurlo (non fatevi ingannare dal nome, si tratta di un’autrice argentina, non di un uomo). Quasi a voler contraddire quanto scrivevo sopra, la Zurlo sceglie, in modo forse un po’ maschile, un’eroina, Tina Modotti. Eroina? Sì, ma anche fotografa. Ecco! Personaggio che ha combattuto in Messico e Spagna. Donna determinata: “Domandati sempre chi sei e da dove vieni e dove vuoi andare. Devi decidere tu chi vuoi essere e non piegarti a diventare quello che gli altri pretendono da te, soprattutto se sei una donna” proclama all’inizio del racconto.
Gabriella Becherelli prende una sorta di macchina del tempo, un po’ come ha fatto Roberto Mosi nel primo racconto e fa dialogare Frida Kahlo e Artemisia Gentileschi in due monologhi intrecciati.
“Io sono Artemisia,” “unica donna del mio tempo a essere una pittrice. Sono venuta per presentarvi Frida, l’altra donna che ha fatto della sua vita un autoritratto”. Monologhi alternati da versi.
Sylvia Zanotto parla della scrittrice Violette Leduc e del suo amore saffico non corrisposto per Simone de Beauvoir.
L’iraniana Manna Parsì sceglie l’autrice della sua terra Forough Farrokhzad, morta giovanissima in un incidente stradale. L’autrice ci parla dei rapporti familiari e con Dio: “Mio padre mi ripeteva che Dio era buono e nessuno era come lui. Ma io, peccatrice, sapevo bene che era come tutti gli altri. Anche lui non perdonava.”.
Chiude la raccolta il più giovane degli autori di questa raccolta, Saimo Tedino (che ha anche realizzato il bel trailer dell’antologia), con un racconto che appare il più moderno nei toni oltre che nella protagonista, la cantante Amy Whinehouse che dice di sé “Potevo essere felice e invece mi sono impegnata a essere triste.” Troppo alcol e troppe droghe. “Amy, tu ami chi non ti vuole, tu ami chi non sa amarti” le ripete ossessivo l’amico Reg, che le dice anche “Io non voglio essere complice della tua morte.”
Alla fine, però, vediamo anche lei, troppo giovane, in fin di vita: “Sono morta guardando me stessa. Una pesciolina in un acquario di vodka e vergogna.”
Si chiude così questa rassegna di anti-eroine, ma l’avventura non finisce. Il Gruppo Scrittori Firenze, sta già programmando un altro volume sulle donne, non più donne della storia, ma donne nate dalla letteratura, dal cinema, dal fumetto, all’immaginario. Non so come si chiamerà il nuovo volume ma dentro di me lo chiamo già “Le immaginarie”.
Intanto, si parlerà ancora de “Le sconfinate” lunedì 22 marzo 2022 alle 17,30 alla BibiloteCanova, via Chiusi 4/3 A (Firenze). È richiesta la prenotazione.
Quando si nomina la famiglia Medici, molti credo penseranno a Lorenzo Il Magnifico o semmai a Cosimo I, ai papi Leone X, Clemente VII, Leone XI o a Caterina. Ben pochi penseranno a Ferdinando II e quelli che lo faranno difficilmente lo considereranno uno dei grandi della famiglia. Eppure, Ferdinando II, (Firenze, 14 luglio 1610 – Firenze, 23 maggio 1670), quinto Granduca di Toscana fu un abile diplomatico che seppe mantenere l’autonomia e l’indipendenza in un difficilissimo periodo di lotte tra Spagna e Francia.
Ce ne parla l’interessantissimo volume “Il principe e il diplomatico” sottotitolo “Ferdinando II tra il destino e la storia”, scritto da Alessandro Lazzeri per Edizioni Medicea.
Un personaggio, insomma, che fece della “finta mediocrità” del suo essere la propria grandezza, riuscendo persino a influenzare, tramite magari Roma e la Chiesa, le due superpotenze dell’epoca, a donare “una relativa tranquillità alla Toscana e anche ad accrescerne il territorio”.
Prima, principe bambino, riesce a svincolarsi dalla bigotta e opprimente reggenza della madre Maria Maddalena d’Austria e della nonna Cristina di Lorena, troppo asservite al papato.
Promesso in marito all’infante (di un anno) Vittoria Della Rovere, con l’intento di unire il Granducato al Ducato di Urbino, si ritrova con un nulla di fatto.
Se i suoi predecessori furono grandi mecenati (seppur con i soldi altrui), egli cerca di salvare Galileo Galilei dalla sua condanna.
Affronta persino la peste, costringendo la gente a stare in casa e facendo celebrare messa nelle strade tabernacolari. In quei tempi le preghiere parevano quasi la sola cura!
Affronta poi personaggi della levatura di Richelieu e Mazzarino, riuscendo, come si diceva a mantenere l’indipendenza.
Ma non voglio dire altro e vi lascio a quest’istruttiva lettura.
Immaginate una famiglia, padre, madre, figlia e cane. La madre si ammala gravemente e muore. I nonni chiedono di avere la nipote in affido. Non riuscendoci con le buone, accusano il genero di violenza sessuale, sfruttando una nipote offesa per essere stata respinta dal padre della bambina. Già sarebbe una trama discreta e sufficiente per un romanzo, ma non poi così originale.
Garth Stein (Los Angeles, 6 dicembre 1964), scrivendo “L’arte di correre sotto la pioggia” (2008) non si accontenta e immagina che il padre sia un pilota di auto da corsa e condisce il romanzo con metafore e confronti tra la vita e le corse automobilistiche, con ampi riferimenti alle imprese di alcuni celebri piloti di formula uno.
Vi basta? L’autore ha un’ulteriore trovata: il punto di vista e la voce narrante. Non sono quelli del padre, né della bambina, ma del cane. È Enzo, così si chiama l’animale, a raccontarci le vicende del suo padrone, alla disperata ricerca di un modo per riavere la sua bambina e nel frattempo non perdere un lavoro che ama molto. Con dei nonni davvero perfidi a contrastarlo. Un cane che vorrebbe essere uno scrittore lui stesso, un po’ come Snoopy.
Ne viene fuori una storia inevitabilmente commovente (madri morte, figlie strappate al padre, ragazzine innamorate e scioccamente crudeli), ma alleggerita e vivacizzata dallo sguardo canino. Un cane, va detto, quanto mai umanizzato, tanto che pensa di potersi reincarnare, in una seconda vita, in un uomo. Così umanizzato che segue la TV, se ne intende di automobilismo e sogna di avere un apparato come quello di Stephen Hawking per poter parlare e raccontare tutto quello che sa e ha capito. Un cane davvero intelligente, sensibile e colto. Un po’ come la portiera de “L’eleganza del riccio” di Barbery o quello de “Il giorno prima della felicità” di De Luca. Una finzione letteraria ma che ha il suo senso. Qui è ancora maggiore, però, perché si parla di cani. Mi viene allora anche in mente “Cujo” di King, ma lì il cane non parlava e il male ne prendeva possesso, mentre Enzo, a parte le follie delle notti in cui è dominato dalla zebra di pezza (passaggi memorabili, in effetti), si mantiene buono e saggio.
Garth Stein
Visto che si parla di cani e di corse, non posso non ricordare “Qualcuno con cui correre” di Grossman. Altro tipo di libro, con un cane, che fa da ponte tra un ragazzo e una ragazza. Già: i cani non sanno parlare, forse vorrebbero come Enzo, ma a volte aiutano a comunicare. Come qui Enzo interroga Denny sulla figlia che il cane può incontrare e lui no e come quando la piccola Zoë reclama il suo cane, unico appiglio con quella che era stata la sua casa e la sua famiglia.
Se Stein raffronta la vita alla Formula Uno, Murakami ne “L’arte di correre” lo fa piuttosto con la corsa a piedi. Penso allora anche alle passeggiate di Hanke ne “Il grande evento”.
Ma per il resto sono tutti libri diversi da questo.
Molto dello spirito del romanzo credo che sia nelle parole che si leggono verso la fine:
“I piloti sono spesso definiti egoisti ed egocentrici. L’ho fatto anch’io questo sbaglio. Per essere un campione, un pilota non deve averlo proprio, l’ego. Non deve esistere come entità separata. Deve darsi interamente alla gara. Essere la propria scuderia, la propria vettura, le proprie scarpe, le proprie gomme, solo quello. La sicurezza e la consapevolezza di sé non devono essere confuse con l’egocentrismo.”
Solo se ci sentiamo parte del tutto, se siamo parte del tutto, possiamo vincere. Pensiero che mi suona piuttosto orientale ma che si va facendo spazio anche da noi. Bene.
Assai importante sono anche la perseveranza e la tenacia, grazie alle quali Denny riesce a “guidare nonostante la pioggia” che tormenta la sua vita. Insomma, un libro che non si limita a raccontare.
“La materia del cosmo” (2008) di Cixin Liu (Yangguan, 1963) è il seguito del geniale romanzo “Il problema dei tre corpi” (2008) con il quale questo autore ha dimostrato che la fantascienzacinese è ormai pari se non superiore a quella occidentale, reinventandola a partire dall’hard sci-fi classica.
Sebbene ne sia il seguito, “La materia del cosmo” si presenta come romanzo del tutto autonomo e ben leggibile senza aver letto il prequel e, soprattutto, come opera ricca di nuove interessanti invenzioni, che arricchiscono la saga, anziché limitarsi a riprenderne le pur validissime idee iniziali.
Il romanzo appare forse meno sorprendente del primo e forse necessita di qualche pagina di lettura per riuscire a ingranare ed entrare in sintonia con l’autore, ma se ci riuscirete potrete scoprire che la capacità di manipolare la scienza a fini narrativi di Cixin Liu è davvero più che degna di quella dei grandi maestri degli anni ’50.
Se c’è un tema che lascia molto perplessi gli amanti della fantascienza credo sia come mai non abbiamo ancora incontrato nel mondo reale una civiltà aliena.
La risposta che mi sono dato è che la tecnologia è letale per le specie che se ne avvalgono e spesso le porta a un’estinzione precoce o per guerre nucleari o per devastazione delle risorse del proprio pianeta.
Cixin Liu ha un’altra idea: non possiamo sapere se un’altra specie sia aggressiva o no e questa non può saperlo di noi. Inoltre, le civiltà evolvono in modo esplosivo (in brevissimo tempo rispetto ai tempi geologici o dei viaggi spaziali), dunque anche una specie poco progredita al momento del contatto radio, potrebbe diventarlo molto di più dopo aver attraversato lo spazio tra le due stelle. Dato quindi che non ci si può fidare, tutte le specie intelligenti si nascondono, per non farsi scoprire.
Non posso non pensare alla bella saga “Invasione” di Turtledove, in cui gli alieni arrivano durante la seconda guerra mondiale immaginando di trovare ancora i barbari come ai tempi in cui giunse la loro sonda.
Solo l’umanità è stata così sciocca da gridare all’universo la propria presenza. I trisolariani partono così in un viaggio di quattrocento anni per distruggerla. Nel frattempo hanno inviato sulla terra delle particelle dette sofoni con cui la studiano e spiano per prevenirne le mosse.
Poiché solo le menti umane non possono essere spiate dai sofoni, l’umanità dà pieni poteri a quattro uomini, detti Impenetrabili, affidando loro il compito di elaborare, ciascuno per conto suo, delle difese per la Terra.
Liu Cixin
Il progetto Impenetrabili sembra fallire e uno di loro rimane a lungo ibernato. Quando si risveglia l’umanità pensa di non aver più bisogno di lui perché s’illude di stare per vincere lo scontro con i trisolariani. Ovviamente è solo un’illusione e la soluzione che troverà l’Impenetrabille sarà quanto mai estrema. Narrativamente il finale mi pare una bell’evoluzione della space opera, piuttosto originale.
Romanzi questi di Liu Cixin ricchi per la capacità di usare la scienza come base della narrativa, per le riflessioni ai limiti del filosofico sulla natura delle cose, sull’evoluzione sociologica delle civiltà.
Il romanzo pare autoconclusivo, ma fa parte di una trilogia. Sarà difficile non leggere anche il terzo: “Nella quarta dimensione”.
Nato a Roma il 3 Gennaio 1964, dove si laurea in Economia e Commercio, vive a Firenze, dove lavora nel project finance.Con la moglie Antonella, ha una figlia, Federica.
Pubblica con Liberodiscrivere Il Colombo divergente (2001), Giovanna e l’Angelo (2007), Ansia assassina (2007), Jacopo Flammer e il Popolo delle Amigdale (2010), il romanzo collettivo illustrato Il Settimo Plenilunio (2010), la raccolta di testi a quattro mani Parole nel Web (Liberodiscrivere, 2007) e cura l’antologia collettiva Ucronie per il Terzo Millennio (2007).
Sperimenta le tecniche del web-editing e del copyleft per il secondo volume della serie I Guardiani dell’Ucronia (Jacopo Flammer nella Terra dei Suricati (2013) e per La Bambina dei Sogni (più edizioni tra il 2012 e il 2013). Il Settimo Plenilunio e Jacopo Flammer nella Terra dei Suricati sono romanzi illustrati da numerosi artisti (c.d. gallery novel). Con Porto Seguro Editore pubblica in tre volumi Via da Sparta: Il sogno del ragno (2017), Il regno del ragno (2018), La figlia del ragno (2019), nonché il saggio Il narratore di Rifredi (2019).
Tabula Fati nel 2019 pubblica la sua raccolta di racconti Apocalissi fiorentine, opera finalista al Premio Vegetti 2021, il cui racconto Collasso domotico è stato scelto per il volume Mondi paralleli – Il meglio della fantascienza italiana indipendente 2019 (edito da Delos e vincitore del Premio Italia); e nel 2020 la fan-fiction di sette autori Sparta ovunque (Tabula Fati), finalista al Premio Vegetti, ispirata ai romanzi della saga Via da Sparta.
Cura con Caterina Perrone l’antologia Gente di Dante (Tabula Fati, 2021).
Pubblica con Massimo Acciai Baggiani il romanzo di fantascienza ESP “Psicosfera” (Tabula Fati, 2022)
Ha inoltre pubblicato vari racconti, poesie, articoli, recensioni e altro in antologie, riviste e siti internet
Su di lui sono stati scritti i saggi “Il sognatore divergente” (Porto Seguro Editore, 2018) di Massimo Acciai Baggiani e “Suggestioni fiorentine nella narrativa di Carlo Menzinger” (Solfanelli Editore, 2022) di Chiara Sardelli.
PSICOSFERA - Non siamo soli sulla Terra. Non lo siamo mai stati.
Apocalissi Fiorentine – Gruppo Editoriale Tabula Fati
GENTE DI DANTE - antologia del Gruppo Scrittori Firenze curata da Carlo Menzinger e Caterina Perrone
Sparta ovunque – 7 racconti di 7 autori ambientati nel mondo di “Via da Sparta”
Mondi paralleli – Il meglio della fantascienza indipendente italiana 2019
La figlia del ragno (Via da Sparta) Porto Seguro Editore
Il sognatore divergente – La produzione letteraria di Carlo Menzinger di Preussenthal tra ucronia, fantascienza e horror – di Massimo Acciai Baggiani – Porto Seguro Editore
SUGGESTIONI FIORENTINE NELLA NARRATIVA DI CARLO MENZINGER (Solfanelli Editore, 2022) di Chiara Sardelli
SUGGESTIONI FIORENTINE NELLA NARRATIVA DI CARLO MENZINGER - Chiara Sardelli ricerca i riferimenti storici, geografici e culturali fiorentini nell'antologia "Apocalissi fiorentine"
Il regno del ragno (Via da Sparta) – Porto Seguro Editore
Il sogno del ragno (Via da Sparta) – Porto Seguro Editore
La Bambina dei Sogni – Edizioni Lulu ed ebook gratuito
Il Colombo divergente – Edizioni Liberodiscrivere
Giovanna e l’angelo – Edizioni Liberodiscrivere
Ansia assassina – Edizioni Liberodiscrivere
Jacopo Flammer nella Terra dei Suricati – Edizioni Lulu ed ebook gratuito
Jacopo Flammer e il Popolo delle Amigdale – Edizioni Liberodiscrivere
Il narratore di Rifredi – Porto Seguro Editore
Il Settimo Plenilunio – Edizioni Liberodiscrivere
Parole nel Web – Edizioni Liberodiscrivere
Ucronie per il Terzo Millennio – Edizioni Liberodiscrivere
Il Terzultimo Pianeta – Ed. Lulu ed E-book gratuito
Schiavi part-time – Ed. Lulu ed ebook gratuito
Spada di inchiostro – Ed. Lulu ed ebook gratuito
Sangue blues – Ed. Lulu ed ebook gratuito
Rossi di sangue sono dell’uomo l’alba e il tramonto – Ed. Lulu ed ebook gratuito
Carlo Menzinger è membro del GSF -Gruppo Scrittori Firenze
Carlo Menzinger, membro del Consiglio Direttivo del GSF dal 2019, ne ha curati con Barbara Carraresi gli incontri letterari, gestisce il blog e dal 2022 coordina il Premio Letterario La Città sul Ponte. Nel 2021 ha curato, con Caterina Perrone, per il GSF l'antologia "Gente di Dante".
Carlo Menzinger è membro dell’associazione degli autori di fantascienza “World SF Italia”