Sappiamo tutti che la Storia la scrivono i vincitori, in particolare la Storia di guerra. Colpisce sempre, però, quando

capita di affrontarla da un altro punto di vista. Da decenni ormai gli indiani non sono più i cattivi nei western, ma altri cambi di prospettiva faticano a realizzarsi. La Seconda Guerra Mondiale forse c’era ancora troppo vicina perché qualcuno ne rovesciasse le prospettive.
Non parlo certo di pretestuosi negazionismi, ma del portare in evidenza colpe nascoste dei vincitori. L’orrore dei campi di sterminio nazisti, per esempio, non dovrebbe farci dimenticare che c’erano campi di concentramento anche nella “libera” America, in cui furono deportate intere famiglie di cittadini americani, colpevoli solo di essere di origine giapponese: uomini, donne, vecchi e bambini.
“Il gusto proibito dello zenzero” di Jamie Ford (Eureka, California, 9/7/1968) non è un romanzo di denuncia e non è stato scritto da un giapponese, ma una storia d’amore alla Romeo e Giulietta, dove gli amanti non sono divisi dalle divergenze familiari ma da quelle dei popoli d’origine. Henry e Keiko sono, infatti, entrambi dei dodicenni americani, ma d’origine cinese lui, d’origine giapponese lei.
La Seconda Guerra Mondiale, che da noi tendiamo a vedere come un conflitto europeo esteso ad altre parti del mondo, nel romanzo appare come un prolungamento della guerra cino-nipponica. Quasi non si parla di tedeschi, inglesi, francesi e russi.
La narrazione ci mostra anche un diverso aspetto del razzismo americano, diverso da quello verso gli afro-americani: quello contro gli orientali.
Ecco quindi questa bella amicizia tra due ragazzini di dodici-tredici anni e un musicista jazz di colore adulto. Ecco una storia con la musica in sottofondo, che ci mostra in modo nuovo uno spaccato della provincia americana (Seattle) in due periodi, gli anni quaranta e ottanta del secolo scorso.
Mentre leggevo la mente mi correva spesso a un altro bel romanzo, “Venivamo tutte per mare” di Julie Otsuka, che ci narra come, a bordo di una stessa nave, siano arrivate in America tante ragazze giapponesi per sposarsi con un marito conosciuto per corrispondenza, che in America hanno vissuto e che allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale sono diventate il nemico, sono state rinchiuse in ghetti e lager o scacciate, perdendo tutto quello che avevano creato con

anni di vita e lavoro.
Anche la giovane protagonista de “Il gusto proibito dello zenzero”, che neppure conosce il giapponese, finirà in uno di questi lager assieme alla famiglia e poi sarà allontanata. La giovane storia d’amore si spezzerà, come il metaforico disco a 78 giri, che appare nel romanzo, e le loro vite prenderanno strade diverse, pur restando i loro cuori uniti.
Il romanzo neppure accenna al forse ancora più grande orrore delle due atomiche sganciate su un Paese ormai sconfitto e si mantiene distaccato, senza denunciare o accusare, ma mostrando semplicemente l’ingiustizia e il razzismo nelle loro manifestazioni materiali.
Per chi volesse approfondire la Storia del conflitto da punti di vista diversi, suggerirei, per i coinvolgimenti americani nella gestione dei campi nazisti l’ucronico (ma tutt’altro che insensato) “Processo n.13” di Pierfrancesco Prosperi e, sulla scelta di bombardare la popolazione civile tedesca, la “Storia naturale della distruzione” di Winfried G. Sebald.
A proposito dell’autore, nell’intervista che chiude il volume, spiega di essere cinese ma che suo nonno adottò il cognome Ford per sembrare più americano e che la storia, per quanto inventate a alcuni collegamenti con ricordi familiari.
La traduzione italiana del titolo (“Hotel on the Corner of Bitter and Sweet”) è suggestiva e mi ha indotto alla lettura anche per la mia passione per lo zenzero, che, in realtà, vi compare ben poco, a parte un punto in cui si dice che viene utilizzato nella preparazione del gin, cosa che mi pare piuttosto strana. Semmai si usa per aromatizzarlo, non come ingrediente base.