Il 18 giugno del 2010 ho scritto, queste righe con ancora il sapore di sangue in bocca, non metaforicamente per via della lettura, ma perché in quei giorni la mia dieta consisteva in gelati e sangue fresco. I gelati me li aveva prescritti il dentista, il sangue è quello che continuava a scorrermi in bocca dopo l’estrazione del dente del giudizio. Dunque quale momento migliore per descrivere la nascita del romanzo gotico e dell’apparizione del vampiro nel romanzo europeo?
Mentre ero in sala d’attesa, ho infatti finito di leggere un volumetto intitolato “Il vampiro” pubblicato da Edizioni Studio Tesi. L’autore che figura in copertina è John W. Polidori. Il libro, in realtà, riunisce più scritti, dei quali solo quello che reca il titolo in copertina è del su menzionato autore. Il testo comprende anche un “Frammento” di Lord Byron e un racconto di Anonimo proveniente dalla tradizione popolare. Vi sono inoltre vari brani di commento e, per me, la parte più interessante è proprio l’Antefatto di Giovanna Franci e Rosella Marangoni, in cui si spiega come in questo volumetto vi siano racchiuse le origini romanzate di questa figura leggendaria.
A quanto si legge in una sera del giugno 1816, nel salotto di Villa Diodati, vicino Ginevra, alcuni personaggi illustri della letteratura si riunirono e, per gioco, inventarono il romanzo gotico.
Si trattava di Lord Byron, Mary Wollstonecraft, il futuro marito di lei Percy Shelley e la di lei sorellastra (nonché amante di Byron) Claire Clairmont, nonché il medico di Byron, Polidori.
Byron e Shelley si erano già cimentati con i temi della paura rispettivamente con “Giaour” (1813) e il racconto “Incubo” (1810), che Shelley aveva scritto con il cugino Thomas Medwin. Mary Shelley, dopo quella sera, avrebbe realizzato il suo celeberrimo “Frankestein”.
Fu Byron, in tale occasione, a proporre che ognuno scrivesse un racconto che parlasse di vampiri e scrisse appositamente il “Frammento” presente nel volume di cui scrivo. Lì per lì Polidori non scrisse nulla. Più avanti, però, utilizzando il “Frammento” di Byron, una storia incompiuta, ne riprese vari elementi, sviluppandola.
In entrambi i brani, così come in quello di Anonimo intitolato “La sposa delle Isole”, il vampiro compare con molte delle caratteristiche moderne: è un nobile signore dai modi misteriosi, ha un grande fascino e un incredibile potere di seduzione, necessita del sangue di una giovane donna (vergine per l’Anonimo), inganna un altro gentiluomo che si illude di poter essere suo amico, risorge misteriosamente.
Mancano ancora i famosi canini accuminati, non si dice che soffra il contatto con la luce, è però pallido in quanto, tornato innaturalmente in vita, il sangue non scorre più regolarmente nelle sue vene. Inoltre si ciba normalmente (per l’Anonimo non usa il sale – orrore!) e dorme come tutti, non certo in una bara. Per l’Anonimo, nel momento in cui non riesce a portare a compimento la propria missione di sposare la vergine e nutrirsi del suo sangue finché dura la luna di Halloween, il vampiro scompare dissolvendosi nel nulla. Non vive ancora nei Carpazi ma in Inghilterra. Il cimitero appare come scenario già nel “Frammento”.
Il mito del vampiro trae le sue origini dalle leggende popolari di gran parte dell’Europa e si collega a figure di esseri non-morti presenti in numerose culture umane. Tra i non-morti il vampiro si caratterizza per l’abitudine di succhiare il sangue. Il termine ha origine slava. Come figura nasce dall’antica paura che un morto possa tornare in vita e tormentare i viventi. L’usanza di seppellire i morti può avere motivazioni igieniche, ma il deporre sulla tomba pesanti lapidi, sembra riconducibile alla medesima paura.
Pare che il più antico testo che parli di esseri simili a vampiri sia una tavoletta babilonese su cui è incisa una formula magica per proteggersi dagli etimmé, i demoni succhia-sangue.
Di simili esseri parlano anche gli antichi romani (Filostrato e Flegone Tralliano) e il mito trova sviluppi in epoche successive.
Dunque, se né Polidori né Byron sono certo gli inventori della figura del vampiro, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, ne sono peraltro gli iniziatori della tradizione letteraria moderna che ancora oggi, a due secoli di distanza ha tanto successo e seguito fino ai recenti romanzi della Meyer o all’ancora più recente “Il Settimo Plenilunio” (Edizioni Liberodiscrivere), di cui ho avuto l’onore di essere il curatore, nonché uno degli autori.
Non sono riuscito a capire se "La sposa delle Isole" è antecedente o successivo al Frammento di Byron e come mai il vampiro si chiami Lord Ruthven anche nel brano dell'Anonimo, se Polidori abbia scelto quel nome copiandolo dal romanzo "Glenarvon" con cui Lady Caroline Lamb si prendeva gioco del suo ex-amante Lord Byron, chiamandolo proprio Lord Ruthven. Da dove nasce questo nome?
Firenze, 18/06/2010
Archive for marzo 2011
27 Mar
Il nonno di tutti i vampiri
24 Mar
24 Marzo 2011: Giornata Nazionale per la Promozione della Lettura
Chi si è accorto che oggi è la
Giornata
Nazionale
per la
Promozione
della
Lettura?
Per ricordarla voglio riportare una frase di Flaubert, apparsa oggi su La Repubblica:
"Non leggete per divertirvi, come fanno i bambini,
o per istruirvi, come gli ambiziosi.
No: leggete per vivere."
19 Mar
Quando emigravamo
Di questi tempi, guardando cinesi, arabi e altri c.d. “extra-comunitari”, troppo spesso gli italiani fanno la faccia storta e sembra si siano dimenticati di aver disseminato per il mondo circa 80 milioni di oriundi italiani. Solo i nostri connazionali fuori Italia sono oltre 4 milioni. Si calcola che tra il 1876 e il 1925 partirono circa 14 milioni di persone.
“La luna e il falò” di Cesare Pavese ci parla di un ritorno. Il ritorno dall’America di un emigrante piemontese. Il suo è un viaggio nella memoria, alla ricerca degli antichi sapori e delle antiche sensazioni, dei luoghi e delle persone lasciati tanti anni prima.
Molto è cambiato, tante delle persone care sono scomparse, eppure la miseria ancora non è passata in quelle valli piemontesi. Perché è proprio del Piemonte che si parla e non della Calabria o della Basilicata. I nostri emigranti partivano anche da lì. Anche lì c’era una miseria profonda e anche lì si faticava a campare. Questo ci ricorda Pavese. Il suo non è un libro di denuncia, ma il diario nostalgico di chi, in fondo, rimpiange quella vita povera. La rimpiange
non perché allora vivesse meglio, ma per l’infanzia e la gioventù perduta.
Anche se non pare l’intento principale di questo romanzo, però la riflessione principale che mi ha indotto è proprio sulla vita “essenziale” di un tempo, comune a tanti italiani, da nord a sud. Una vita in cui i ragazzi giocavano con i sassi e non con le playstation e in cui mangiare un pezzo di carne era un lusso. E non erano poi tanti anni fa. Il romanzo è del 1950 (fu scritto pochi mesi prima che Pavese si suicidasse) e gli anni di cui parla sono quelli del dopoguerra.
Citazioni:
Fu così che cominciai a capire che non si parla solamente per parlare, per dire “ho fatto questo” “ho fatto quello” “ho mangiato e bevuto”, ma si parla per farsi un’idea, per capire come va questo mondo.
(pag.84)
Sono dei libri – disse lui, – leggici dentro fin che puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.
(pag. 98)
12 Mar
Il Tempo ucronico di Lost

Evangeline Lilly, Kate in Lost
Non amo la televisione e non amo i telefilm. Credo che siano passati anni da quando ne ho seguito una serie in TV.
Di LOST però mi avevano parlato molto bene e ho voluto provare. Sono partito dalla Prima Stagione e sono arrivato alla Sesta e Ultima senza stancarmi, perché la storia è davvero ben congegnata e riesce sempre a sorprendere, cambiando punti di vista.
Ma Lost in realtà non è un telefilm. E non è neppure uno sceneggiato, sebbene la sua trama si dipani lungo tutte le puntate delle varie Stagioni che lo compongono. LOST è una rivoluzione letteraria. LOST è qualcosa che sta cambiando non solo il modo di fare telefilm ma anche di fare letteratura, di scrivere romanzi.
Non tenere conto della sua lezione sarebbe un errore per qualunque autore, di romanzi o di cinema, che volesse considerarsi figlio del XXI secolo.
LOST è innanzitutto un’opera complessa. Come nelle soap opera abbiamo, infatti, varie storie che si intrecciano, vari personaggi da seguire per numerose puntate, ma qui l’intreccio è più sofisticato. I protagonisti sono effettivamente un gruppo e hanno una storia comune ma i punti di vista della storia cambiano continuamente (ricordate l’occhio che compariva nelle prime puntate a introdurre, con un certo senso d’angoscia, un nuovo personaggio e un nuovo punto di vista?).
Un po’ come in “Roma eterna” di Silverberg anche qui c’è un vero protagonista non umano che tutti sovrasta. In Roma Eterna era l’impero romano. Il meccanismo è noto in letteratura. Di recente ne ha abusato anche Follett nel suo “La caduta dei Giganti” in cui protagonista è l’Europa o forse il Mondo. Qui protagonista è l’Isola, che ha un suo carattere e una sua personalità. E un suo mistero!
Non è però Il Protagonista ma uno dei tanti, perché ciascuno lo è a modo suo.
Moltissimo ci sarebbe da dire di LOST, della sua filosofia (avete notato che i protagonisti portano i nomi di filosofi e fisici? Hume, Locke, Rousseau, Faraday, Hawking), della sua mistica, della logica continuamente rovesciata, dei suoi misteri, della doppiezza di molti personaggi, ma qui vorrei parlare di una sola cosa: il tempo. O meglio del geniale uso del Tempo fatto dai creatori di questa storia.
Innanzitutto LOST ci affascina grazie al sapiente uso del flashback. Prima di cominicare a vederlo mi chiedevo: come si possono fare tante puntate su un gruppo di naufraghi? Alla fine le loro vicende diventeranno ripetitive, pensavo. Avevo in mente Robinson Crusoe e le sue peripezie per la sopravvivenza e tutti i suoi emuli. Le difficoltà dell’uomo moderno in un mondo selvaggio, invece, sono un elemento quasi assente in Lost.
Ebbene il meccanismo del flashback rende subito vana questa riflessione: abbiamo tanti personaggi e di ognuno scopriamo oltre al suo presente anche il suo passato, dilatando all’infinito il piano narrativo.
E siamo solo alla Prima Stagione. Nella Quarta Stagione (se non ricordo male) la gestione del tempo narrativo fa un nuovo salto in avanti introducendo un meccnismo più originale del flashback, che del resto è antico come la letteratura, dato che c’era persino nell’Odissea: il flashforward. Certo non è una novità, ma è sicuramente uno strumento più raro. Ecco dunque che la storia si svolge su tre piani temporali distinti contemporaneamente: passato, presente e futuro.
Ma fino alla fine della Quarta Stagione il movimento attraverso il tempo rimane un artificio narrativo, con la Quinta Stagione abbiamo una vera e propria rivoluzione nell’impostazione della storia e il Tempo diventa esso stesso protagonista della narrazione: i personaggi cominciano a muoversi avanti e indietro nel tempo, con veri e propri viaggi alla Wells.
Si dovrebbero allora verificare i paradossi classici della fantascienza sui viaggi nel tempo. Lo stesso Daniel Faraday (il fisico, il suo omonimo è famoso per la “costante”) afferma che quel che è stato è stato e che quindi il passato non può essere modificato ma poi scopre di essersi sbagliato, di non aver considerato le variabili (“le variabili siamo noi”), dunque il presente può essere modificato agendo sul passato. Sarà questo che vedremo nella Sesta Stagione, mi chiedevo alla fine della Quinta? È questo che spiega come John Locke fosse morto e poi sia tornato in vita?
Se così fosse, anche la concezione fisica del tempo in LOST sarebbe innovativa, considerando il tempo non più come lineare (come è comunemente inteso) ma magari come un frattale dalle infinite divergenze e possibilità.
Proprio come immaginavo i primi episodi della Sesta Serie hanno confermato quest’impostazione e Lost, magicamente, si è trasformato in una sorta di ucronia.
Durante la Prima Stagione immaginavo che il senso e la ragione di tutto quel che accadeva, il motivo percui i naufraghi erano lì fosse perché in realtà erano tutti morti e si trovavano in una sorta di limbo in cui attendevano di passare nell’Oltretomba, con gli Altri che parevano una sorta di razza di demoni/ angeli incaricati di vegliare su di loro, idea confermata più avanti dalla scoperta di notizie provenienti dal mondo esterno che parlavano del loro volo aereo come sprofondato in mare e senza superstiti.
La meraviglia di Lost però è che, appena hai una teoria sui suoi perché, gli episodi successivi la contraddicono, pur mantenendo una logica possibile. Si scopre, ad esempio, che l’aereo affondato è solo un trucco.
Ed eccoci alla Sesta Serie. I primi episodi ci fanno capire che è tutto vero. Tutto quello che abbiamo visto e immaginato succede ed è veramente successo. È vero che il volo Oceanic è naufragato sull’isola e che i passeggeri si sono quasi tutti salvati, è vero che i passeggeri dell’Oceanic sono tutti morti, forse è vero che solo sei di loro si sono salvati e sono riusciti a tornare a casa ed è vero che l’aereo non ha mai avuto incidenti ed è atterato regolarmente.
Come può esserre tutto vero?
Lo è se immaginiamo che il tempo, come scrivevo, non sia una linea retta, ma che esistano tanti tempi alternativi, un tempo per ogni “se”, un tempo in cui siamo morti e un tempo in cui siamo vivi, tempi che scorrono “assieme”, ognuno in una direzione divergente.
È esattamente la stessa concezione del Tempo che sta alla base del ciclo di romanzi “I Guardiani dell’Ucronia” di cui ho appena pubblicato il primo volume “Jacopo Flammer e il Popolo delle Amigdale”, la stessa idea alla base dei miei precedenti romanzi “Il Colombo divergente” (2001) e “Giovanna e l’angelo” (2007). Per questo Lost sembra quasi un’ucronia, anche se non lo è del tutto dato che quella che muta una storia inventata, non la Stroria dell’umanità. Siamo dunque dalle parti di “Slidding Dors” e di “Ricomincio da capo”.
Questo, però, è vero solo fino a un certo punto. Se si fossero fermati lì, gli autori di questi telefilm, avrebbero trovato la via per un finale più aperto e, per me, più soddisfacente.
Probabilmente devono aver ritenuto che far accettare una simile visione del Tempo fosse troppo difficile e che il pubblico avrebbe potuto rimanerne deluso e, soprattutto, confuso.
Così negli ultimi episodi hanno dato una nuova sterzata alla trama, deludendomi per la prima volta, e hanno cercato un finale che potesse spiegare tutto, ma che fosse anche semplice e rientrasse nella visione comune delle cose (immagino possano essere queste le loro motivazioni). Sono dunque tornati indietro nella trama e hanno preso quello che già all’inizio sembrava il senso della vicenda, quasi dimenticandosi della ricchezza delle vicende narrate, delle incredibili svolte del racconto a e hanno trovato un finale in cui
(ATTENZIONE: STO PER RIVELARVI IL FINALE, SE NON LO VOLETE CONOSCERE NON ANDATE AVANTI)
tutti scoprono di vivere in una sorta di limbo, di essere lì perché hanno delle questioni in sospeso (questo lo sapevamo già nella Prima Stagione!) e che potranno andarsene quando saranno pronti. Alla fine si ritroveranno tutti assieme in una Chiesa (!!!!!!) e si preparenno al grande passaggio. Tutti assieme! Possibile che un simile momento arrivi per tutti nello stesso momento? Le vie del Signore sono misteriose! Possibile, però che un telefilm così debba finire in modo così banale e melenso?
Non era meglio se c’avessero lasciato capire, come sembrava, che tutto è possibile, che per ogni Vita ci sono infinite Vite alternative, per ogni Scelta diverse conseguenze, diverse Vite?
Tutto avrebbe avuto un senso.
Così ogni vicenda dei protagonisti si riduce a un inutile delirio. Certo tutto serve per espiare i propri peccati terreni e per sentirsi pronti al trapasso, ma le loro avventure sembrano eccessive per uno scopo simile.
Peccato! Speriamo solo che si pentano di questo finale e ci dicano che è solo un sogno di Jack o un’altra delle sue possibili Vite, ma che un Finale, uno solo, per una storia così non c’è, non può esserci.
Hanno detto, però, che la Sesta Serie è l’ultima e, in effetti, rimediare al danno, ormai è difficile.
Leggi anche:
– La FIlosofia di Lost
10 Mar
La colazione di Audrey Hepburn
Dicendo “Colazione da Tiffany” mi viene in mente più facilmente Audrey Hepburn, piuttosto che Truman Capote e credo che possa essere così anche per molti altri.
Colazione da Tiffanyè, come recita wikipedia, un film americano del 1961 con Audrey Hepburn e George Peppard, tratto dall'omonimo romanzo di Truman Capote e diretto da Blake Edwards.
L'interpretazione della eccentrica, ingenua e mondana Holly Golightly è generalmente considerata la miglior performance di Audrey Hepburn. Lei stessa disse che quello fu uno dei ruoli più difficili da recitare, perché lei era timida e doveva interpretare un'estroversa. La scena in cui la Hepburn canta Moon River sicuramente aiutò Henry Mancini e Johnny Mercer a vincere l'Oscar per la miglior canzone. Inoltre il film segna il culmine della carriera cinematografica di George Peppard.
Pur non avendo visto il film, associavo, come dicevo il titolo più facilmente a questo che al romanzo di Truman Capote e il riferimento alla lussuosa gioielleria, nonché l’elegante immagine della Hepburn me ne avevano trasmesso un’immagine distorta, come di una storia leggera, di pranzi alla moda e belle donne.
Si tratta, invece, di altro, come si può capire pensando a chi sia l’autore, che, come leggo sempre su wikipedia si definiva “Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio.”
L’ambientazione, infatti, non è in lussuosi hotel ma in piccoli appartamenti d’affitto, quelli abitati rispettivamente dalla bella Holly Golightly e dal suo vicino, la nostra voce narrante.
La protagonista non è una ricca dama dell’alta società ma quella che in questi giorni berlusconiani chiameremmo ridicolmente un’hescort. Una ragazza briosa che affascina e conquista con il suo anticonformismo, ancor più accentuato in un’epoca, il 1958 americano, ancora fortemente puritana. Una ragazza, sebbene intelligente e determinata, non priva di una certa ingenuità, che la porterà a rimanere vittima involontariamente di una storia di droga.
Un romanzo piuttosto breve, che si legge con piacere, scoprendo e imparando ad amare questa donna che non ci riesce di pensare senza il volto delicato della Hepburn.
Uno dei migliori, trai tanti, spaccati di vita americana del secondo dopoguerra, che cinema e letteratura ci hanno regalato a larghe mani.
Firenze, 23 Agosto 2009
2 Mar
SCRIVERE A PIÚ MANI: la mia collaborazione con Simonetta Bumbi
Conobbi Simonetta Bumbi alcuni anni fa sul sito del mio editore www.liberodiscrivere.it. All’epoca compariva con il nickname simy* e i suoi messaggi erano pieni di svolazzanti farfalline viola.
Era una poetessa che scriveva con grande libertà, senza vincoli metrici o l’ingabbiamento delle rime, abbinando le parole tra loro con uno stile tutto suo.
Io mi sono sempre considerato più un romanziere che un poeta, ma qualche poesia l’ho scritta anch’io, soprattutto in “gioventù”.
Quando un giorno, dunque, pensammo, di scrivere qualcosa assieme, non poteva che trattarsi di una poesia.
Avevo già sperimentato la scrittura a più mani già in diverse occasioni, in particolare con il romanzo “Se sarà maschio lo chiameremo Aida” scritto con Andrea Didato. Scrivere un racconto o un romanzo in due è qualcosa di molto diverso dallo scrivere assieme una poesia, essendo questa qualcosa di assai più personale e, spesso, intimo.
Risolvemmo la cosa realizzando una vera e propria storia in versi. L’idea non era quella di scrivere un’opera lunga, ma il gioco c’è piaciuto e siamo andati avanti a lungo, scambiandoci numerose e-mail. Il risultato è stato l’e-tragicommedia in versi “Cybernetic love”, quasi un soggetto teatrale in più atti, pubblicato in seguito da Liberodiscrivere nel volume “Parole nel web”, in cui Simonetta ha potuto esprimere la sua grande sensualità narrativa.
“Cybernetic Love” si basa su due o tre idee fondamentali:
- è scritto parafrasando i classici della letteratura;
- è scritto utilizzando termini informatici e, specificamente, del web;
- è ambientato in una chat.
La trama è abbastanza semplice: descrive un triangolo amoroso con relative gelosie e finale tragico.
Credo che l’abbinamento dei versi aulici della letteratura antica (Eschilo, Sofocle, Shakespeare, Omero e altri, tanto per intenderci), riscritti utilizzando termini come mainframe, chat, link, firewall, abbia un effetto strano, quasi comico, che contribuisce a evidenziare il sapore ironico di questa storia pur altamente tragica.
Alla fine abbiamo strutturato il racconto in alcuni “Atti”, come una tragedia greca.
Quando lo pubblicammo per la prima volta (a puntate) sul sito www.liberodiscrivere.it, raccogliemmo discreti consensi e alcuni ci suggerirono di farne una rappresentazione teatrale. Idea che ancora mi frulla in testa.
Un giorno poi, decisi di mettere su carta le cose principali che avevo scritto “a quattro mani”.
Realizzammo così il volume “Parole nel web”, che, come detto sopra, è stato pubblicato nel 2007 da Liberodiscrivere.
Per completarlo pensai potesse essere carino scrivere un racconto con tutti gli autori della raccolta. Avrei voluto cioè che potesse essere scritto da Sergio Calamandrei, Andrea Didato, Simonetta Bumbi e me. Scoprii però, con mio grande dispiacere, che Andrea Didato era morto!
Decidemmo di andare avanti lo stesso e così cominciammo a scrivere il racconto a sei mani. Come già era successo le altre volte il racconto diventò un romanzo! Credo che sia quasi inevitabile per le opere scritte da più autori. È qualcosa che deriva dalla tecnica stessa di scrittura: ognuno aggiunge sempre qualcosa, corregge sempre qualcosa e il lavoro stenta a vedere una fine. È solo nella dimensione del romanzo breve (o della rappresentazione teatrale come nel caso di “Cybernetic Love”), che si riesce a dire: bene, qui c’è abbastanza di tutti noi, qui tutti noi siamo riusciti a dire quello che volevamo.
Il romanzo che abbiamo scritto Sergio, Simonetta ed io si chiama Il Settimo Plenilunio. Scrivere in tre, comunque, è ancora più complesso che scrivere in due, perché ognuno vorrebbe portare la storia in una certa direzione. Nel Settimo Plenilunio, Simonetta era più orientata agli aspetti descrittivi e sensuali, Sergio alla satira di costume ed io al mito e agli aspetti fantastici della trama. Questo è stato sicuramente motivo di arricchimento per il libro, ma ha reso, ovviamente, più difficile seguire una trama comune.
Arricchito da 117 illustrazioni realizzate da 17 artisti Il Settimo Plenilunio è stato pubblicato autonomamamente a fine febbraio 2010 da Liberodiscrivere, senza inserirlo in “Parole nel web”, come pensato all’inizio.
Dunque il volume comprende solo “Cybernetic Love”, questa e-tragi-commedia d’amore e morte, il romanzo breve scritto con Didato e a un racconto scritto con Calamandrei, “Lei si sveglierà”. La copertina di “Parole nel web” l’ha realizzata la figlia di Didato, Rosanna, assieme a un suo amico, Pietro Vaglica.
Credo che l’esperienza di scrittura collettiva sia qualcosa che ti arricchisce molto, perché ti consente di confrontarti con diversi approcci e diverse idee di scrittura. Scrivere con Simonetta Bumbi, poi, è un’esperienza particolarmente interessante per la sua carica di umanità, la sua sensibilità poetica e la sua inventiva.
Ricordo sempre con grande piacere l’intenso scambio di corrispondenza con Simonetta (che ho potuto incontrare solo molto tempo dopo in occasione della presentazione di un suo libroa Firenze).
In merito alla mia collaborazione con Sergio Calamandrei ho scritto qualcosa qui.