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LA NASCITA DEI MONDI DIVERGENTI DI DE FILIPPIS

Leggendo “Toba” (Lastaria Edizioni, 2021) di Bruno De Filippis (1953) avevo scoperto molti punti in comune tra la sua opera e le mie, in particolare l’idea ucronica di universi divergenti, in cui l’evoluzione e la storia umana abbiano preso corsi diversi. In “Toba” si parla di Terra 1, Terra 2, Terra 3 e Terra 4 per definire i mondi in cui si sono sviluppate alcune di queste linee temporali/ universi divergenti.

Incuriosito, sono dunque risalito alle origini della scrittura di De Filippis leggendo il suo primo romanzo “Cheronea” (Lastaria Edizioni, 2018) vi ritrovo non solo la medesima attenzione per gli eventi geologici (vulcani in “Toba”, terremoti in “Cheronea”) ma soprattutto il primo di questi mondi divergenti, Terra 2, un ambiente più evoluto e con diverse forme organizzative soprattutto per quanto concerne la famiglia e i matrimoni. In particolare, per esempio, immagina famiglie che definisce, coppia, doppia coppia, poker e tris a seconda di come siano combinate. In questo dimostra assai più fantasia, per esempio di Lois McMaster Bujold nel suo “Barrayar” e mi fa pensare alle differenze da me immaginate in “Via da Sparta”, anche se non si spinge alle fantasie di “Middlesex” di Jeffrey Eugenides o a immaginare i mutanti trisessuati di “Una favolosa tenebra informe” di Delany. Non posso poi non pensare  alla riflessione sul sesso libero, sulle limitazioni imposte alle sessualità dalla società e dalla struttura familiare, sulla libertà di andare in giro nudi (magari tatuati) che sembra anticipare la rivoluzione culturale del 1968, presente in “Straniero in terra straniera” di Robert Heinlein o ricordare, per le sessualità aliene, il mitico “Neanche gli Dei” di Isaac Asimov o “Il ritorno di Ender” di Orson Scott Card. Lo stesso Robert Heinlein, peraltro, descrivendo in “Lazzarus Long, l’immortale” un mondo futuro, cerca di mostrare soprattutto la differente morale di una società in cui il sesso sia libero (“La seconda nozione in ordine di assurdità è che l’accoppiamento sia peccaminoso in se stesso”), con famiglie allargate e serene, una nudità disinibita, liberi incesti, che molto mi fa pensare a questo “Cheronea”. Vorrei infine ricordare, in tema fantasessualità, “La mano sinistra delle tenebre” di Ursula Le Guin con la sua idea di un popolo in cui tutti sono nel corso della propria vita sia maschi che femmine, divenendo l’uno o l’altro solo in certi periodi.

Come mai De Filippis e altri autori si interrogano su formule familiari alternative? Io credo, che il calo

Bruno De Filippis

della natalità che porta a coppie con un solo figlio e a volte senza neppure quello, stia mettendo in crisi il concetto di matrimonio come istituzione. È bene interrogarsi su alternative. La morte della famiglia patriarcale, con tanti figli, fratelli, zii e cugini che, talora vivevano persino sotto lo stesso tetto o comunque a distanze ravvicinate è ormai morta. Non abbiamo più il supporto di vere famiglie estese. Spesso i pochi componenti delle famiglie moderne cambiano città o addirittura nazione, in una diaspora che crea solitudini e abbandoni. Le doppie coppie, i poker e le altre combinazioni suggerite dal gioco delle carte possono aiutarci a ritrovare una nuova dimensione solidaristica per la famiglia.

Non solo di questo parla “Cheronea”. Terra 2 è divisa in due diverse culture, dell’Est e dell’Ovest, diverse tra loro, soprattutto politicamente. Non mancano forme religiose alternative come una sorta di culto dell’evoluzione e dell’amore universale.

Ci sono persino strani mutanti, i cosiddetti animali doppi (gatto-topo, zanzara-ragno e così via) e persone prive di naso e orecchie, per effetto delle radiazioni.

Come in “Via da Sparta” con i Riti della Catarsi vengono uccise le persone di più di 55 anni, così in “Cheronea” per chi supera gli 80 o 81 anni (a seconda se viva all’Est o all’Ovest) l’eutanasia è la sola strada.

Tanti temi su cui riflettere!

Infine, un’ultima suggestione mi viene dal fiume che rappresenta una spaccatura dello spazio tempo, che mi ha richiamato alla mente “Il fiume della vita” di Philip Josè Farmer (con un misterioso fiume lungo cui sono disseminati uomini di ogni etnia ed epoca) ma anche “Il tempo è come un fiume” di Franco Piccinini.

Cheronea”, che può considerarsi un’ucronia con il suo punto di divergenza ai tempi dell’imperatore Commodo è, insomma, un romanzo intrigante, ricco di suggestioni e spunti di riflessione, che mi spinge ora a leggere anche il secondo romanzo di De Filippis!

COME SI DOVREBBE STUDIARE LA STORIA

Forse una trentina d’anni fa lessi un saggio (di cui non ricordo né titolo né autore) che trovai molto illuminante su come l’epoca moderna sia notevolmente meno violenta di quelle antiche, anche se la percezione comune sembra immaginare l’opposto.

Questa discrepanza tra realtà e percezione credo derivi dal fatto che anche una piccola dose di violenza appare come disturbante e quindi ci lascia insoddisfatti come se fosse assai maggiore di quanto è. I media poi ce la mostrano, amplificata, come se fosse onnipresente.

Leggo ora un saggio più recente e molto più elaborato che riprende la medesima idea: Il declino della violenza(“The Better Angels of Our Nature: Why Violence Has Declined”, 2011) di Steven Pinker, un saggio di ben 898 pagine nell’edizione italiana (Mondadori). Un libro impegnativo per dimensioni ma accessibile a tutti per contenuti e che tutti dovrebbero leggere per capire chi siamo, come siamo e perché.

Come lo stesso Pinker nota nelle sue conclusioni, infatti, il declino della violenza è il fenomeno storico più importante della Storia, ma anche il meno conosciuto e studiato. Occorre porre fine a questa situazione perché si porta dietro equivoci deleteri nella descrizione del mondo contemporaneo, che, come faccio notare spesso, tutto sommato, pur con i suoi difetti, sembra essere proprio uno dei migliori mondi possibili che si possano immaginare, ma rischia di non restarlo a lungo se non lo proteggiamo adeguatamente.

Secondo, enorme, pregio di questo libro è che sa esaminare la Storia con uno sguardo scientifico, facendo ricorso a statistica, demografia, psicologia e persino psichiatria.

Credo, infatti, che lo studio della Storia sia ancora, spesso, a livelli primitivi e molta strada debba essere fatta ancora per trasformarla in una Scienza. Anche l’uso dell’ucronia, con lo studio dei mondi alternativi possibili sarebbe uno strumento di cui ogni storico dovrebbe dotarsi nelle sue analisi. La Storia è, poi, molto poco scientifica nello studiare i propri numeri.

Non a caso Steven Arthur Pinker (Montréal, 18 settembre 1954), un canadese naturalizzato statunitense, è uno scienziato cognitivo, professore di psicologia all’Università di Harvard e non uno storico. Non per nulla un altro dei migliori autori di saggi storici per me è Jared Diamond (autore, per esempio, di “Armi, acciaio e malattie” e “Collasso”). Jared Mason Diamond (Boston, 10 settembre 1937) è un biologo, fisiologo, ornitologo, antropologo e geografo statunitense.

Steven Arthur Pinker

Solo grazie a veri scienziati si riesce a dare un approccio moderno e scientifico alla Storia.

Il declino della violenza” sostiene che questa nel mondo è diminuita sia nel lungo che nel breve periodo e in tutti i suoi aspetti (guerra, genocidio, stupro, bullismo, omicidio, trattamento di bambini, donne, minoranze, razzismo…).

L’autore affronta l’argomento sotto diversi punti di vista, tutti estremamente documentati, sia con dati statistici, sia con riferimenti alla letteratura precedente. Non solo analizza le tendenze storiche, ma ne cerca le motivazioni sia nel succedersi degli eventi, sia a livello psicologico e psichiatrico.

Come scrive wikipedia “Sottolinea il ruolo dei monopoli di stato-nazione sulla forza, del commercio (facendo in modo che “altre persone diventino più preziose vive che morte”), di maggiore alfabetizzazione e comunicazione (promotrice dell’empatia), nonché un aumento di un orientamento razionale alla risoluzione dei problemi come possibili cause di questa diminuzione della violenza. Egli osserva che, paradossalmente, la nostra impressione di violenza non ha seguito questo declino, forse a causa di una maggiore comunicazione, e che un ulteriore declino non è inevitabile, ma è subordinato alle forze che sfruttano le nostre migliori motivazioni come l’empatia e l’aumento della ragione.”

Innumerevoli sono stati per me gli spunti di riflessione. Vorrei ricordarne solo alcuni (per quanto abbastanza numerosi):

  • Leggendo la Bibbia avevo già evidenziato la quantità di violenza che vi è presente. Pinker esamina questo e altri testi antichi, che dipingono un mondo in cui la violenza era decisamente più diffusa e accettata.
  • La violenza non è un prodotto della civiltà: Anche i primi ritrovamenti di corpi umani evidenziano morti per violenza. L’uomo è un grande genocida fin dalla preistoria, come ci insegnano opere come “Da animali a dèi” di Harari e “La sesta estinzione” di Kolbert.
  • Nell’analizzare il cristianesimo ne emerge la grande ipocrisia tra la predicazione dell’amore fraterno e la pratica della violenza contro chi non professa la fede (crociate, inquisizione, streghe, cavalleria composta da gentiluomini assassini…).
  • Anche la letteratura successiva abbonda di violenza, basti pensare alle tragedie di Shakespeare e alle fiabe dei fratelli Grimm.
  • Interessante lo studio degli antichi galatei che, nell’indicare come ci si dovesse comportare, mettevano in evidenza i comportamenti antisociali dell’epoca in cui furono scritti. Si pensi all’introduzione delle posate in Europa al posto dei coltelli da guerra e caccia e alla loro totale eliminazione dalle tavole cinesi.
  • Come nell’evoluzione si passa dai microrganismi monocellulari a organismi complessi così nelle società umane si passa da nuclei più piccoli e meno organizzati ad altri che lo sono maggiormente. Questo, sia a livello evolutivo, sia a livello sociale, porta a una riduzione del conflitto tra le singole parti, che ora collaborano tra loro per un bene comune. La crescita della dimensione degli Stati fa diminuire la frequenza dei conflitti.
  • Nell’analizzare le differenze geografiche della diffusione della violenza, nota come alcuni Stati nordamericani abbiamo tassi di violenza tra i più alti del mondo. Analizza quindi come negli Stati Uniti del sud vi sia maggior tolleranza verso la violenza se serve a tutelare se stessi, e come vi sia più forte la cultura dell’onore. Alcuni sostengono che nel sud emigrarono gli scozzesi allevatori mentre nel nord maggiormente agricoltori. Gli allevatori sono più a rischio di essere derubati perché gli animali possono essere portati via la terra no e questo li rende più violenti. Questo però non sembrerebbe vero. Sembrerebbe invece che vi arrivarono popolazioni provenienti da zone montane e più impervie in cui il senso dell’onore era più importante essendo lo stato meno presente. Nell’ovest invece prevalse la cultura di cowboy (allevatori).
  • Il boom di natalità degli anni sessanta portò a un enorme impennata di violenza: difficile gestire questi nuovi barbari da educare. La tv rese la violenza una conoscenza comune degli adolescenti che si potevano ispirare a comportamenti che le generazioni precedenti non avevano conosciuto. I baby boomer rappresentavano un popolo interconnesso grazie a TV e radio. Le élite si sentirono logorate dalla informalizzazione dei rapporti (si veda la progressiva abolizione dell’uso del Lei).
  • Non c’è correlazione tra economia (come maggior ricchezza o povertà) e violenza in particolare omicidi. Casomai la povertà accresce i danni alla proprietà, se cresce la disoccupazione.
  • Un ambiente ordinato fa ridurre la criminalità.
  • La morale stabilisce i propri principi come frutto della ponderazione di costi e benefici.
  • Le guerre di religione, l’inquisizione, la lotta contro gli eretici hanno fatto molti più morti (in proporzione alla popolazione del tempo) delle guerre mondiali. Dare importanza all’anima al posto della vita porta a far perdere valore alla vita stessa e quindi fa aumentare gli omicidi. La morale può essere grave fonte di istigazione alla violenza. Pinker descrive poi le atrocità delle torture.
  • La diffusione della pulizia ha reso gli esseri umani meno ripugnanti e quindi meno soggetti a essere oggetto di violenza da parte di altri che li consideravano come non umani.
  • Il miglioramento dell’economia (ricchezza) ha portato in modo maltusiano a un incremento della popolazione e quindi a una ricchezza pro capite invariata fino alla rivoluzione industriale.
  • Nel 1700 la diffusione dei testi scritti e della lettura favorirono l’empatia e la rivoluzione umanitaria.
  • Raffrontando i morti nelle principali guerre della storia umana con la popolazione vivente in ciascuna epoca, si scopre come le guerre del ventesimo secolo in rapporto al numero di abitanti del mondo fossero confrontabili con quelle di molti altri conflitti dei secoli passati. Le morti per eventi singoli possono sommarsi raggiungendo numeri molto maggiori delle grandi guerre. Si pensi alle morti per incidenti automobilistici che nello stesso arco di tempo della Seconda Guerra Mondiale portano altrettante vittime. “delle 21 cose peggiori (a nostra conoscenza) che gli esseri umani hanno fatto gli uni agli altri, quattordici si situano in secoli anteriori al XX”. Di grandissimo interesse la tabella nel Capitolo V che riparametra i morti dei principali conflitti sull’entità della popolazione del tempo. “Il peggiore massacro di tutti i tempi fu provocato dalla rivolta e guerra civile di An Lushan che, scoppiata in Cina sotto la dinastia Tang, durò otto anni e, secondo i censimenti, comportò la perdita di due terzi dei sudditi dell’impero, un sesto della popolazione mondiale del tempo”. I suoi 36 milioni di morti, se parametrati alla popolazione mondiale del XX secolo, sarebbero stati ben 429 milioni, contro i 55 milioni della Seconda Guerra Mondiale. Si era negli anni tra il 755 e il 763 d.C.
  • Le guerre iniziano in modo casuale e finiscono in modo casuale. Non conta la durata del periodo di pace o di guerra precedente. Difficile quindi predire quanto dureranno o quanto dureranno i periodi di pace.
  • Dalle statistiche sulla pace emerge che dopo la Seconda Guerra Mondiale nei Paesi sviluppati tutti gli indici sulla violenza sono pari a zero. Questo non esclude, come abbiamo ben visto in questi mesi, che il processo possa arrestarsi. Il calcolo delle probabilità diceva nel 2011 come fosse pressoché inevitabile lo scoppio di una nuova guerra in Europa. La lunga pace nucleare sembra essere un’eccezione nella Storia. Già dal 1989 gli studiosi sostenevano che la lunga pace stava per finire.
  • Pare che non sia la minaccia nucleare a impedire la guerra ma la volontà di evitare una guerra convenzionale.
  • Gli Americani hanno un’esperienza della guerra molto ridotta rispetto agli Europei, che le hanno affrontate per secoli, forse per questo accettano la diffusione delle armi tra i cittadini e hanno una maggior volontà di combattere.
  • Guardando le statistiche, le democrazie fanno meno guerre degli stati illiberali.
  • Le grandi potenze sono diventate più interessate a far finire in fretta i conflitti scatenati dai loro alleati che non ha farli vincere.
  • Nei Paesi in via di sviluppo la morte per fame e malattie durante i periodi di guerra si sta riducendo. Questo sembra effetto dell’assistenza umanitaria fornita dalle altre nazioni a livello sanitario.
  • Nel XX secolo i genocidi hanno causato più morti delle guerre. Il disgusto spesso è alla base del genocidio e l’ideologia lo sostiene. Ideologie utopiche ricercano la perfezione e portano al genocidio per eliminare chi non risponde ai canoni. Gli utopisti si sentono molto buoni ma non si rendono conto che la loro ideologia portata all’estremo può diventare razzista e generare genocidi. I genocidi sono stati molto meno studiati delle guerre dagli storici. Primi esempi di genocidi furono gli stermini delle altre specie di Homo. A leggere la Bibbia uno dei primi grandi genocidi fu… Dio.
  • In alcune specie, pensiamo ai leoni per esempio, quando ci sono più maschi adulti sono i maschi che lasciano il gruppo. Nei primati (scimpanzè e uomini in particolare) invece semmai sono le femmine che si allontanano, mentre i maschi rimangono nello stesso gruppo familiare e questo crea forme di solidarietà che poi degenerano, per meccanismi di conservazione genetica, in una maggior propensione a sacrificarsi per i propri parenti e quindi anche una propensione alla guerra. Molti terroristi suicidi sono affetti da questa forma di sacrificio per la famiglia. A volte i terroristi suicidi sono scapoli giovani con numerosi fratelli, che beneficeranno di eventuali guadagni offerti dalle cellule terroristiche e per collocare poi il resto della famiglia in modo migliore nella società.
  • Terrorismo nel lungo periodo si estingue, degenerando in violenza estrema che non trova più supporto nella società civile.
  • Nell’analizzare il rischio di guerra provocata da paesi islamici e lo stato della democrazia di questi, emerge dai dati una forte diffusione del pacifismo islamico.
  • Nell’evidenziare l’importanza della cultura nel ridurre la violenza, cita Voltaire “Coloro che possono farvi credere assurdità, possono farvi commettere atrocità”.
  • Un altro assurdo luogo comune è che i bambini siano innocenti e la violenza si impari. Già la psicoanalisi ci ha mostrato come questo sia del tutto falso. I dati di Pinker mostrano come l’età in cui siamo più violenti è fino ai due anni: i bambini non imparano la violenza, imparano a non praticarla.
  • Come diceva Platone e ripeteva Freud, i buoni sognano di compiere violenza, ma i cattivi la fanno.
  • Nella psicologia della violenza, il colpevole ha sempre una motivazione.
  • Pinker passa poi a esaminare quali parti del cervello si attivino in casi di violenza vendetta e simili, quali sostanze o comportamenti rendano più violenti: l’ossitocina rende più empatici, la lettura di opere di narrativa espande l’empatia, fondamentale lo sviluppo dell’autocontrollo, le tendenze aggressive possono essere ereditabili, il calo della violenza è stato troppo veloce per essere giustificato a livello genetico biologico, il senso morale genera violenza.
  • La tolleranza e le regole di mercato allontanano la violenza come soluzione ai conflitti. Le sanzioni economiche come nuova forma di guerra (lo vediamo anche ora in Ucraina).
  • Studi sulla gravità delle guerre intraprese dagli USA mostrano come sia collegata con l’intelligenza (Q.I.) dei loro presidenti.
  • L’irrazionalità genera violenza.
  • Il Quoziente di intelligenza medio della popolazione (americana) da un secolo a questa parte è aumentato enormemente. Un cittadino medio del 1910 oggi avrebbe un quoziente intorno a un 70. Nei test sui Q.I. risultano migliorati i risultati soprattutto su somiglianze e matrici.
  • Capacità di immaginare mondi ipotetici ci rende più intelligenti, comprensivi e meno violenti. In ambito letterario sottolineerei l’importanza della diffusione di ucronia e fantascienza per aprire le menti.
  • La scuola prima insegnava a imparare a memoria ora insegna a comprendere. È cresciuta l’intelligenza astratta.
  • La stupidità morale favorisce il razzismo.
  • I liberali hanno un Quoziente di intelligenza superiore a quello dei conservatori, ma le persone più intelligenti pensano in modo economico, hanno una visione commerciale dei rapporti umani e questo le porta a una minore violenza. L’educazione prepara alla democrazia. La politica per slogan ne ha abbassato il livello di razionalità portando al ritorno di alcuni episodi bellici.

Insomma, come già scritto, un libro ricchissimo di spunti, che si possono anche non condividere ma da cui partire per comprendere meglio il nostro mondo e migliorare il nostro modo di ragionare. Anche perché una cosa che questo saggio non dice è che se la violenza contro la nostra stessa specie è diminuita, quella contro il nostro mondo sta aumentando vertiginosamente e rischiamo di distruggerlo: non è forse una violenza peggiore che poi si ritorcerà contro tutti noi, che, anzi, già si sta ritorcendo?

UN SUPER PUFFO MARZIANO IN TERRA STRANIERA

Che dire di un classico della fantascienza come “Straniero in terra straniera” (1961) di un grande nome del genere come Robert A. Heinlein (Butler, 7 luglio 1907 – Carmel-by-the-Sea, 8 maggio 1988) che descrive l’incontro con la civiltà terrestre (leggi “americana”) da parte di un giovane uomo figlio di una prima spedizione di colonizzazione su Marte, rimasta senza superstiti tranne lui, allevato dai marziani e quindi cresciuto secondo una diversa cultura?

Già da queste poche righe si comprende come il presupposto scientifico di un Marte abitato da creature senzienti ed evolute sia ormai superato. L’opera però trova un utile espediente per mostrare la nostra civiltà con occhi alieni pur senza ricorrere direttamente alla presenza di extraterrestri che, se troppo simili a noi, sarebbero parsi implausibili, mentre se troppo diversi avrebbero reso il raffronto con noi poco rilevante.

Il romanzo si inserisce quindi nel filone iniziato dai viaggi sulla Luna di Luciano, Cyarno de Bergerac, del Barone di Münchhausen e dei “I viaggi di Gulliver”: quello dello stupore per civiltà diverse.

Non “vediamo” mai i marziani, se non per via indiretta tramite quanto ne ha appreso Michael Valentine Smith, l’Uomo di Marte, o tramite quanto riferito. Sono comunque assai diversi da noi, con forti poteri mentali telepatici, telecinetici e non solo. Riescono persino a disgregare cose e persone spostandole in altre dimensioni (vi assicuro che ho letto questo libro dopo aver scritto “Psicosfera”!). In qualche modo questi poteri possono essere appresi perché anche Mike, l’Uomo di Marte, li sa usare. Molto diversa (e apprezzabile sebbene poco descritta) è anche l’organizzazione sessuale e sociale, con esseri che evolvono da uno stadio all’altro sino a quello degli Anziani, esseri onniscienti e dagli immensi poteri. Da notare come nello stadio giovanile i marziani siano di sesso femminile (ninfe), mentre da adulti siano tutti maschi e come la maggioranza della popolazione sia costituita da “spettri”, esseri che si sono disgregati/ staccati dal corpo (morti) ma vivono ancora.

Robert A. Heinlein

Anche la Terra in cui è ambientata la storia appare diversa, soprattutto dal punto di vista sociale. Appare importate una nuova religione dionisiaca, quella dei fosteriti, in cui il sesso ha un grande rilievo religioso.

Il romanzo è in gran parte una riflessione sulla fede, la divinità e le religioni. Lo stesso protagonista arriva a fondare una nuova religione panteistica in cui tutti sono Dio.

Rilevante è anche la riflessione sul sesso libero, sulle limitazioni imposte alle sessualità dalla società e dalla struttura familiare, sulla libertà di andare in giro nudi (magari tatuati) che sembra anticipare la rivoluzione culturale del 1968, anche se il romanzo appare, agli occhi moderni piuttosto casto (anche qui non posso non pensare a quanto scrivo nella saga di “Via da Sparta”).

I marziani, avendo una cultura del tutto diversa hanno anche una lingua molto differente. Questo però viene reso in maniera un po’ infantile con l’uso ripetuto molte volte del termine “groccare” (in inglese “grok”) che significa letteralmente “bere” e figurativamente “comprendere”, “amare” o “essere uno con” ma che viene usato con un’insistenza che fa pensare al “puffare” degli omini blu di Peyo.

Da notare anche le riflessioni sulla proprietà del pianeta: appartiene all’Uomo di Marte, visto che Mike è il solo uomo a esserci nato e vissuto? Sorprende che nessuno prenda in considerazione che possa essere di proprietà dei marziani. La mentalità coloniale nel 1961 pare ancora molto forte.

Ci sono anche brani dal sapore piuttosto reazionario, che contrastano con i messaggi di pace, amore e sesso libero, come questo:

“– Come stavo dicendo, – osservò, – una donna che non sa cucinare è pelle sprecata. Se non verrò servito a puntino vi baratterò tutte e tre per un cane e poi sparerò al cane. Cosa c’è di dolce, Miriam?

E che dire della nota “in che modo una maestra potrebbe tenere a bada un bambino che ne sa più di lei?” che fa pensare ai giorni d’oggi con le nuove generazioni con un’alfabetizzazione digitale a volte superiore a quella degli adulti.

Opera, insomma, in cui le riflessioni sociologiche, ora assai meno “rivoluzionarie” di allora prevalgono quasi sulla narrazione, l’avventura e le vicende del protagonista, facendone un lavoro interessante per comprendere quegli anni e la letteratura fantastica degli anni ’60, in parte ancora godibile, ma un po’ superato.

L’UCRONIA E LA SCIENZA DELLA STORIA IN TOLSTOJ

L'ultimo segreto di Lev Tolstoj: la fuga solitaria verso la morte - la  Repubblica
Lev Nikolàevič Tolstòj, in russo: Лев Николаевич Толсто́й?,  anche noto come Leone Tolstoi (Jàsnaja Poljana9 settembre 1828[1] – Astàpovo20 novembre 1910[2]).

Era da un po’ che mi ripromettevo di rileggere “Guerra e pace” di Lev Tolstoj, l’immane romanzo che narra, principalmente, la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, tra le guerre napoleoniche, la campagna napoleonica in Russia del 1812.

Se posso leggo in e-book e in modalità TTS, ma questo libro, avendo numerose parti in francese mal si presta al Text-to-Speech, che riconosce una sola lingua alla volta. Conosco a sufficienza il francese ma sentire la voce digitale che legge lunghe frasi in francese come se fossero in italiano mi disturba un po’. Speravo che la tecnologia riuscisse a superare il problema, ma non volendo aspettare troppo a lungo alla fine l’ho ascoltato con l’app @Voice del mio smartphone, nonostante ciò.

La prima sensazione di lettura, a parte questa problematica tecnica, è stata la scarsa presenza della guerra, soprattutto nella prima parte del volume. Prevalgono su scene di battaglia, scontri e strategie militari le vicende di vita quotidiana dei russi, fidanzamenti, eredità, ambizioni. In effetti, si parla assai più della società russa. Scopro allora che le parole russe per “pace” e “mondo” (nell’accezione di “società secolare”) sono omofone, e in seguito alla riforma dell’ortografia russa del 1918 si scrivono anche allo stesso modo, il che ha dato origine alla leggenda che il manoscritto in principio si chiamasse “Война и міръ” e quindi il titolo del romanzo dovesse essere correttamente tradotto come “La guerra e il mondo”, oppure “La guerra e la società”, che forse sarebbe stato più corretto, visto il contenuto.

Peraltro, Tolstoj stesso tradusse il titolo in francese con “La guerre et la paix”, che dissipa ogni dubbio.

La guerra poi fa la sua comparsa ma resta spesso sullo sfondo, come contesto storico. Non se ne nota mai troppo la cruenza, efferatezza o violenza. Si tratta soprattutto della campagna di Russia di Napoleone Bonaparte. È spesso affrontata come una vicenda non troppo vicina, che riguarda il Paese, ma non troppo le singole vite dei personaggi, salvo alcuni più coinvolti.

Se Tolstoj parla di guerra è soprattutto per filosofeggiare in merito alla Storia e a quanto questa, secondo lui, non sia governata da singoli individui, siano pur essi l’imperatore Napoleone o lo zar.  Si accanisce in particolar modo nello smontare la figura del condottiero francese, sostenendo come gli esiti ora fausti ora infausti delle sue mosse non siano

Guerra e pace. Ediz. integrale. Con Segnalibro - Lev Tolstoj - copertina

mai dipesi dal suo presunto genio ma da una complessa combinazione di casi. Ascrive, anzi, una maggior influenza sulla Storia a nomi assai meno noti di comandanti russi. Appare difficile accettare in pieno questa tesi e immaginare, per esempio, una campagna di Russia non guidata da Napoleone.

Sorvolando sull’acrimonia verso l’invasore straniero, la sua volontà, assai apprezzabile, sembra quella di porre le basi per uno studio scientifico della Storia. Questa, per Tolstoj, non si dovrebbe lasciar distrarre dalle gesta e dalle biografie dei singoli uomini, ma seguire i flussi storici dei grandi eventi e dei moti popolari.

Gli pare, infatti, che “La storia moderna ha respinto le credenze degli antichi senza sostituirle con nuove concezioni e la logica della loro posizione ha costretto gli storici, che avevano apparentemente rinnegato il potere divino dei re e il fato degli antichi, a giungere per altra via allo stesso punto, all’ammissione cioè che: 1) i popoli sono guidati da singoli uomini; 2) esiste un determinato scopo verso il quale muovono i popoli e il genere umano.”

Tolstoj si chiede “Se il fine della storia è la descrizione del movimento dell’umanità e dei popoli, la prima domanda a cui occorre rispondere, altrimenti tutto il resto diventa incomprensibile, è la seguente: qual è la forza che muove i popoli?

Concentra quindi la sua analisi su questa domanda, cadendo, a mio modestissimo avviso, nell’errore opposto di chi dava troppo peso alle grandi personalità: non evidenzia che la Storia è fatta dagli uomini e dalle loro scelte, che oggi, quindi, viviamo in questo tipo di mondo per effetto di infinite piccole scelte di innumerevoli persone che hanno orientato gli eventi in una data direzione, come ci insegna l’ucronia. Se, come narro ne “Il Colombo divergente”, il navigatore ligure, per effetto di un gesto di un indigeno avesse mutato la sua rotta finendo in territorio azteco, magari non avrebbe fatto ritorno comunicando la scoperta del nuovo mondo. Singoli micro-eventi determinano la Storia. Tra questi, quelli determinati da uomini con grande potere o posti in bivi importanti della Storia, hanno la capacità di influenzare fortemente il futuro. Non sarebbe stato possibile per Napoleone, per esempio, evitare di invadere la Russia? O decidere di fermarsi prima della disfatta? O Lasciare Mosca per tempo? Tolstoj sostiene di no, che ogni sua scelta fu determinata dalle circostanze. Io questo non lo credo.

Eppure lo stesso Tolstoj, più avanti, si avvicina a quest’idea quando afferma:

Per la storia, il riconoscimento della libertà degli uomini come una forza che può influire sugli avvenimenti storici, cioè come una forza non soggetta a leggi, è la stessa cosa che per l’astronomia il riconoscimento della libera forza di movimento delle forze celesti.”

Se, dunque, la Storia fosse frutto della libertà degli uomini, questo vorrebbe dire che ogni nostra scelta ne muta il corso, proprio come insegna l’ucronia: la Storia passata non può essere mutata ma che sia andata come andata è tutt’altro che scontato e avrebbe potuto benissimo prendere un corso ben diverso.

Tolstoj, però, sembra legato a una visione deterministica in cui vi è quasi un destino immutabile, seppur non voluto da forze ultraterrene, ma da un flusso generale degli eventi.

Scrive, infatti: “Solo limitando questa libertà all’infinito, considerandola cioè come una grandezza infinitamente piccola, noi ci convinceremo dell’assoluta inaccessibilità delle cause, e allora, invece di andare alla ricerca delle cause, la storia si porrà come compito la ricerca delle leggi.”

E, soprattutto: “E se la storia ha per oggetto lo studio del movimento dei popoli e dell’umanità e non la descrizione di episodi tratti dalla vita degli uomini, essa deve, eliminando il concetto di causa, ricercare le leggi che siano comuni a tutti gli elementi infinitamente piccoli, eguali fra loro e indissolubilmente legati fra loro dalla libertà.

Ha ragione? Presumibilmente sì, nel senso che se è vero che la Storia è il frutto di infinite decisioni e di infiniti micro-eventi, ci sono dei fenomeni che tendono a orientarla in date direzioni, come delle scelte che non potranno essere assunte se prima ne sono state prese delle altre che hanno spostato la Storia in una diversa direzione. Riusciremo, allora, mai ad avere una Scienza della Storia capace di prevederne gli sviluppi futuri e non solo di limitarsi a prendere atto di quanto è già successo. Avremo mai qualcosa di simile alla Psicostoria asimoviana? Se riusciremo ad applicare adeguate teorie avvalendoci dei moderni strumenti informatici e delle loro sempre crescenti capacità di calcolo, non è da escludersi un significativo progresso in tal senso. Dovremo allora rendere onore a Tolstoj (e ad Asimov) per aver, tra i primi riflettuto in tal senso in questo romanzo scritto tra il 1863 e il 1869.

Ovviamente, tralascio qui di parlare dell’importanza di “Guerra e pace” come grande opera epica “moderna”, della sua importante costruzione come romanzo corale e delle altre caratteristiche dell’opera di cui molti hanno già abbondantemente scritto.

Un ultimo commento da modesto e semplice lettore è che resta ancora un’opera, seppur impegnativa per la sua vastità, che anche oggi si legge bene e con piacere, cosa che non oserei dire dei romanzi del suo connazionale Fëdor Dostoevskij, assai diversamente prolisso.

Guerra e pace (4 Volumi) - Lev Tolstoj - Narrativa Classica Straniera -  Narrativa - Libreria - dimanoinmano.it

PSICOTICI ILLUSI

Elias Canetti - Wikipedia
Elias Canetti

In questi ultimi tempi mi è capitato di leggere alcuni autori austriaci, che non si può dire dipingano il loro Paese e i propri connazionali nel migliore dei modi possibili. Il primo fu Peter Handke, letto in occasione della sua vittoria del Premio Nobel, che mi rese una visione piuttosto piatta e grigia ne “Il grande evento” o alquanto fredda in “La montagna di sale”.

Sono poi approdato a “Gli esclusi” (1980) di Elfriede Jelinek (altro Nobel), un romanzo che parla dei difficili rapporti nella famiglia di un ex-gerarca nazista mutilato e privo di uno scopo nella vita. Ingredienti esplosivi che deflagheranno in un finale di estrema crudeltà. Una storia di apparente vita quotidiana, se non fosse malata da prevaricazioni, istinti incestuosi, desideri di rivalsa, invidie, debolezze, che vede al centro le difficoltà dell’adolescenza in un ambiente tutt’altro che protetto.

Come se non bastasse, per puro caso, ho letto “Estinzione. Uno sfacelo” (1986) di Thomas Bernhard, in cui il protagonista manifesta tutto il proprio disprezzo per l’Austria, cui contrappone nientemeno Roma (e mi pare tutto dire!). Un’Austria post-bellica, che definisce cattolico-nazional-socialista. Dei personaggi meschini, incapaci di veri rapporti umani.

Ho appena concluso la lettura di “Auto da fé” (1935), primo libro e unico romanzo di Elias Canetti (Ruse, 25 luglio 1905 – Zurigo, 14 agosto 1994),

Elias Canetti = AUTO DA FÉ Ed. Garzanti

bulgaro ebreo di origini spagnole, naturalizzato britannico, cresciuto parlando ladino e passato poi alla lingua tedesca, vissuto in Austria, Germania Gran Bretagna e Francia, morto in Svizzera e con un cognome italiano. Un altro premio nobel. “Auto da fé” è ambientato a Vienna tra il 1921 e il 1927. I suoi personaggi sono stereotipi umani che potrebbero appartenere a qualunque nazione, essere austriaci, come italiani, inglesi o russi, ma il fatto che siano proprio austriaci, alla luce delle precedenti letture, mi fa riflettere sulla salute sociale, morale e mentale di questo Paese.

Sono tutti personaggi egocentrici, illusi, egoisti, arroganti e che vivono quel che gli accade rielaborandolo nella propria testa a modo loro, quasi stravolgendo il cartesiano “cogito, ergo sum” in uno psicotico “se lo penso, è vero”.

C’è un professoruncolo che studia a tutto spiano e si considera il più grande sinologo del mondo, un nano gobbo mantenuto da una moglie prostituta che si crede di poter divenire il campione mondiale di scacchi o di imparare una lingua in un giorno, la domestica che sposa il professore spiantato sperando di ereditarne una fortuna immaginaria, il portiere ex-poliziotto che schiavizza la figlia, tenendola segregata in casa per farsi aiutare a fare la posta a mendicanti e venditori ambulanti, il fratello del sinologo, un arrogante ginecologo divenuto psichiatra, che tratta i pazienti “come se fossero persone”.

Ciascuno immagina che gli altri facciano e pensino cose che non fanno e non pensano per nulla e si sente al centro del mondo, come se ogni cosa ruotasse attorno a lui. Ne nascono equivoci a non finire, che la totale cecità mentale nata dall’illusione e dalla supponenza fa protrarre all’infinito. Ecco la domestica-moglie che redige un falso testamento del marito, intestandosi un patrimonio favoloso che quello spiantato non ha davvero e questo lo trova credendo che lei stia per ereditare un’enorme cifra da qualcun altro. Ecco il professore che crede di aver lasciato morire la moglie chiusa in casa, mentre questa lo accusa di averla derubata, creando una serie di equivoci e una gran confusione in chi indaga. Ecco il nano che cerca di truffare il professore e già si immagina ricco e famoso, arrivare in America accolto da una folla festante. Eccolo ancora illudersi che basti un vestito di buona foggia a non farlo sembrare lo storpio che è. Misantropi e, ancor più, misogini, come solo gli egocentrici possono davvero essere.

Personaggi tutti molto vividi, che si imprimono nella memoria e appaiono affascinanti per quanto sono surreali e grotteschi. Purtroppo, Canetti gioca troppo a lungo con loro e il romanzo si protrae così tanto da farci stufare di questa rappresentazione, trasformando quelli che nella prima metà del romanzo parevano personaggi esemplari, in macchiette esagerate nella seconda parte, non perché cambi il registro o il modo di raffigurarli, ma proprio perché non muta e, come si suole dire, “il troppo stroppia”. Il grottesco per essere efficace deve essere veloce e pungente. Quando diventa ossessivo, forse crea un’atmosfera angosciante, ma certo rende una lettura partita come assai piacevole, altra cosa.

Il pensiero di Canetti forse traspare maggiormente nel personaggio del ginecologo-psichiatra che “senza volerlo, trattava le signore come se ne fosse innamorato”: “pazzi diventano coloro che pensano sempre e soltanto a se stessi. La demenza è una punizione per l’eccessivo egoismo. Per questo nelle cliniche si raduna la peggior canaglia del paese.” È questa, in fondo la psicosi dei personaggi di Canetti.

Georges Kein asseconda la follia egocentrica dei propri pazienti: “A un re si rivolgeva ossequiosamente con l’appellativo di Vostra Maestà, davanti a un dio cadeva in ginocchio e giungeva le mani. Così le più eminenti personalità s’abbassavano fino a lui e lo mettevano a parte delle loro questioni personali.” E nel contempo considera tutti pazzi, arrivando a rinchiudere la moglie “nella sua clinica come egoista inguaribile”. I personaggi di questo romanzo, in quanto egoisti, vi andrebbero rinchiusi tutti. In quanti dovrebbero far loro compagnia?

L’AUSTRIA VISTA DA ROMA

Sublime e orrido del mondo svelati da Bernhard | LuciaLibri

Thomas Bernhard

Sono arrivato a leggere “Estinzione. Uno sfacelo” (1986) di Thomas Bernhard (Heerlen, 9 febbraio 1931 – Gmunden, 12 febbraio 1989), per caso. Cercavo qualche romanzo che parlasse della Sesta Estinzione di Massa (se ne conoscete segnalatemeli).

Mi è parso subito chiaro che “Estinzione” non avesse nulla a che fare con quanto cercavo, ma mi ha incuriosito lo stesso.

Thomas Bernhard è un importante autore austriaco ed “Estinzione” racconta di un gentiluomo austriaco che vive a Roma. Sebbene io sia nato a Roma e sia di lontane origini austriache, questo non mi ha fatto particolarmente immedesimare nel protagonista, anche se alcuni luoghi romani da lui citati sono in zone in cui ho vissuto e questa aria da nobiltà decaduta non mi è nuova.

Estinzione” è quasi un atto d’accusa contro il modo di vivere austriaco, visto in contrapposizione con quello romano (parla sempre di Roma, piuttosto che d’Italia), che il protagonista sembra preferire di gran lunga.

Forse, Franz-Josef Murau più che prendersela con l’Austria post-bellica, che definisce cattolico-nazional-socialista, se la prende con quel piccolo feudo di proprietà della sua famiglia, Wolfsegg, luogo simbolico al punto da poter sembrare immaginario, anche se una simile località esiste davvero in alta Austria.

Il romanzo si caratterizza stilisticamente per un uso ossessivo delle ripetizioni di parole, di espressioni e di concetti.

Wolfsegg Castle and the Hole: Ghosts of Germany - Amy's Crypt

Wolfsegg

Come autore mi capita spesso di revisionare o di farmi revisionare dei testi, miei o altrui. Gli editor tendono spesso a evidenziare ogni minima ripetizione, invitando l’autore a eliminarla. Scrive, per esempio, Sergio Calamandrei: “Ho sviluppato una vera e propria idiosincrasia per le ripetizioni”. Se Bernhard fosse un autore minore e magari autoprodotto, si sarebbe potuto dire che questo lavoro di editing sia mancato al testo e in modo clamoroso. Credo che potrebbe essere agevolmente ridotto a un terzo o forse un quinto della sua lunghezza senza perdere nulla nella sostanza, nei contenuti, nei pensieri e nelle sensazioni che si vogliono esprimere. Bernhard è però poeta, narratore e drammaturgo di fama e questo non è certo il caso. Perché dunque si ripete? Io credo che abbia voluto rendere il flusso dei pensieri: quando pensiamo, certe idee e certe parole si muovono ostinatamente nella nostra testa, come il ritornello di una canzone, e non riusciamo a liberarcene. Inoltre, credo che un uso simile delle ripetizioni “scolpisca” i personaggi, i nomi, le idee nella testa del lettore, assai più del razionale “non ripetersi”. Del resto, anche la letteratura antica, penso ai classici greci, per esempio, o addirittura alla Bibbia, sono una ripetizione continua. Il mio quesito è dunque questo: se un autore vuole scrivere un testo che abbia una sua consistenza e non sia solo un esercizio scolastico, dovrebbe davvero evitare espressioni come “Già in passato avrei potuto portare Gambetti a Wolfsegg, pensai, ma a ragion veduta me ne ero sempre astenuto, sebbene molto spesso mi fossi detto che andare a Wolfsegg con Gambetti avrebbe potuto essere utile, oltre che per me, anche per Gambetti stesso. Con una verifica in prima persona da parte di Gambetti, i miei racconti su Wolfsegg acquisterebbero ai suoi occhi un’autenticità che nulla, altrimenti, potrebbe loro conferire. Conosco Gambetti ormai da quindici anni e non l’ho portato a Wolfsegg neppure una volta, pensai” di cui “Estinzione” è pieno in ogni pagina (questa l’ho scelta a caso)? Si noti il ripetersi dei nomi Gambetti e Wolfsegg, senza il ricorso a pronomi, perifrasi o sinonimi.

Oppure si veda qui come ricorrono il termine “fiducia”, presente anche nel paragrafo successivo, e “deluso”: “Mio fratello aveva sempre accordato subito a tutti la sua fiducia, e poi si era sempre sentito ferito quando la sua fiducia, in quasi tutti i casi, era stata delusa, io al contrario non ho quasi mai accordato subito a qualcuno la mia fiducia e di conseguenza raramente sono stato deluso nella mia fiducia.

 

Estinzione” è occasione per molte riflessioni sui rapporti familiari (qui descritti come tutt’altro che facili), l’arte e la cultura in genere, la società, l’Austria, Roma, la Chiesa, la filosofia, la caccia, la politica e molto altro ancora.

Eccolo dunque Franz-Josef Murau esprimere l’odio per la fotografia, che descrive un mondo deformato e perverso (“Quelli che fotografano commettono uno dei crimini più meschini che si possano commettere, perché nelle loro fotografie trasformano la natura in uno spettacolo perverso e grottesco”), per la caccia (“Fra tutte le passioni odiose, la caccia la odiava con la massima profondità”), la disapprovazione per la mania per l’arte antica, come ostentazione di cultura, l’impossibilità di comprendere la natura senza capire l’arte (“Quelli che sostengono di vedere la natura, ma non hanno una concezione dell’arte, vedono la natura solo superficialmente e mai in maniera ideale, ossia in tutta la sua infinita grandiosità”), preferendo gli artisti vivi a quelli morti, la vacuità di disporre di tante librerie senza leggere (come facevano i suoi parenti), il disprezzo verso i titoli accademici (“Quanto più imponente suona il titolo, tanto più grande è l’imbecille che lo porta”), la differenza tra l’ozio della gente comune e quella degli intellettuali (“Per l’uomo di pensiero il cosiddetto far nulla non è neanche possibile”), il suo disprezzo per insegnanti e giudici (“Gli insegnanti e i giudici sono i più meschini servi dello Stato”).

L’attacco contro la meschinità è quanto mai ricorrente. Oltre a caratterizzare docenti e magistrati, riguarda l’intera Austria (“non perdo occasione per attribuire agli austriaci meschini e abietti sentimenti cattolico-nazionalsocialisti”) e, in particolare, la sua stessa famiglia.

nuvole-3Amara è l’immagine dell’Austria che emerge da questo libro: “è già una menzogna perversa parlare dell’Austria, ancora oggi, come di un bel paese, in verità è da tempo ormai soltanto un paese distrutto, deliberatamente devastato e sfigurato, diventato vittima di perfidi affari, dove ormai, in effetti, la cosa più difficile è trovare un angolo intatto. È una menzogna dire che questo paese è un bel paese, perché in verità è un paese ucciso.” Vedendo questo Paese devastato dalla mancanza di cultura, non posso non pensare a un’altra mia recente lettura, “Gli esclusi” (1980) di Elfriede Jelinek, opera austrica contemporanea a “Estinzione”, che parla dei difficili rapporti nella famiglia austriaca di un ex-gerarca nazista mutilato e privo di uno scopo nella vita. Due mondi diversi, ma due facce della stessa Austria cattolico-nazionalsocialista. Non ama, però neanche gli pseudo-socialisti che sono succeduti ai nazionalsocialisti.

Dell’Austria e della Germania non risparmia certo la letteratura:

Siamo dinanzi a una letteratura piccolo borghese da funzionari, quando siamo dinanzi alla letteratura tedesca, anche i grandi esempi di questa letteratura tedesca non sono null’altro, Gambetti, Thomas Mann, lo stesso Musil, dissi, che fra tutti questi produttori di letteratura da funzionari metto ancora al primo posto. Ma anche Musil non ha scritto altro che una pietosa letteratura da funzionari.”

L’impiegato Kafka, ho detto a Gambetti, è stato il solo a non produrre una letteratura da funzionari e impiegati, bensì una grande letteratura, cosa che non si può certo affermare di tutti i cosiddetti grandi scrittori tedeschi di questo secolo, a meno di non volersi allineare ai milioni di chiacchieroni da pagine culturali”.

Non risparmia neppure Goethe:

Nell’insieme, ho detto a Gambetti, l’opera goethiana è l’orticello di periferia di un filisteo della filosofia. In nulla Goethe è arrivato alle vette, dissi, in tutto non è mai andato oltre la mediocrità. Non è il più grande lirico, non è il più grande prosatore, ho detto a Gambetti, e le sue opere teatrali, paragonate per esempio alle opere di Shakespeare, sono come un bassotto spelacchiato dei sobborghi di Francoforte di fronte a un colossale cane da pascolo alpino svizzero. Faust, avevo detto a Gambetti, che megalomania!”

Quanto ai filosofi, prova per loro attrazione e repulsione.

 

Se con il suo Paese non ci va leggero, anche nei confronti della Chiesa cattolica, non mostra alcuna simpatia:

La Chiesa cattolica fa tanti danni nelle giovani teste”.

Milioni, e infine miliardi di persone debbono alla Chiesa cattolica il fatto di essere state distrutte alle radici e rese inservibili per il mondo, il fatto che la loro natura è stata trasformata in contronatura. La Chiesa cattolica ha sulla coscienza l’uomo distrutto, restituito al caos, in definitiva infelice fino al midollo, questa è la verità, non il contrario. Perché la Chiesa cattolica tollera solo l’uomo cattolico, nessun altro, questo è il suo intento e il suo fine perenne. La Chiesa cattolica trasforma gli uomini in cattolici, in individui ottusi che hanno dimenticato il pensiero autonomo e l’hanno tradito per la religione cattolica.

Il vescovo Spadolini, amante della madre, è oggetto di ammirazione per l’arte teatrale dei suoi discorsi ma, nel contempo, di grande disprezzo.

 

Se il protagonista disprezza la cultura morta, vede nell’esagerazione i massimi livelli dell’arte.

Per rendere comprensibile una cosa dobbiamo esagerare, gli avevo detto, solo l’esagerazione dà alle cose forma visibile”.

Ho educato a tal punto la mia arte dell’esagerazione che a buon diritto posso definirmi il più grande artista dell’esagerazione che io conosca.

L’arte dell’esagerazione è un’arte del superare, superare l’esistenza così come l’ho in mente io”.

I grandi maestri nel superamento dell’esistenza sono sempre grandi artisti dell’esagerazione”.

Il pittore che non esagera è un cattivo pittore, il musicista che non esagera è un cattivo musicista, dissi a Gambetti, così come lo scrittore che non esagera è un cattivo scrittore, ma può anche accadere che la vera arte dell’esagerazione consista nel minimizzare tutto, allora dobbiamo dire, costui esagera la minimizzazione ed in tal modo fa della minimizzazione esagerata la sua arte dell’esagerazione, Gambetti. Il segreto della grande opera d’arte è l’esagerazione, ho detto a Gambetti, il segreto del grande pensiero filosofico altrettanto, l’arte dell’esagerazione è, in assoluto, il segreto dello spirito, ho detto a Gambetti”.

Forse, questo concetto di esagerazione spiega anche l’esagerato uso delle ripetizioni in questo romanzo.

La trama si dipana attorno all’arrivo di un telegramma che annuncia al protagonista che i suoi genitori e il fratello maggiore sono morti in un incidente d’auto. Franz-Josef Murau deve, dunque, lasciare Roma e tornare nell’odiata Wolfsegg. Riesamina, dunque, il carattere dei suoi familiari e i loro rapporti.

Il protagonista sente “il dovere di procedere a una spietata osservazione di Wolfsegg e di render conto di quella spietata osservazione.” In tale resoconto si propone di “mostrare i miei così come sono, anche se allora saranno sulla carta solo come io li ho visti e come io li vedo”. Per tale resoconto ha scelto “il titolo Estinzione, perché il mio resoconto è lì solo per estinguere ciò che in esso viene descritto, per estinguere tutto ciò che intendo con Wolfsegg, e tutto ciò che Wolfsegg è, tutto”.

Ecco, quindi, questi genitori che vanno a teatro per dovere sociale, perché “vivono la loro vita in abbonamento, e tutti i giorni entrano nella loro vita come a teatro, a vedere una commedia orrenda, e non si vergognano”.

I miei, dopo aver terminato il liceo, il cosiddetto classico, non si sono più adoperati per raggiungere nulla e sono Estinzione | Thomas Bernhard - Adelphi Edizionirimasti fermi per tutta la vita su quelle posizioni in effetti del tutto insoddisfacenti. Ma è disgustoso questo atteggiamento di chi ritiene non più necessario l’arricchimento dello spirito, superfluo l’ampliamento delle proprie conoscenze, qualunque esse siano, tempo sprecato l’ulteriore e continua formazione del carattere.”

Eccoli, dopo la fine della Guerra, ospitare e nascondere nella dependance decaduta detta Villa dei Bambini i nazisti. Ecco l’odio per i cacciatori della tenuta che vede come nazisti, in contrapposizione ai giardinieri, visti come esempio di persone semplici, verso cui va la sua simpatia.

Le sorelle sono trattate dai genitori narcisisti non come persone ma come bambole da vestire.

Il suo proposito di restaurare la Villa dei Bambini, appare come il proposito di restaurare l’infanzia, ma è solo un’idea passeggera, perché il suo vero istinto è di estinguere quei luoghi.

Tutto lo disturba, persino il cinguettio degli uccelli pare un ostacolo allo spirito.

Una simile dirompente carica di esagerato disprezzo non può che confluire nell’Estinzione di quel mondo.

LUPUS LUPO HOMO

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Carlo Giannone

Carlo Giannone ha scelto di raccontare la violenza del nostro mondo attraverso una favola ambientalista che vede come protagonisti un branco di lupi parlanti, che si esprimono e ragionano quasi come esseri umani.

Nel volumetto “I lupi”, troviamo, infatti, questo gruppo di animali che vive nascosto da tempo sulle montagne, spaventato dalla cattiveria umana. L’anziano e rispettato capobranco Aikin decide che è giunto il tempo di capire se i lupi possano riconciliarsi con gli umani. Manda quindi quattro dei suoi in esplorazione. I primi tre fanno presto ritorno, ma con risposte sconfortanti: hanno visto città, zoo, circhi e allevamenti (tutti luoghi in cui gli animali vivono male) e sono stati presi a fucilate. Il più giovane degli esploratori sembra essersi perso e non fa ritorno.

È finito in una trappola, ma da lì è salvato da un centro che si occupa di animali feriti, che lo cura, lo accudisce e gli offre anche dell’affetto.

Quando, finalmente guarito, potrà fare ritorno dai suoi, la sua testimonianza sarà importante per far capire che se i tempi non sono ancora maturi, però c’è ancora la speranza che l’umanità sappia riconciliarsi con la natura.

In questi anni che ormai definiamo sempre più spesso Antropocene e in cui l’umanità si è dimostrata la causa scatenante della Sesta Estinzione di Massa, che potrebbe anche essere quella più grave e definitiva, questo libro ci aiuta a riflettere sull’arroganza della nostra specie, che non solo schiavizza, uccide e sfrutta tutti gli altri animali, ma contribuisce a distruggere il loro habitat, al punto che, sembrerebbe, ogni giorno circa cinquanta specie animali o vegetali si estinguono, facendo dell’uomo il più feroce genocida immaginabile.

Giannone ha scelto i lupi, per lanciare il suo messaggio e non si può non essere affascinati dalla nobiltà di questi animali tanto spesso ingiustamenteRisultati immagini per i lupi carlo Giannone denigrati, in quanto, con gli orsi, sono stati in Europa i nostri grandi competitor. Oggi, però, sono talmente ridimensionati, che dobbiamo imparare a non considerarli più come nemici ma come parte importante e imprescindibile dell’ambiente.

Vorrei ricordare qui un interessante volume, che ha anche ispirato le scene con lupi della mia saga “Via da Sparta”, ovvero “Il lupo e il filosofo” di Mark Rowlands, che davvero aiuta a capire la differenza tra noi e loro e mostra quanto sia più generoso e onesto il rapporto del lupo con i suoi simili, di quello dell’uomo con i propri pari, rovesciando il detto di Hobbes “Homo homini lupus”.

IL PELLEGRINO DEL TEMPO E IL TURISTA VISCHIOSO

Leggendo il titolo “La società dell’incertezza” la prima cosa cui ho pensato è questo nostro mondo sommerso da una miriade di informazioni e di La società dell'incertezza - Zygmunt Bauman - copertinasegnali contrastanti in cui l’incertezza non può che dominare. Eppure questo non è negativo, perché è segno di una società multiculturale, in cui opinioni diverse corrono in rete, senza controllo, è vero, ma con la massima libertà, lasciando il modo persino a sostenitori delle tesi più assurde (pensate per esempio ai terrapiattisti o ai respiriani) di avere un loro seguito e una loro credibilità. È il bello e il difficile assieme della libertà di questo nostro tempo ebbro di informazioni.

Zigmunt Bauman pubblica “La società dell’incertezza” nel 1999 e dunque alla fine del passato millennio, forse un po’ troppo presto per essere già stato travolto dall’ondata del web dilagante.

Nell’introduzione si legge “Con lo spirito del patologo chino al suo lavoro, Bauman ci mostra una società che respinge la stabilità e la durata, preferisce l’apparenza alla sostanza, sceglie come parola chiave ‘riciclaggio’ e come ‘medium’ per eccellenza il videotape; una società dove il tempo si frammenta in episodi, la salute diventa ‘Fitness’, la massima espressione di libertà è lo ‘zapping’. Dalle macerie del vecchio ordine politico bipolare sembra emergere solo un nuovo disordine mondiale, mentre l’economia invoca e ottiene la deregulation universale. Le figure emblematiche che abitano questo traballante universo sono il giocatore e il turista. Ma forse più di ogni altro lo straniero.”

Che i vent’anni trascorsi siano un’era lo dicono parole come “videotape” e “zapping” che appartengono già alla nostra preistoria tecnologica. Non per questo l’analisi della fine dell’epoca moderna e del suo passaggio al post-moderno effettuata da Baumann è già superata. Tutt’altro. Il saggio si legge con interesse ed è ricchissimo di spunti.

Innanzitutto, il conflitto tra libertà e sicurezza, che va oltre quanto già sopra accennato sulla libertà di circolazione delle informazioni che ci toglie la sicurezza della loro veridicità. È il vero grande conflitto politico di questi nostri anni di destre razziste riemergenti. Su questo tema la posizione della religione non è indifferente “se Dio c’è, non c’è crudeltà, anche atroce ed efferata, che non si possa commettere nel Suo nome.

 

La nostra società è marcata da una folle ricerca della felicità ma è incapace di comprendere come questa sia solo temporanea. “Il segreto per ottenere la felicità nella vita in città consiste nel saper vivere intensamente l’avventura generata dalla incerta definizione della propria mèta e del proprio itinerario”.

Difficile essere felici nel nostro tempo privo di certezze: “la fonte più profonda della loro infelicità era l’incertezza”. “La felicità è una fuga dall’insoddisfazione.” “Poiché la felicità è lenta ad arrivare, e, una volta arrivata non si può mai sapere quanto a lungo si fermerà, la ricerca non ha mai fine, e necessita di obiettivi sempre nuovi.”

Se nel mondo moderno si faceva di tutto per costruirsi un’identità forte e riconoscibile, che ci forniva stabilità e sicurezza, nel mondo post-moderno, fatto di avatar e nickname, di situazioni in continua evoluzione, l’obiettivo è il superamento dell’identità, forse spinti da una spasmodica ricerca della privacy in un mondo che è sempre più una piazza informatica globale.

Siamo nel tempo dell’identità biodegradabile: “La postmodernità in plastica biodegradabile.

 

Si sofferma, poi, Bauman sulla differenza tra pellegrino e turista, per dire che è finito il tempo dei primi e siamo in quello dei turisti.

Rimuginava Sant’Agostino, i Cristiani vagabondano «come in pellegrinaggio nel tempo, cercando il regno dell’eternità» . Pellegrini del tempo, che splendida espressione! Se si crede in un aldilà quanto è vera: attraversiamo il nostro tempo mortale come in un viaggio, ma la nostra vera vita è altrove.

La definizione, però, è affascinante anche per un ateo: che cosa facciamo se non attraversare il tempo dalla nostra nascita alla nostra morte? Crediamo di vivere in un luogo, ma siamo anche in continuo movimento nel tempo.

“Per i pellegrini nel tempo, la verità è altrove; il vero luogo è sempre a una certa distanza, lontano nel tempo. Dovunque il pellegrino sia ora, non è il luogo dove dovrebbe essere o dove sogna di essere.” Chi viaggia è sempre a metà strada. Viaggiare è realizzare un sogno, muoversi verso una meta agognata e immaginata, che potrà anche rivelarsi del tutto diversa (o almeno così era in tempi precedenti google e streetview). “La vita terrena non è se non una breve “ouverture” all’eterna durata dell’anima.

II mondo non è più ospitale verso i pellegrini. I pellegrini hanno perso la loro battaglia vincendola. Si sono dati da fare per rendere il mondo solido rendendolo flessibile, in modo che l’identità potesse essere costruita secondo la propria volontà, ma costruita sistematicamente, piano dopo piano e mattone dopo mattone. Hanno incominciato con il trasformare lo spazio in cui bisognava costruire l’identità in un deserto. Si sono resi conto che il deserto, anche se confortevolmente privo di qualsiasi configurazione per coloro che intendono lasciare il proprio segno, non trattiene bene i segni. Più è facile lasciare un’orma, più è facile cancellarla. Basta un soffio di vento. E i deserti sono posti ventosi.

Divenne presto evidente che il vero problema non era tanto come costruire un’identità, ma come preservarla”.

Zygmunt Bauman (Poznań, 19 novembre 1925 – Leeds, 9 gennaio 2017) è stato un sociologo, filosofo e accademico polacco.

Viviamo in un grande deserto in cui non solo “verba volant” ma anche gli scritti e ogni manifestazione del nostro essere, travolti dalle onde di piena del web, su cui ormai anche i migliori surfer non riescono ad allontanarsi dalla spiaggia.

Il flâneur è un gentiluomo che vagabonda senza meta, godendosi la vita.

Walter Benjamin trasformò “flâneur” in una parola comune dell’analisi culturale, figura centrale e simbolica della città moderna. Tutte le sponde della vita moderna sembravano incontrarsi e legarsi nel passato e nell’esperienza del bighellone: andare a passeggio come uno va a teatro, trovandosi tra estranei ed essendo per loro un estraneo (nella folla ma senza appartenervi)”.

“I malls hanno dato inizio alla promozione postmoderna del flâneur”. Il vagabondare è diventato forza propulsiva dell’economia moderna, è stato canalizzato nei corridoi dei centri commerciali, indirizzato dalle tentazioni dello shopping, fisico o virtuale.

“Il vagabondo. Il vagabondo era il flagello della prima modernità, il germe che portava governanti e filosofi alla frenesia di ordinare e normare. Il vagabondo era senza padroni, e l’essere senza padroni (fuori controllo, disordinato, libero) era una situazione che la modernità non riusciva a tollerare e contro la quale lottò fino alla fine.”

“Ciò che faceva del vagabondo una figura terrificante era la sua apparente libertà di muoversi e quindi di sfuggire alla rete di controllo locale.”

Ora, invece, il vagabondo è stato irreggimentato. Ogni suo movimento è controllato e canalizzato verso il consumo.

“Come il vagabondo, il turista era solito occupare i margini dell’azione «propriamente sociale» (anche se il vagabondo era un uomo marginale, mentre il turismo era un’attività marginale), e si è ora spostato verso il centro (in entrambi i sensi). Come il vagabondo, il turista è in movimento. Come il vagabondo, egli è dovunque egli vada, ma non è mai del posto.”

Il mondo del turista è interamente ed esclusivamente strutturato in base a criteri estetici (sempre più numerosi autori che notano l’«estetizzazione» del postmoderno a sfavore della sua altra dimensione, anche morale, descrivono -senza accorgersene – il mondo visto dai turisti; il mondo «estetizzato» è il mondo abitato dai turisti)”.

Siamo turisti per tutta la vita in costante ricerca di una felicità fatta di nuove scoperte che possano meravigliarci ogni volta di più, perché la meraviglia funziona così, c’è solo verso qualcosa di totalmente nuovo. Si procede in un crescendo di emozioni. Diveniamo avidi di novità, di nuove esperienze.

Eppure… Eppure in questo mondo di perenni turisti, di gente in continuo movimento e quindi eternamente straniera rispetto a chi gli è attorno, non più parte di una comunità fisica ristretta ma semmai di mega comunità distribuite e virtuali, in questo mondo temiamo ancora lo straniero, l’estraneo, il diverso. Perché ci fa paura? Perché ci somiglia. Se siamo tutti turisti in casa nostra, siamo anche un po’ stranieri. Bauman lo spiega con la vischiosità. Se ci immergiamo nell’acqua non proviamo orrore perché resta separata da noi, ma se ci immergiamo in qualcosa di vischioso, questo ci resta addosso perché ha una consistenza simile a noi. Lo straniero (il migrante, direi oggi) ci fa tanto più paura quanto più ci somiglia (o magari somiglia al nostro passato rimosso). Più gli siamo vicini, come condizione economico-sociale per esempio, più ci disturba. “Entrare in contatto con il vischioso significa rischiare di dissolversi in esso”. “Ognuno rappresenta per l’altro l’elemento vischioso, ma ciascuno combatte la vischiosità dell’altro in nome della propria purezza.

Ed ecco che la paura del diverso diviene strumento di controllo politico per i potenti. Mezzo di propaganda. Sistema per spostare l’attenzione dai problemi reali.

Bauman passa, quindi, a parlare del sistema di controllo politico panottico del mondo moderno, basato sia su fabbriche di ordine come scuole, caserme, carceri, ma anche e, soprattutto, sulla famiglia, “fu probabilmente l’impiego della famiglia come agenzia di sorveglianza complementare che spinse Foucault a descrivere il potere panottico come capillare”.

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flâneur

Il panopticon o panottico è un carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham.Il concetto della progettazione è di permettere a un unico sorvegliante di osservare (opticon) tutti (pan) i soggetti di una istituzione carceraria senza permettere a questi di capire se siano in quel momento controllati o no. Siamo tutti prigionieri di un sistema in cui ogni nostro movimento è controllato dal web grazie alla nostra attiva collaborazione, ai nostri sistemi GPS, ai nostri post in cui comunichiamo costantemente dove siamo e che cosa siamo al mondo intero che pare indifferente ma registra ogni cosa.

Il mondo moderno era uno in cui ordine ed efficienza erano fondamentali e implicavano anche la salute dei propri membri, salute intesa come fitness, la sola forma che consenta di essere sempre reattivi agli stimoli promozionali che ci trasformano in consumatori partecipi.

In un modo o nell’altro, i «disordini» più diffusi e preoccupanti sono i «disordini» del “consumo”.”

Si combatte contro la morte, ma poiché non può essere sconfitta la si divide in miriadi di patologie da combattere separatamente. Ecco allora l’esigenza di isolare i malati. Ecco l’eugenetica. Ecco il suo degenerare nel razzismo. Le azioni della comunità si concentrano contro ciò che minaccia la salute. Lo straniero ne minaccia l’integrità e va isolato, allontanato o assimilato. La diversità appare come un male, anziché come una ricchezza della società. L’assimilazione dello straniero può darci l’illusione di non essere un approccio razzista, ma lo è come gli altri due, in quanto nega la convivenza con la diversità.

Non sempre Bauman sembra assumere una posizione precisa, di approvazione o disapprovazione, in quanto descrive, ma il volume si presenta ricco di temi di riflessione per analizzare e comprendere il nostro tempo o, meglio, il nostro recente passato.

 

L’UOMO CHE GIOCAVA CON SE STESSO

Risultati immagini per mancu li cani randazzoNico è un ludopatico. Nico è un maniaco depressivo. Nico è un uomo bipolare. Nico è un ragazzo di venticinque anni che sta buttando via la sua vita. Ogni mossa di Nico lo butta sempre più giù, lo rovina sempre più, lo spinge sempre più verso la marginalità sociale.

Di Nico ci parla Tommaso Randazzo nel suo romanzo “Mancu li cani”. Tommaso Randazzo è un educatore professionale per migranti che conosce il mondo di chi vive ai limiti della società e ritrasmette la sua conoscenza in questo romanzo vivo e vibrante.

Il suo protagonista, all’inizio, fa il buttafuori, partecipa a incontri di lotta clandestina e gioca d’azzardo senza moderazione. Non proprio un gran curriculum. Sarà però la lotta a portarlo fuori dalla spirale del gioco d’azzardo in cui lo sta ficcando la sua ludopatia incontrollata.

Quel che mi è piaciuto meno di questo romanzo credo sia il titolo “Mancu li cani” che mi ha dato la sensazione potesse essere una storia giocata tutta su slang di vario genere, su sensazioni forti da discoteca e sala giochi. Il libro è, forse, un poco anche questo ma è anche molto di più. Lo avessi scritto io lo avrei intitolato “L’uomo che giocava con se stesso” o “L’uomo bipolare” o “Il ludopatico” o chissà come.

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Tommaso Randazzo

Mancu li  cani”, ci parla del dramma di un ragazzo che vede la propria vita scivolare via per colpa propria e che non riesce ad afferrarla, a bloccarne la caduta, il crollo. “Mancu li cani” ci parla di un intero mondo di sopraffazione, di ricatto, di usura, con il suo satellite della prostituzione, della nuova tratta di schiavi che vengono invogliati a salire sui barconi della falsa speranza, attratti dalle sirene illusorie di un mondo migliore. “Mancu li cani” ci parla di gente per la quale “il costo della vita e lo stipendio medio hanno litigato da tempio  e non si parlano più”, gente tranquilla e normale, ma che non ce la fa a sbarcare il lunario e si ritrova nei centri sociali, assieme a gente che c’è finita per vicende ben più tetre di droga, alcol e sfruttamento.

Carlo Menzinger con il romanzo di Tommaso Randazzo

Mancu li cani” ci parla anche del vuoto interiore di questa società consumista che permette l’esistenza delle slot machine, delle sale da gioco, degli psicofarmaci, ma anche delle automobili a benzina solo per interessi economici di chi ha il potere: “Siamo vuoti, come il riflesso del mare negli occhi dei pesci stecchiti al bancone dei surgelati”.

Perché ci sono gli interessi economici delle case farmaceutiche, perché è più facile fare così che occuparsi veramente dei problemi. Ad esempio, ormai hanno inventato le macchine che vanno a energia solare, ma abbiamo sostituito le macchine a benzina? No, cazzo, no!”.

Insomma, “Mancu li cani” è un romanzo importante, è una una storia di vita vissuta, mal vissuta, ma anche la denuncia di un mondo in rovina di cui siamo tutti colpevoli, come scopre lo stesso Nico, diventando con questa consapevolezza, per una volta, davvero un piccolo eroe, lanciandosi in un’ultima follia, ma questa volta non più per avidità, ma per il suo opposto.

LE SPIRALI ATTORNO AL GOLPE

Risultati immagini per anatomia di un istante di javier cercasAnatomia di un istante” (2009) del giornalista e professore spagnolo Javier Cercas Mena (1962) non è un romanzo (come da qualche parte erroneamente si scrive), anche se l’autore è noto per l’uso del cosiddetto romanzo non-fiction e l’unione di cronaca e saggio con la finzione, ma un saggio sul golpe del 23 febbraio 1981 in Spagna. Il colpo di stato fu un evento mediatico, in quanto ripreso dalle telecamere e Javier Cercas Mena inizia la sua indagine proprio da queste immagini, analizzando innanzitutto il comportamento dei vari protagonisti in quell’occasione, nel parlamento spagnolo, mentre i militari armati irrompevano sparando. La sua indagine si concentra soprattutto sul grande protagonista di quello “spettacolo” nonché principale bersaglio dei golpisti, il presidente del consiglio dimissionario Don Adolfo Suárez González, I duca di Suárez. L’autore mostra il primo ministro restare in piedi, mentre quasi tutti i parlamentari si buttano a terra, nascondendosi sotto gli scranni. Un’altra figura che resiste agli spari e alla violenza dei golpisti che vorrebbero far distendere è il capo del partito comunista Carrillo.

L’autore esamina il senso e il simbolo del loro gesto, andando ad allargare la scena al passato e al futuro. Non stima Suárez, un ex-falangista franchista, passato poi al potere per gestire il passaggio dalla dittatura franchista alla democrazia, ma vede in quel suo gesto il riscatto di tutti coloro che erano stati fascisti e che ora dicono no a quel modo di affrontare le cose.

Ci mostra come questo presidente, messo al governo dal re e con l’appoggio delle destre, abbia in realtà smantellato molto di quello che rappresentava questa destra dittatoriale, aprendo alla sinistra e “sdoganando” persino il partito comunista. Fu sempre lui ad aprire alle autonomie catalane, basche e galiziane, in uno stato storicamente centralista. E proprio in questi giorni, in Catalogna, con il referendum separatista, forse stiamo proprio vedendo i frutti di quella politica così poco nazionalista.

Al momento del golpe, Suárez aveva perso ogni appoggio, inviso alla destra, guardato con sospetto dalla sinistra che ne ricordava i trascorsi franchisti e, persino, abbandonato dal suo re.

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Javier Cercas Mena

I golpisti erano, dunque, convinti che la sua caduta non avrebbe trovato oppositori. C’erano, spiega Javier Cercas Mena, in realtà tre golpe l’uno nell’altro, ognuno con idee diverse, ma accomunati solo dal desiderio di spodestare Suárez. I golpisti erano convinti, più o meno in buona fede, di avere in questo l’appoggio del re. Non lo ottennero nel momento decisivo e così il golpe fallì, lacerato dalle sue diverse anime, diviso tra chi voleva un golpe duro e chi uno morbido.

Il libro descrive con toni quasi romanzeschi questi personaggi, i golpisti, il presidente, il re, girando attorno al momento cruciale del 23 Febbraio 1981. Ci gira, però, così tanto intorno, tornandoci e ritornandoci per vie simili o vicine, che spesso il panorama somiglia anche troppo a quanto già abbiamo letto. Oltre trecento pagine avrebbero potuto ridursi a un terzo senza eccessiva perdita di informazioni. Questa struttura narrativa spiraliforme, di per sé, potrebbe anche essere una forma interessante, ma diventando strumento per ripetere immagini, scene e concetti già detti, finisce per annoiare, soprattutto un lettore italiano, che a differenza di quello spagnolo, considera il golpe del 23 Febbraio un evento storico del tutto marginale e del quale forse gli basterebbe conoscere le linee essenziali. Se questo fosse un vero romanzo, sarebbe un’altra questione, ma essendo un saggio, pur avendo una scrittura vivace e coinvolgente, alla fine un po’ annoia.

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Adolfo Suárez González

Rimane la sensazione della grande debolezza della democrazia in Spagna negli anni dopo la fine del franchismo e visti i recenti eventi catalani, si capisce che questa fragilità non è ancora terminata. Per una volta, l’Italia, nel raffronto con l’estero, pare un baluardo della democrazia e della libertà. Del resto non abbiamo avuto la ventura di un fascismo franchista durato fino alla morte di Francisco Franco il 20 novembre 1975. Se Benito Mussolini non fosse stato sconfitto e fosse vissuto per altri trent’anni che Italia avremmo avuto negli anni ’80? E oggi? Ma questa è materia per un’ucronia come “L’inattesa piega degli eventi” di Enrico Brizzi o “Nero italiano” di Giampietro Stocco.

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