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BULLISMO E PUPISMO IERI E OGGI

Ricordo che quando ero bambino, non penso di aver avuto più di otto anni, il padre di un mio amico (una persona piuttosto diversa dai miei genitori a dir il vero) ci diceva qualcosa tipo: «Dovete imparare a diventare dei bulli. Dovete essere tosti, così le pupe vi correranno dietro».

Fu, credo una delle prime volte che sentii la parola “bullo” o quanto meno la prima in cui la vidi inserita in un contesto “morale”.

Durante la mia infanzia i bulli erano più che altro quelli del film “Bulli e pupe” con Marlon Brando e Frank Sinatra, “Bulli e pupe. Storia sentimentale degli anni cinquanta” di Steve Della Casa e Chiara Ronchini, “Giggi il bullo” con Alvaro Vitali ma ancor più “Poveri ma belli” di Dino Risi, anche se non ricordo se lì si usasse il termine.

Insomma, il bullo non era certo un modello di uomo o ragazzo da imitare, soprattutto per il mio tipo di formazione, ma era solo e soprattutto un ragazzo di borgata o periferia, sbruffone e cialtrone, non tanto un violento o un prevaricatore. Credo di averlo considerato spesso quasi un sinonimo di trasteverino, l’abitante di uno dei quartieri “antichi” di Roma.

Probabilmente la prima volta che ho usato il termine “bullismo” associandolo a un fenomeno di violenza e prevaricazione tra i giovani è stato quando ero ormai padre.

Questo non vuol dire che quando ero giovane questo fenomeno non esistesse. C’era eccome, ma i ragazzi imparavano a cavarsela da soli e, soprattutto, se non ci riuscivano, nessuno correva ad aiutarli.

Quando mi è stato chiesto di scrivere un racconto fantasy sul bullismo ho pensato di parlare del clima di violenza che si respirava ai tempi in cui ero al liceo, in particolare il 1977-78: gli anni di piombo. La rivoluzione culturale pacifista del 1968 si era ormai trasformata in un periodo di terrorismo e lotta armata, di estreme destre ed estreme sinistre che facevano a gara a chi creasse un maggior clima di terrore.

In tempi di prevalenza della Democrazia Cristiana, con all’opposizione un diffuso Partito Comunista, mi trovai in un anomalo liceo in cui il Movimento Sociale aveva quasi la metà dei consensi (e molti facevano parte di movimenti come Terza posizione). I fascisti spadroneggiavano ma il loro comportamento, a scuola, era proprio quello dei “bulli”: minacce, pizzi, bande semi-organizzate, picchettaggi. La politica spesso era solo un pretesto, anche se molti di loro gravitavano attorno a quello che sarebbe dovuto diventare il mio professore di filosofia se non fosse stato arrestato prima di diventarlo in quanto accusato di essere il mandante di alcuni omicidi, tra cui quelli dei magistrati Vittorio Occorsio e Mario Amato, nonché della strage di Bologna, per cui venne successivamente assolto. Venne poi condannato per associazione sovversiva e banda armata. Molti dei suoi alunni erano i nostri bulli alcuni dei quali arrestati per terrorismo. Insomma, non proprio gente facile da affrontare. E non venitemi a dire che oggi il bullismo è peggiorato…

Nel mio racconto “La banda degli sfigati” ho immaginato un liceo popolato da giganti, nani, elfi, orchi e altre creature magiche, che si scontrano con le stesse dinamiche. Gli anni di piombo, sono diventati qui gli anni di ferro.

Trovo interessante come il termine bullismo solo in pochi decenni abbia finito per rappresentare situazioni e persone ben diverse.

Il racconto fa parte di un’antologia “Non ti temo più”, edita a settembre 2022 da Tabula Fati e curata da Paola De Giorgi. Il sottotitolo è “Storie di bullismo e Cyberbullismo”. Già, perché quello che ai miei tempi mancava era il bullismo on-line e oggi si deve parlare anche di quello.

Il volume mi ha colpito per la prevalenza di voci femminili, su un fenomeno che, nella mia ignoranza, configuravo soprattutto maschile, perché derivato da quel mondo di cui scrivevo sopra, ma non c’è dubbio che anche delle ragazze possono essere malvagie e crudeli verso altre ragazze o che il fenomeno possa avvenire anche tra sessi diversi. Ai miei tempi i comparti erano maggiormente separati. Alle elementari ero in una classe di soli maschi, tanto per dire. Le autrici sono, dunque, undici, i racconti di autori maschi solo sei (due scrivono in coppia). Quattro delle cinque prefazioni sono scritte donne. Non ho verificato quanti personaggi maschili e quanti femminili ci siano, ma l’impressione è stata di una prevalenza di queste ultime figure, mentre mi sarei aspettato quanto meno rapporti invertiti.

Credo che questo sia un segnale di come il bullismo si stia trasformando. Non più semplice connotazione sociale tipicamente maschile, ma fenomeno di disagio diffuso in cui le donne sono diventate protagoniste. Si potrebbe forse parlare di “pupismo”, dato che la connotazione credo possa essere diversa a seconda del sesso degli attori. Le ragazze “pupizzano” in modo differente, più psicologico, credo, da come i maschi bullizzano, con maggiore fisicità. Se per i maschi le vittime del bullismo sono soprattutto ragazzi che non seguono le regole del gruppo dei bulli (che possono anche essere ben diverse dalle regole della società nel suo insieme), che hanno comportamenti difformi dalla “norma”, per le femmine credo che l’aspetto esteriore sia una causa scatenante più forte: magrezza, obesità, bruttezza in generale. Non per nulla nel volume, con il suo sguardo femminile, si parla di bodyshaming e persino di grassofobia.  

Nelle storie femminili mi pare prevalga l’intervento risolutore esterno, mentre questo è meno presente in quelle maschili.

Il volume si caratterizza per una certa diffusione di elementi fantastici o magici.

Nel racconto di Loredana Pietrafesa che apre il volume abbiamo una bambina perseguitata da due gemelle che troverà nella voce fantasma del nonno morto (che le manda messaggi in rima su aeroplanini di carta) la forza per superare la situazione, grazie anche all’intervento degli adulti e alla magia del nonno-fantasma che farà confessare le gemelle.

Surreale il racconto di Chiara Onniboni in cui un bambino mangia tutte le merendine dei compagni per non farli ricattare dai bulli. Di nuovo a essere risolutivo è l’intervento delle “autorità adulte”.

Nella storia di Marco De Franchi un padre bullo si ritrova con un figlio bullizzato. La soluzione arriva ancora dall’esterno.

Melania Fusconi ci regala una vittima magica, la cui capacità di mutare forma diventa la propria tortura personale e la causa del bullismo contro di lui. L’aiuto è ancora esterno e magico.

Nella storia di Carla Dolazza la protagonista, isolata dai coetanei, cerca l’amicizia nel portiere dello stabile (come non pensare a “L’eleganza del riccio” della Burberry o a “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca), che si rivela peggiore dei suoi compagni. Di nuovo abbiamo un intervento salvifico esterno.

Nel racconto di Alessandra Zenarola la causa del bullismo non è la bruttezza, ma il suo opposto, la bellezza. Qui sarà l’amicizia di un coetaneo a salvarla. Non occorre l’intervento di alcuna autorità. Sarà forse perché il bullismo contro una bella somiglia più all’invidia, mentre di solito è motivato dal disprezzo. Su questo però credo occorra fare una riflessione maggiore. Il bullo, credo, può essere spinto alla violenza proprio dal fatto di sentirsi “inferiore” nel contesto sociale in cui vive. Non credo sia tanto l’invidia verso la sua vittima a spingerlo ma piuttosto una sorta di invidia sociale verso il contesto in cui vive e in cui non riesce a eccellere a portarlo a dimostrare sui più deboli la propria fragile superiorità.

Analogamente la protagonista “Supplì” di Nicoletta Romanelli non doveva essere così “nerd” o brutta, se a salvare anche lei è l’amore di un ragazzo.

A salvare il protagonista di Andrea Gualchierotti è lui stesso, grazie a un sogno. Qui la causa del bullismo è solo una sua cicatrice. Come si diceva, però, per i maschi i problemi fisici sono facilmente superabili, soprattutto quando, come in questo caso non sono troppo marcati. Gli stessi difetti fisici posso essere causa di bullismo come non esserlo per nulla.

Il bullo di Errico Passaro insegue la propria vittima anche dopo essere morto, ma questa riesce a trovare in se stesso il modo per superare il problema.

Enrico & Vittorio Rulli decidono di usare il punto di vista del bullo, in una storia in cui la vittima di ragazzo è una ragazza, che lui prende in giro dicendole di amarla. Con pentimento postumo.

Un ragazzo magro ai limiti dell’anoressia nella narrazione di Donato Altomare riesce a ottenere il rispetto di chi lo bullizzava salvandoli in una situazione difficile. Risolve dunque da sé il problema in modo costruttivo e positivo, trasformando sapientemente il contesto e riuscendo a guadagnarsi la stima dei suoi avversari. Certo la sfortuna dell’incidente è stata per lui una discreta fortuna. Anche nel mio racconto uso il medesimo meccanismo, pur in un contesto diverso: la vittima vince aiutando i bulli e cambiandoli. Che è poi la mia esperienza personale in merito e quella che sento come più reale.

Nel racconto di Fiorella Borin l’essere bullizzati entrambi farà scoccare qualcosa tra un ragazzo e una ragazza.

Come nel racconto di Alessandra Zenarola, la vittima è una ragazza bella, che qui fa riemergere nell’insegnante i propri, simili, trascorsi giovanili.

Il racconto dai toni fantascientifici di Paola Giorgi ci mostra un futuro di una società divisa tra bulli (Alfa) e vittime (Omega). Purtroppo, non mancano al mondo ideologie che potrebbero portare in tale direzione.

La protagonista della vicenda narrata dalla curatrice Paola De Giorgi si presenta come una delle vittime più mature quando scopre che non c’è “nessuno a cui chiedere. Nessuno a cui rivolgersi in cerca d’aiuto” e quindi l’importante è che “Non devi arrenderti mai”.

Roberta Zimei immagina di intervistare un bullo pentito anni dopo che ha provocato involontariamente la morte della sua vittima.

Un argomento che il volume non tratta (del resto non è un saggio ma solo una raccolta di racconti) è il bullismo tra adulti. Devo dire che anche questo esiste e, anche se si dovrebbe presumere che un adulto siam meglio attrezzato per difendersi, ho visto persone prevaricarne altre sfruttando magari solo una posizione gerarchica superiore, non limitandosi a sfruttare la propria vittima, ma mettendola alla berlina davanti ai colleghi.

Insomma, un fenomeno a 360 gradi, che riguarda ogni fascia d’età e ogni sesso.

Il volume ha ricevuto il sostegno e la sponsorizzazione di molte associazioni. A fine volume si leggono i loghi della Commissione Pari Opportunità della Città di Porcia, dell’ADAO, Associazione Disturbi Alimentari e Obesità del Friuli, di Consult@noi, Associazione Nazionale Disturbi Alimentari e molti altri.

Una lettura importante per conoscerci meglio e riflettere sul nostro mondo, i rapporti interpersonali e il mondo giovanile.

COME SI DOVREBBE STUDIARE LA STORIA

Forse una trentina d’anni fa lessi un saggio (di cui non ricordo né titolo né autore) che trovai molto illuminante su come l’epoca moderna sia notevolmente meno violenta di quelle antiche, anche se la percezione comune sembra immaginare l’opposto.

Questa discrepanza tra realtà e percezione credo derivi dal fatto che anche una piccola dose di violenza appare come disturbante e quindi ci lascia insoddisfatti come se fosse assai maggiore di quanto è. I media poi ce la mostrano, amplificata, come se fosse onnipresente.

Leggo ora un saggio più recente e molto più elaborato che riprende la medesima idea: Il declino della violenza(“The Better Angels of Our Nature: Why Violence Has Declined”, 2011) di Steven Pinker, un saggio di ben 898 pagine nell’edizione italiana (Mondadori). Un libro impegnativo per dimensioni ma accessibile a tutti per contenuti e che tutti dovrebbero leggere per capire chi siamo, come siamo e perché.

Come lo stesso Pinker nota nelle sue conclusioni, infatti, il declino della violenza è il fenomeno storico più importante della Storia, ma anche il meno conosciuto e studiato. Occorre porre fine a questa situazione perché si porta dietro equivoci deleteri nella descrizione del mondo contemporaneo, che, come faccio notare spesso, tutto sommato, pur con i suoi difetti, sembra essere proprio uno dei migliori mondi possibili che si possano immaginare, ma rischia di non restarlo a lungo se non lo proteggiamo adeguatamente.

Secondo, enorme, pregio di questo libro è che sa esaminare la Storia con uno sguardo scientifico, facendo ricorso a statistica, demografia, psicologia e persino psichiatria.

Credo, infatti, che lo studio della Storia sia ancora, spesso, a livelli primitivi e molta strada debba essere fatta ancora per trasformarla in una Scienza. Anche l’uso dell’ucronia, con lo studio dei mondi alternativi possibili sarebbe uno strumento di cui ogni storico dovrebbe dotarsi nelle sue analisi. La Storia è, poi, molto poco scientifica nello studiare i propri numeri.

Non a caso Steven Arthur Pinker (Montréal, 18 settembre 1954), un canadese naturalizzato statunitense, è uno scienziato cognitivo, professore di psicologia all’Università di Harvard e non uno storico. Non per nulla un altro dei migliori autori di saggi storici per me è Jared Diamond (autore, per esempio, di “Armi, acciaio e malattie” e “Collasso”). Jared Mason Diamond (Boston, 10 settembre 1937) è un biologo, fisiologo, ornitologo, antropologo e geografo statunitense.

Steven Arthur Pinker

Solo grazie a veri scienziati si riesce a dare un approccio moderno e scientifico alla Storia.

Il declino della violenza” sostiene che questa nel mondo è diminuita sia nel lungo che nel breve periodo e in tutti i suoi aspetti (guerra, genocidio, stupro, bullismo, omicidio, trattamento di bambini, donne, minoranze, razzismo…).

L’autore affronta l’argomento sotto diversi punti di vista, tutti estremamente documentati, sia con dati statistici, sia con riferimenti alla letteratura precedente. Non solo analizza le tendenze storiche, ma ne cerca le motivazioni sia nel succedersi degli eventi, sia a livello psicologico e psichiatrico.

Come scrive wikipedia “Sottolinea il ruolo dei monopoli di stato-nazione sulla forza, del commercio (facendo in modo che “altre persone diventino più preziose vive che morte”), di maggiore alfabetizzazione e comunicazione (promotrice dell’empatia), nonché un aumento di un orientamento razionale alla risoluzione dei problemi come possibili cause di questa diminuzione della violenza. Egli osserva che, paradossalmente, la nostra impressione di violenza non ha seguito questo declino, forse a causa di una maggiore comunicazione, e che un ulteriore declino non è inevitabile, ma è subordinato alle forze che sfruttano le nostre migliori motivazioni come l’empatia e l’aumento della ragione.”

Innumerevoli sono stati per me gli spunti di riflessione. Vorrei ricordarne solo alcuni (per quanto abbastanza numerosi):

  • Leggendo la Bibbia avevo già evidenziato la quantità di violenza che vi è presente. Pinker esamina questo e altri testi antichi, che dipingono un mondo in cui la violenza era decisamente più diffusa e accettata.
  • La violenza non è un prodotto della civiltà: Anche i primi ritrovamenti di corpi umani evidenziano morti per violenza. L’uomo è un grande genocida fin dalla preistoria, come ci insegnano opere come “Da animali a dèi” di Harari e “La sesta estinzione” di Kolbert.
  • Nell’analizzare il cristianesimo ne emerge la grande ipocrisia tra la predicazione dell’amore fraterno e la pratica della violenza contro chi non professa la fede (crociate, inquisizione, streghe, cavalleria composta da gentiluomini assassini…).
  • Anche la letteratura successiva abbonda di violenza, basti pensare alle tragedie di Shakespeare e alle fiabe dei fratelli Grimm.
  • Interessante lo studio degli antichi galatei che, nell’indicare come ci si dovesse comportare, mettevano in evidenza i comportamenti antisociali dell’epoca in cui furono scritti. Si pensi all’introduzione delle posate in Europa al posto dei coltelli da guerra e caccia e alla loro totale eliminazione dalle tavole cinesi.
  • Come nell’evoluzione si passa dai microrganismi monocellulari a organismi complessi così nelle società umane si passa da nuclei più piccoli e meno organizzati ad altri che lo sono maggiormente. Questo, sia a livello evolutivo, sia a livello sociale, porta a una riduzione del conflitto tra le singole parti, che ora collaborano tra loro per un bene comune. La crescita della dimensione degli Stati fa diminuire la frequenza dei conflitti.
  • Nell’analizzare le differenze geografiche della diffusione della violenza, nota come alcuni Stati nordamericani abbiamo tassi di violenza tra i più alti del mondo. Analizza quindi come negli Stati Uniti del sud vi sia maggior tolleranza verso la violenza se serve a tutelare se stessi, e come vi sia più forte la cultura dell’onore. Alcuni sostengono che nel sud emigrarono gli scozzesi allevatori mentre nel nord maggiormente agricoltori. Gli allevatori sono più a rischio di essere derubati perché gli animali possono essere portati via la terra no e questo li rende più violenti. Questo però non sembrerebbe vero. Sembrerebbe invece che vi arrivarono popolazioni provenienti da zone montane e più impervie in cui il senso dell’onore era più importante essendo lo stato meno presente. Nell’ovest invece prevalse la cultura di cowboy (allevatori).
  • Il boom di natalità degli anni sessanta portò a un enorme impennata di violenza: difficile gestire questi nuovi barbari da educare. La tv rese la violenza una conoscenza comune degli adolescenti che si potevano ispirare a comportamenti che le generazioni precedenti non avevano conosciuto. I baby boomer rappresentavano un popolo interconnesso grazie a TV e radio. Le élite si sentirono logorate dalla informalizzazione dei rapporti (si veda la progressiva abolizione dell’uso del Lei).
  • Non c’è correlazione tra economia (come maggior ricchezza o povertà) e violenza in particolare omicidi. Casomai la povertà accresce i danni alla proprietà, se cresce la disoccupazione.
  • Un ambiente ordinato fa ridurre la criminalità.
  • La morale stabilisce i propri principi come frutto della ponderazione di costi e benefici.
  • Le guerre di religione, l’inquisizione, la lotta contro gli eretici hanno fatto molti più morti (in proporzione alla popolazione del tempo) delle guerre mondiali. Dare importanza all’anima al posto della vita porta a far perdere valore alla vita stessa e quindi fa aumentare gli omicidi. La morale può essere grave fonte di istigazione alla violenza. Pinker descrive poi le atrocità delle torture.
  • La diffusione della pulizia ha reso gli esseri umani meno ripugnanti e quindi meno soggetti a essere oggetto di violenza da parte di altri che li consideravano come non umani.
  • Il miglioramento dell’economia (ricchezza) ha portato in modo maltusiano a un incremento della popolazione e quindi a una ricchezza pro capite invariata fino alla rivoluzione industriale.
  • Nel 1700 la diffusione dei testi scritti e della lettura favorirono l’empatia e la rivoluzione umanitaria.
  • Raffrontando i morti nelle principali guerre della storia umana con la popolazione vivente in ciascuna epoca, si scopre come le guerre del ventesimo secolo in rapporto al numero di abitanti del mondo fossero confrontabili con quelle di molti altri conflitti dei secoli passati. Le morti per eventi singoli possono sommarsi raggiungendo numeri molto maggiori delle grandi guerre. Si pensi alle morti per incidenti automobilistici che nello stesso arco di tempo della Seconda Guerra Mondiale portano altrettante vittime. “delle 21 cose peggiori (a nostra conoscenza) che gli esseri umani hanno fatto gli uni agli altri, quattordici si situano in secoli anteriori al XX”. Di grandissimo interesse la tabella nel Capitolo V che riparametra i morti dei principali conflitti sull’entità della popolazione del tempo. “Il peggiore massacro di tutti i tempi fu provocato dalla rivolta e guerra civile di An Lushan che, scoppiata in Cina sotto la dinastia Tang, durò otto anni e, secondo i censimenti, comportò la perdita di due terzi dei sudditi dell’impero, un sesto della popolazione mondiale del tempo”. I suoi 36 milioni di morti, se parametrati alla popolazione mondiale del XX secolo, sarebbero stati ben 429 milioni, contro i 55 milioni della Seconda Guerra Mondiale. Si era negli anni tra il 755 e il 763 d.C.
  • Le guerre iniziano in modo casuale e finiscono in modo casuale. Non conta la durata del periodo di pace o di guerra precedente. Difficile quindi predire quanto dureranno o quanto dureranno i periodi di pace.
  • Dalle statistiche sulla pace emerge che dopo la Seconda Guerra Mondiale nei Paesi sviluppati tutti gli indici sulla violenza sono pari a zero. Questo non esclude, come abbiamo ben visto in questi mesi, che il processo possa arrestarsi. Il calcolo delle probabilità diceva nel 2011 come fosse pressoché inevitabile lo scoppio di una nuova guerra in Europa. La lunga pace nucleare sembra essere un’eccezione nella Storia. Già dal 1989 gli studiosi sostenevano che la lunga pace stava per finire.
  • Pare che non sia la minaccia nucleare a impedire la guerra ma la volontà di evitare una guerra convenzionale.
  • Gli Americani hanno un’esperienza della guerra molto ridotta rispetto agli Europei, che le hanno affrontate per secoli, forse per questo accettano la diffusione delle armi tra i cittadini e hanno una maggior volontà di combattere.
  • Guardando le statistiche, le democrazie fanno meno guerre degli stati illiberali.
  • Le grandi potenze sono diventate più interessate a far finire in fretta i conflitti scatenati dai loro alleati che non ha farli vincere.
  • Nei Paesi in via di sviluppo la morte per fame e malattie durante i periodi di guerra si sta riducendo. Questo sembra effetto dell’assistenza umanitaria fornita dalle altre nazioni a livello sanitario.
  • Nel XX secolo i genocidi hanno causato più morti delle guerre. Il disgusto spesso è alla base del genocidio e l’ideologia lo sostiene. Ideologie utopiche ricercano la perfezione e portano al genocidio per eliminare chi non risponde ai canoni. Gli utopisti si sentono molto buoni ma non si rendono conto che la loro ideologia portata all’estremo può diventare razzista e generare genocidi. I genocidi sono stati molto meno studiati delle guerre dagli storici. Primi esempi di genocidi furono gli stermini delle altre specie di Homo. A leggere la Bibbia uno dei primi grandi genocidi fu… Dio.
  • In alcune specie, pensiamo ai leoni per esempio, quando ci sono più maschi adulti sono i maschi che lasciano il gruppo. Nei primati (scimpanzè e uomini in particolare) invece semmai sono le femmine che si allontanano, mentre i maschi rimangono nello stesso gruppo familiare e questo crea forme di solidarietà che poi degenerano, per meccanismi di conservazione genetica, in una maggior propensione a sacrificarsi per i propri parenti e quindi anche una propensione alla guerra. Molti terroristi suicidi sono affetti da questa forma di sacrificio per la famiglia. A volte i terroristi suicidi sono scapoli giovani con numerosi fratelli, che beneficeranno di eventuali guadagni offerti dalle cellule terroristiche e per collocare poi il resto della famiglia in modo migliore nella società.
  • Terrorismo nel lungo periodo si estingue, degenerando in violenza estrema che non trova più supporto nella società civile.
  • Nell’analizzare il rischio di guerra provocata da paesi islamici e lo stato della democrazia di questi, emerge dai dati una forte diffusione del pacifismo islamico.
  • Nell’evidenziare l’importanza della cultura nel ridurre la violenza, cita Voltaire “Coloro che possono farvi credere assurdità, possono farvi commettere atrocità”.
  • Un altro assurdo luogo comune è che i bambini siano innocenti e la violenza si impari. Già la psicoanalisi ci ha mostrato come questo sia del tutto falso. I dati di Pinker mostrano come l’età in cui siamo più violenti è fino ai due anni: i bambini non imparano la violenza, imparano a non praticarla.
  • Come diceva Platone e ripeteva Freud, i buoni sognano di compiere violenza, ma i cattivi la fanno.
  • Nella psicologia della violenza, il colpevole ha sempre una motivazione.
  • Pinker passa poi a esaminare quali parti del cervello si attivino in casi di violenza vendetta e simili, quali sostanze o comportamenti rendano più violenti: l’ossitocina rende più empatici, la lettura di opere di narrativa espande l’empatia, fondamentale lo sviluppo dell’autocontrollo, le tendenze aggressive possono essere ereditabili, il calo della violenza è stato troppo veloce per essere giustificato a livello genetico biologico, il senso morale genera violenza.
  • La tolleranza e le regole di mercato allontanano la violenza come soluzione ai conflitti. Le sanzioni economiche come nuova forma di guerra (lo vediamo anche ora in Ucraina).
  • Studi sulla gravità delle guerre intraprese dagli USA mostrano come sia collegata con l’intelligenza (Q.I.) dei loro presidenti.
  • L’irrazionalità genera violenza.
  • Il Quoziente di intelligenza medio della popolazione (americana) da un secolo a questa parte è aumentato enormemente. Un cittadino medio del 1910 oggi avrebbe un quoziente intorno a un 70. Nei test sui Q.I. risultano migliorati i risultati soprattutto su somiglianze e matrici.
  • Capacità di immaginare mondi ipotetici ci rende più intelligenti, comprensivi e meno violenti. In ambito letterario sottolineerei l’importanza della diffusione di ucronia e fantascienza per aprire le menti.
  • La scuola prima insegnava a imparare a memoria ora insegna a comprendere. È cresciuta l’intelligenza astratta.
  • La stupidità morale favorisce il razzismo.
  • I liberali hanno un Quoziente di intelligenza superiore a quello dei conservatori, ma le persone più intelligenti pensano in modo economico, hanno una visione commerciale dei rapporti umani e questo le porta a una minore violenza. L’educazione prepara alla democrazia. La politica per slogan ne ha abbassato il livello di razionalità portando al ritorno di alcuni episodi bellici.

Insomma, come già scritto, un libro ricchissimo di spunti, che si possono anche non condividere ma da cui partire per comprendere meglio il nostro mondo e migliorare il nostro modo di ragionare. Anche perché una cosa che questo saggio non dice è che se la violenza contro la nostra stessa specie è diminuita, quella contro il nostro mondo sta aumentando vertiginosamente e rischiamo di distruggerlo: non è forse una violenza peggiore che poi si ritorcerà contro tutti noi, che, anzi, già si sta ritorcendo?

LA CURA DI TAMAGOTCHI EVOLUTI

Amazon.it: Il ciclo di vita degli oggetti software - Chiang, Ted ...Ricordate il Tamagotchi, il gioco elettronico portatile inventato nel 1996 da Aki Maita e Akihiro Yokoi?

Come ricorda wikipedia:

L’obiettivo del gioco è quello di prendersi cura sin dalla nascita di una specie aliena chiamata Tamagotchi e dargli il necessario per farlo crescere ed essere suo amico, inoltre bisogna farlo vivere il più a lungo possibile e curarlo in caso di malattia”.

Il ciclo di vita degli oggetti software” (The Lifecycle of Software Objects) è un romanzo di fantascienza di Ted Chiang del 2011 che sembrerebbe prendere spunto da tale gioco, sebbene non lo nomini mai. Ovviamente ci sono nel mondo dei giochi anche altri riferimenti a piattaforme in cui sviluppare personaggi come, per esempio, Second Life, cui probabilmente l’autore pensava, anche perché, come in Second Life, le sue creature si muovono in veri e propri ambienti, mentre il Tamagotchi si limitava ad interagire con il proprietario.

Sebbene dal nome orientale, Ted Chiang (Port Jefferson, 1967) è uno scrittore statunitense.

Ted Chiang - Wikipedia

Ted Chiang

Sebbene di solito la fantascienza che si occupa di informatica non mi attragga molto, forse perché è, paradossalmente, nel contempo, troppo irreale e troppo vicina a noi. Irreale quando descrive mondi virtuali privi delle logiche fisiche e sociali, troppo vicina a noi, perché tutti i giorni abbiamo a che fare con i computer e questo li priva di ogni mistero e poesia. Peraltro, il cyberpunk ha inventato cyberspazi e metaversi difficili da ignorare in letteratura e nel cinema dai tempi di Philip K. Dick (quale genere del fantastico non ha iniziato?) e, ovviamente William Gibson.

Va detto, però, che il romanzo di Ted Chiang, con questi “digienti”, le sue creature virtuali, che cercano di crearsi una personalità e persino uno status giuridico, e con i loro addestratori, che ci si affezionano come a degli animali o a dei bambini, riesce a essere coinvolgente e suggestivo. Interessante è il loro passaggio in corpi robotici e la scoperta di un nuovo ambiente, quello fisico, che, persino attraverso i loro sensi elettronici, ha una diversa consistenza rispetto a quello meno dettagliato delle piattaforme digitali. Quasi altrettanto suggestivo il tema del superamento e della morte delle vecchie piattaforme in cui si muovevano i “digienti” e il tentativo di adattarli a nuovi habitat digitali o quello di utilizzarli come lavoratori o oggetti sessuali e la riflessione se sia meglio addestrarli, facendo loro acquisire esperienze o programmarli già esperti.

Un futuro che in gran parte è già presente.Tamagotchi: il pocket pet ritorna dopo una pausa di 21 anni ...

Dal punto di vista narrativo il rapporto tra i “digienti” e gli addestratori contribuisce a creare personaggi e trama adeguati.

Forse non una pietra miliare della fantascienza o del cyberpunk, ma certo una lettura piacevole e non priva di spunti di una certa originalità.

QUEI PEDERASTI DI ALDO, GIOVANNI E GIACOMO

La pederastia nell’antica Grecia era uno strumento per l’educazione dei giovani, la cosiddetta “agoghé” e non certo la pratica aborrita dalla civiltà contemporanea. Il romanzo di Renato CampinotiNon mollare Caterina” si svolge su due piani. Nel primo troviamo la bella investigatrice Caterina che indaga su un giro di pedofili, nell’altro sentiamo dalla viva voce di uno di questi il loro punto di vista.

Dice, appunto, “E poi, dio io, che male c’è a provare soddisfazione con dei giovinetti? Quelli che si scandalizzano tanto l’hanno studiata un po’ di storia? I Greci prima e poi i Romani, gli Imperatori, per intenderci, avevano il loro giovinetto imberbe con cui sollazzarsi per qualche ora” e c’avrebbe pure ragione, storicamente parlando, anche se costringere un ragazzino a fare sesso o a anche solo convincerlo a farlo con degli adulti è, in realtà una forma di violenza, psicologica e fisica, che forse neppure gli antichi spartani o ateniesi avrebbero accettato.

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Renato Campinoti (Certaldo, 1948)

Campinoti non si limita denunciare la diffusione di un fenomeno che trova nel web un nuovo strumento per diffondersi, ma anche un certo modo di approcciare la vita sociale, fatto di corruzione e prevaricazione, dove chi ha i soldi e il potere si può permettere di tutto, non per nulla, il nostro pedofilo conclude sempre i suoi monologhi con frasi tipo “Ma, ripeto, ce lo potevamo permettere”. Spendono, infatti, per accedere a questo giro di bambini e bambine, pagano per insabbiare le indagini, pagano per corrompere la giudice, pagano per togliere di mezzo chi si mette tra i piedi, pagano per tirar fuori di galera quello dei tre che rimane incastrato, ma il loro mantra è sempre lo stesso, abbiamo pagato, ma che importa, “ce lo possiamo permettere”, quasi che il solo fatto di poter fare qualcosa autorizzi a farlo, come se la morale passi in secondo piano rispetto ai soldi e ai mezzi per realizzare ciò che si vuole o, anzi, non esista proprio.

Si possono permettere tutto, ma non di farsi scoprire, loro che sono importanti figure del mondo professionale, e quindi tra di loro usano nomi falsi. Si fanno chiamare Aldo, Giovanni e Giacomo, come il famoso trio comico, anche se non c’è molto di comico nelle loro azioni.

Riescono a mettere più volte in difficoltà la bella Caterina, ma la poliziotta è perspicace e, soprattutto, “non molla” e riesce a entrare in empatia con le vittime.

Nel corso delle indagini, è dirottata su un altro caso, l’omicidio di una madre e della figlia, ma poi torna sulle tracce di Aldo, Giovanni e Giacomo, che si mettono a giocare sempre più pesante.

Il volume, edito da Porto Seguro, è il primo romanzo di questo autore, membro del GSF Gruppo Scrittori Firenze, che già aveva pubblicato con lo stesso editore fiorentino due raccolte di racconti e che ha dimostrato qui di sapersi muovere bene anche in opere di più ampio respiro.

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Il trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo

LA VITA, LA SCRITTURA, LA BELLEZZA E I RAPPPORTI IRRISOLTI CON IL PADRE

Risultati immagini per nelle case della gente tondiAvevo già incontrato nelle mie letture varie volte Mirko Tondi, presente con suoi racconti nelle antologie “La gioia di vivere”, “Nero urlante” e “Nelle fauci del mostro”, prima di leggere un intero suo romanzo, questo “Nelle case della gente”, che ci parla, tra le altre cose, dei difficili rapporti di un trentaseienne con il proprio padre sessantenne, in una Firenze che ben si riconosce.

Analogamente ci siamo incrociati alcune volte, senza mai conoscerci davvero, poi, durante l’inaugurazione della nuova libreria a Firenze (via Pisana 100R) del nostro comune editore Porto Seguro, mi sono fermato per un po’ a parlare con lui e alla fine ho acquistato “Nelle case della gente”.

Incuriosito da questo autore, che mi avevano indicato come uno dei migliori del GSF – Gruppo Scrittori Firenze, cui entrambi apparteniamo, ho così letto presto il suo romanzo, nonostante abbia ampie pile di libri ancora da aprire, scompaginando come sempre l’ordine di lettura che mi ero prefisso.

Mirko Tondi è uno che la scrittura la conosce, tanto è vero che la insegna in appositi corsi, alcuni anche organizzati dallo stesso GSF. Questo lo sapevo dai racconti e ne ho avuto conferma dal romanzo.

Forse prende modelli un po’ troppo elevati e seri. “Nelle case della gente” cita Proust, Joyce, Kafka, Conrad, Nothomb, Turgenev, Calvino, Poe, Balzac, Malloch, Jackson, Fitzgerald, Dostojevskij, Mann, Roth, McCarthy e non so quanti altri.

In questo libro si interroga sul rapporto con il padre e lo racconta dal punto di vista di un figlio (non saprei dire quanto autobiograficamente), ma anche sul mestiere di scrivere.

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Mirko Tondi

Nei “Ringraziamenti” finali esordisce con un “Non è il libro che ho sempre voluto scrivere. È sta un’opera faticosa dettata dalla necessità di voler raccontare” e si sente che c’è del vissuto che pesa nelle parole che compongono il romanzo.

Rispetto allo scrivere, il suo personaggio ha dei momenti di scoramento: “non ci pensare nemmeno a fare lo scrittore”, si dice. Qua e là emergono suggerimenti da docente di scrittura creativa, alcuni da segnarsi come “ribadisce quanto sia importante scrivere ogni giorno per trovare continuità”.

Quando scrive “Per lungo tempo ha creduto che per lui scrivere volesse dire non essere qui, andarsene in qualche modo e da qualche parte, andarsene per ritornare sempre ma intanto allontanarsi da se stesso. Adesso, invece, sa che per lui scrivere è l’esatto opposto, una maniera per rimanere, per andare verso il suo vero Io, e se ci pensa bene, scrivere altro non è che questo appunto, la ricerca della verità” (pag. 72), non riesco, invece, a immedesimarmi nel personaggio, perché per me scrivere è altro, è gioco, è invenzione, è creazione di mondi nuovi e nulla ha a che fare con cercare o fuggire se stesso e men che mai con la ricerca della verità, che non è materia per la narrativa, che dovrebbe occuparsi proprio del suo opposto, perché non può che essere finzione e simulazione e mai sarà copia della realtà, che non potrà che uscire mediata dalle mani dello scrittore.

Il protagonista pensa che “scrivendo, mai si finisce di cercare il miglioramento, ed è questo uno dei motivi che spinge a continuare pure senza gloria alcuna”, ma io credo che si scriva e si scriva ancora perché le storie si accavallano nella nostra mente e scalpitano per uscire fuori, bene o male, brutte o belle che siano, e poco importa la gloria, mentre il desiderio di miglioramento può esserci ma non è quello a spingere l’autore.

 

Quanto al padre, vero co-protagonista di questo volume, è “un padre non tagliato per il ruolo di padre”, che “non parla altro che di lavoro” (pag. 138), che “non era il tipo che non ti portava mai al cinema per risparmiare”. Il protagonista “non vuole credere che suo padre possa mai essere considerato il migliore dei padri” (pag. 140).

In questo continuo raffrontarsi con un padre quasi assente c’è una sorta di sindrome di Peter Pan e “pur invecchiando rimaniamo i bimbi che sempre siamo stati” (pag. 141).

Per parlare di questo padre usa uno strano inizio di paragrafo “La storia finisce” che prosegue in vari modi come “nel bagno di un cinema”, “con una televisione accesa”, “con un viaggio nei ricordi”, “con un incontro casuale” e così via, quasi a rimarcare questo desiderio di troncare un rapporto psicologicamente doloroso.

 

Nelle case della gente” non parla solo di scrittura e rapporti filiali, ma della vita in genere, della bellezza, delle cose che ci circondano:

Crede che nella vita ci siano vuoti di varia dimensione che vadano riempiti” (pag. 9),

a lui le feste non piacciono affatto”,

Servillo ha detto una cosa che l’ha colpito a proposito della bellezza ovvero che è anonima, non ce ne accorgiamo, anzi svanisce nel momento in cui la cogliamo” (pag. 53),

la bellezza (la sua personale forma di epifania?) è questa quotidiana rivelazione a contatto con la sua casa” (pag. 45),

gli piace osservare le cose mentre si rovinano sotto i suoi occhi” (pag. 51),

più a lungo guardate un oggetto e più mondo ci vedete dentro” (pag. 45) eRisultati immagini per padre e figlio

C’è un’unica cosa che può guarirci dalla malattia di essere ciò che siamo: seguire il sogno, seguire il sogno, e così, eternamente” (pag. 44).

Emerge poi vigoroso il personaggio di Giada che “vuole affermare a tutti i costi la propria identità di donna, vuole essere riconosciuta come tale e non un trans” (pag. 80).

Romanzo, dunque, con poca trama e ancor meno dialoghi, costruito sui pensieri del protagonista e sulla sua visione di ciò che gli sta a cuore. Opera, in fondo, introspettiva, che fa ragionare e riflettere su come siamo e cosa facciamo.

RIDERE PER NON PIANGERE

Ho conosciuto il Professor Marco Scaldini solo pochi giorni fa, il 26/09/19, durante l’inaugurazione della libreria di Porto Seguro in via Pisana 100 R (Firenze). Paolo Cammilli (editore di Porto Seguro) me l’ha presentato e mi ha subito segnalato il suo libro “Botte ai professori”, lodandolo. Ovviamente l’ho acquistato.

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Marco Scaldini

Ho poi invitato Scaldini a partecipare al recente incontro sull’editoria del GSF alla Laurenziana, dove ha raccontato le sue esperienze editoriali.

Complice un’influenza ho preso subito in mano il suo volumetto, piuttosto snello, e l’ho divorato in circa un’ora e mezzo.

Il volume parte un po’ piano, con la prefazione di Gianmarco Perboni, autore del best-seller Rizzoli “Perle ai porci”, che altri non è se non lo stesso Scaldini nascosto sotto alias.

Segue una premessa e a questa un’introduzione. Detto così parrebbe una cosa verbosa e arrotolata su se stessa, ma già in queste prime pagine si comincia a respirare un’atmosfera a metà tra la cosa seria e il comico.

Gli aspetti seri riguardano una critica “empirica” (pag. 13) e spietata alla scuola italiana, o meglio a coloro che ne hanno permesso il degrado.

In primis, se la prende con “l’obbligo a promuovere” (pag. 8) e il concetto di inclusione (“tutti, ma proprio tutti, devono essere in grado di conseguire gli stessi risultati scolastici” – pag. 11), denunciando come non vi sia “un’accoppiata più invisa all’italiano medio di quella rappresentata da scuola e libroRisultati immagini per arrivederci professore(pag. 9).

Segue tutta una serie di capitoli denominati “Esclusione” con un numero a corredo, nei quali elenca, con ironia ciò che andrebbe eliminato dalle scuole e mi pare quasi di rivedere il docente interpretato da Johnny Deep in “Arrivederci professore” di Wayne Roberts, quando caccia dalla classe, con criteri piuttosto arbitrari, intere categorie di studenti.

Così, ironicamente (lo ripeto, perché Scaldini sembra non volersi far prendere troppo sul serio) vorrebbe cacciare quelli che non comprano i libri scolastici ma hanno smartphone costosi, alcune istituzioni, la mindfulness, il politicamente corretto, i genitori che interferiscono con l’insegnamento senza sostenere i docenti, quelli che disprezzano gli insegnanti, la mitezza, la politica, i maniaci dell’insegnamento, gli scioperi, gli insegnanti troppo buoni, le riflessioni, la concorrenza tra scuole, gli insegnanti cretini, i riformatori della scuola e degli esami, i dirigenti scolastici, le gite scolastiche, i Promessi Sposi (una donna in libreria per il figlio non ricorda il titolo del volume da acquistare “deve essere proprio un libro poco conosciuto… ah, eccolo qui! I promessi sposi”, se siamo a questo a che serve studiare Manzoni?), i corsi di recupero, i ricorsi contro le sanzioni disciplinari. Giustamente propone di togliere il passaporto a chi non conosce la geografia. Forse gli andrebbe tolto anche qualcos’altro, se no, si rischia di ritrovarcelo, prima o poi, ministro degli esteri.

A pagina 44 Scaldini mente affermando: “non me ne frega niente di far riflettere. Io scrivo libri divertenti (spero) che hanno come unico scopo quello di divertire”. In realtà, il suo umorismo fa riflettere amaramente e lui lo sa.

Certo, la parte riflessiva è più intensa nei capitoli delle esclusioni, ma l’umorismo cresce in quelli denominato “Reclusione”, in cui applica una sorta di contrappasso (“contrabbasso” direbbe uno dei suoi studenti) verso varie categorie che rovinano la scuola, proponendo la reclusione degli studenti scalmanati in biblioteca, i docenti dei corsi di formazione, i pedagogisti e i dipendenti di strani enti scolastici in aula con i ragazzi.

Si passa poi alle inclusioni, alle cose che non dovrebbero mancare: la memoria storica, la negazione del voto ad alcune categorie, gli insegnanti tra i martiri dei luoghi comuni, il populismo come materia scolastica (inutile che ripeta che sta satireggiando, vero?), le verità antipatiche, le punizioni corporali, le paghe per gli specializzandi.

Si passa poi alla comicità più scatenata nella parte intitolata “Perle nere e perle rare”, umorismo involontario di chi l’ha generato e riportato con sagacia da Scaldini, come in certi libretti di tanti anni fa, in cui erano raccolti gli strafalcioni dei cartelli pubblicitari. Ecco allora una serie di sfondoni clamorosi di docenti, alunni e genitori di questi ultimi.

Una serie interminabile di risate, da non riuscire ad andare avanti per le lacrime agli occhi, ma, alla fine, una tristezza sconfinata, perché so bene che Botte ai professoriScaldini non si è inventato nulla in questo libro, che è stato solo un cronista di una situazione nazionale di ignoranza cronica. E allora mi viene da chiedermi, ma io che cosa scrivo a fare ucronie, se la gente dice certe idiozie? Come posso pensare che capiscano l’ironia di riscrivere la storia in modo diverso, se la storia proprio non la conoscono?

Vorrei riportare qualche esempio, per dare l’idea, ma non saprei quale scegliere, perché ogni frase di questa parte del volume è spietatamente esilarante ed è la lettura nel loro insieme a rendere questa serie di strafalcioni sempre più comica, come un solletico che non vuole smettere e che ti prende ogni frase di più. Forse sono così divertenti, proprio perché ci si arriva dentro un po’ per volta, introdotti dalla parte iniziale più recriminatoria e riflessiva. In “Perle nere e perle rare” si può solo ridere, perché se ci fermiamo a riflettere dovremmo piangere, piangere per quest’Italia, che vista così, sembra proprio senza speranza. Che futuro può, infatti, avere un Paese con dei ragazzi così e una scuola così?

IL RE DELLA MENTE

Stagioni DiverseSono davvero pochi gli autori intensi come Stephen King. Di norma preferisco i romanzi ai racconti ma persino in un’antologia come “Stagioni diverse”, Stephen King dimostra la sua assoluta superiorità non solo rispetto ai contemporanei ma alla maggioranza dei romanzieri di ogni tempo. Va detto che questi quattro racconti sono così lunghi da potersi definire romanzi brevi (neanche poi tanto brevi a dir il vero) e questo certo aiuta l’autore a dare a personaggi e trama la grande profondità psicologica che sempre lo distingue come gran conoscitore degli aspetti più oscuri della mente umana.

 

Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank” è una magnifica storia carceraria di un bancario finito ingiustamente in carcere. L’ambiente del penitenziario crea in chi ci vive uno straniamento particolare e sembra quasi di leggere storie ambientati in altri mondi. Sorprende in King la capacità di inserire una gran quantità di dettagli mai inutili, ma sempre funzionali a una forte caratterizzazione della storia principale, senza diventare mai prolisso. Tutto è utile alla storia. Notevole la caratterizzazione sia del protagonista che del narratore, singolare la loro amicizia, affascinante la resistenza e la determinazione del protagonista.

 

Un ragazzo sveglio” ci racconta di un ragazzino che va a caccia, a metà degli anni ’70, di criminali nazisti, ne trova uno e ci instaura un rapporto speciale, dapprima riuscendo persino ad assoggettare psicologicamente il vecchio gerarca, ma poi sviluppando in modo coerente eppure sorprendente, questo rapporto in qualcosa che diventa amicizia e collaborazione. Forse parte un po’ lentamente e l’episodio del gatto bruciato nel forno mi è parso un po’ sopra le righe, ma King realizza, nella prima parte, un altro capolavoro psicologico. Nella seconda parte mi pare, invece, che si faccia prendere un po’ la mano con la vicenda dei barboni assassinati. Diciamo che il profilo psicologico di un nazista che dirige un campo di concentramento mi pare diverso da quello di un serial killer di barboni e non credo che l’uno possa diventare l’altro. Se non altro perché il primo si muove in un contesto gerarchico, sociale e di regole che lo supporta e lui rispetta, mentre il secondo si muove in autonomia e contro ogni regola. Se, però, accettiamo questo sviluppo, la storia è certo avvincente e si evolve con originalità, riprendendo più volte slancio anche quando si ha l’impressione che possa essere ormai conclusa.

 

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Stephen King

L’autunno dell’innocenza – Il corpo (stand by me)” ha ispirato il film “Stand by me” che, quando lo vidi molti anni fa da ragazzino, mi impressionò al punto da indurmi a scrivere la prima recensione cinematografica che osassi inviare a un quotidiano (che ovviamente neppure mi rispose). Non ricordo bene che cosa mi colpì, nè che cosa scrissi, ma di certo lo trovai geniale nel suo modo di raffigurare quella fine d’infanzia da cui io stesso mi ero allora allontanato da poco.

Il ritratto di questo gruppetto di ragazzini in viaggio lungo i binari del treno alla ricerca del cadavere di un altro ragazzo morto è un esempio della capacità di penetrazione psicologica di Stephen King, questo autore che ha magistralmente raccontato la schizofrenia della colossale saga della “Torre nera” e che qui, ancora una volta dimostra di essere un fine conoscitore della mente umana e dei suoi meccanismi, soprattutto quelli legati alla paura.

Eppure questo terzo racconto, leggendolo oggi, mi è parso più lento e meno efficace dei due che lo hanno preceduto. Non mi hanno convinto, in particolare, le descrizioni troppo lunghe delle vite familiari dei ragazzini (non credo che nel film fossero così marcate). Nonostante questo, rimane comunque un’opera di gran lunga superiore a tante cose che si leggono in giro e, forse, sì, tutto sommato, si potrebbe dire che è un piccolo capolavoro anche questo, sebbene la qualità del volume vada progressivamente decrescendo dal primo al quarto racconto.

 

“Una storia d’inverno – Il metodo di respirazione” che chiude la raccolta è un racconto che racchiude al suo interno un altro racconto. Nel primo si parla di uno strano club che forse non è un vero club. Nel racconto che contiene si racconta di un medico che segue una donna madre nella sua gravidanza e, infine, nel parto.

Risultati immagini per stephen king stand By me filmSinceramente la parte sul club mi ha persino annoiato, come se King viaggiasse in prima. Appena comincia il racconto della ragazza, ingrana subito la terza, ma comincia a farci una sorta di quadretto di come fosse difficile la vita per le ragazze madri negli anni ’30 del XX secolo e quanto arretrati i metodi medici per la preparazione al parto. Tutto molto interessante, ma poco “kinghiano”. Appena, però, si arriva al parto, King ingrana non la quarta, ma la sesta e ci troviamo davanti a un “seppur breve” momento di grandissima tensione emotiva, che forse ripaga di tutte le altre pagine.

 

Chiudono il volume le riflessioni di King (“Una parola di conclusione”) su come sia difficile pubblicare racconti come questi quattro perché troppo lunghi per un racconto e troppo corti per un romanzo.

Devo dirvelo: da venticinquemila a trentacinquemila parole sono cifre in grado di far rabbrividire fino nelle ossa il più intrepido scrittore di fiction. Non c’è una definizione semplice e concisa di quello che è un romanzo o un racconto… per lo meno non in termini di conteggio di parole, né dovrebbe esserci. Ma quando uno scrittore si avvicina al limite delle ventimila parole, sa di essere sul punto di sconfinare dal paese del racconto, e ugualmente, quando supera il limite delle quarantamila parole, penetra nel paese del romanzo” scrive.

Spiega così come è arrivato a pubblicarli assieme in un unico volume. Personalmente avrei preferito pubblicarli come singoli romanzi brevi, ma lui ha molta più esperienza di me.

In questo finale, King racconta come accadde che fu etichettato (ed accettò la cosa) come autore horror, sebbene il suo editor lo sconsigliasse di seguire quella strada, poco remunerativa (cosa ben smentita dalle notevoli vendite dei suoi libri).

 

King è comunemente noto come “re dell’horror”. Certo lo è ma questo titolo è quanto mai riduttivo per lui. In questi racconti non c’è nulla dell’horror come lo immaginiamo, con fantasmi, vampiri, zombie. C’è semmai, come spesso è in King, l’orrore dell’abiezione della mente umana.

Il direttore del carcere che si rifiuta di verificare l’innocenza del suo prigioniero o il ragazzino che si appassiona delle atrocità dei campi di sterminio e si trasforma in un assassino ci fanno orrore, ma non certo paura. È questo l’horror di cui King è davvero re.

Nella postfazione King stesso scrive:

Così sono stato etichettato e non me ne importa granché… dopotutto, scrivo per rappresentare qualcosa… per lo meno, quasi sempre. Ma è solo di orrore che scrivo? Se avete letto i precedenti racconti, saprete che non è così… eppure in tutte quelle storie sono riscontrabili elementi dell’orrore, non solo in Il metodo di respirazione… quella faccenda delle sanguisughe in Il corpo è piuttosto raccapricciante, come lo è l’immagine onirica in Un ragazzo sveglio. Prima o poi, Dio solo sa perché, sembra che la mia mente si volga sempre in quella direzione.

Insomma, leggete questi piccoli grandi romanzi brevi e capirete che anche qui, in queste piccole cose, più che un Re dell’Horror, King è un Re della Psiche.

LA DIFFICOLTÀ DEI RAPPORTI

La silloge “La grande rivelazione” è l’opera prima di Paolo Orsini, uno dei soci fondatori del GSF – Gruppo Scrittori Fiorentini. Prende il nome da uno dei racconti e si articola in 15 storie, una prefazione di Chiara Myriam Novelli e una postfazione di Mirko Tondi, maestro di scrittura di Paolo Orsini.

Sono storie che parlano del nostro vivere quotidiano, che spesso toccano il tema dei rapporti con l’altro sesso. Spesso si tratta di incontri o amori mancati, come a voler evidenziare una certa difficoltà di rapportarsi tra uomini e donne.

Già nel primo racconto (“La finestra aperta”), per esempio si legge “la sua bellezza era destabilizzante”. A volte il contatto proprio non si realizza, come ne “La buttadentro” o ne “La porta”.

Altre volte i rapporti sono “convergenze divergenti” (termini che sono solito associare alle ucronie, ma che qui non c’entrano per nulla anche se vi si cita uno dei principi cardini del genere “Fu come la teoria del caos, un frusciare d’ali di farfalla che provoca un uragano all’altro capo del mondo”). Altre volte, penso a “Direttissima o panoramica?”, l’incontro si rivela solo un sogno. Altre volte le vite sembrano fluire su binari paralleli (“Il cinghiale”) che non possono incontrarsi.

Quando l’avvicinamento si realizza (“Due ore” o “Il gatto”) è destinato a concludersi con una separazione. Altre volte (“La grande rivelazione”) Orsini ci parla della difficoltà di comunicare i sentimenti.

Si arriva a estendere questa “analisi” dei rapporti interpersonali a quelli interraziali come con il racconto “capodanno persiano”.

Paolo Orsini – marzo 2019

Vi è, talora, persino, un’incapacità dei personaggi di controllare le situazioni (“Sapevano quello chestavano facendo, ma al contempo fingevano di non saperlo”), che possono persino sfuggire di mano come nel racconto finale, dai toni surreali “Epilogoesemplare”.

A volte, la difficoltà di rapportarsi, chiave dell’antologia, ha come controparte degli oggetti come in “Gentile ospite” o “Il gemito dell’orchidea”.

Orsini ci descrive, insomma, la difficoltà di rapportarsi di questo nostro mondo contemporaneo e l’insoddisfazione che ne deriva (“Spesso mi chiedo se sono soddisfatto della mia vita”).

Una chiave umoristica e autoironica è quasi sempre presente a stemperare o caricaturizzare situazioni che possono anche avere una loro drammaticità e che, in ogni caso, sono espressione di un intenso mal di vivere.

EMOZIONI DEL QUOTIDIANO

Difficile dire da quanto tempo conosco, almeno virtualmente Guido De Marchi. Probabilmente dal 2001, quando cominciai a frequentare il Laboratorio di Scrittura di Liberodiscrivere, che poco dopo si trasformò in casa editrice e pubblicò, tra i suoi primi 5 libri, il mio “Il Colombo divergente”.

Sicuramente sul sito di Liberodiscrivere molte volte ho incrociato e letto qualcosa di Guido De Marchi. Forse intorno al 2002-2003 cominciai a proporre ai membri del sito alcuni giochini letterari, del tipo “ora scriviamo tutti un racconto intitolato…”, oppure scriviamo un haiku, o scriviamo un’ucronia. Da quest’ultima idea nacque l’antologia “Ucronie per il terzo millennio”. Tra i titoli da me proposti c’era senz’altro “Sexy doll”. Un altro titolo su cui ricordo che in molti si cimentarono era “Gente di montagna”. In questo caso non sono sicuro di averlo proposto proprio io, ma vi partecipai.

Perché vi racconto tutto questo? Perché ho appena finito di leggere l’antologia “Piccole storie metropolitane”, scritto e autopubblicato da Guido De Marchi, e ho avuto la sorpresa e il piacere di scoprirvi, tra vari altri, due racconti intitolati proprio così e che sono pressoché certo furono scritti in quell’occasione.

Piccole storie metropolitane” di racconti ne contiene numerosi, tutti accomunati dalla voglia di descrivere personaggi e luoghi quotidiani, di tutti i giorni, ma carichi di una loro poesia. De Marchi del resto, oltre che narratore è poeta e pittore. Ricordo di aver letto di lui “Haiku per un mese” (con una mia introduzione), la silloge poetica “L’ombra del verso”, scritta assieme a Francesco Brunetti, e i versi “Non voglio essere poeta”.

Piccole storie metropolitane” è quasi poesia in prosa. De Marchi dice “tutto ciò non evoca la città, ma la vita che in questo luogo si agita”: vale per la copertina di cui parla ma anche per tutta la raccolta, in cui “ogni storia è una memoria che riporta in vita un evento”, ogni racconto ci regala la “consapevolezza della nostra fragilità” e le “emozioni del quotidiano”.

De Marchi, nato a Genova nel 1940, di vita ne ha attraversata non poca, con sguardo attento e sensibile e di storie ne ha tante da raccontare, tanti amici da ricordare, veri o immaginari poco importa.

E così tra scorci cittadini di un tempo che fu, con “le vecchie lampade, col loro cappello smaltato (scuro sopra e bianco sotto) che creavano coni di luce

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Guido De Marchi

che piovevano sulla gente come quelle del palcoscenico”, con le antiche farmacie, con le osterie (poi soppiantate da bar e pub), scopriamo personaggi come il misantropo filantropo Lino, il piccolo Tino maestro delle cose della natura, Giovanni, maestro di fotografia, il fattorino Aldo che scopre la fine della solitaria signorina Clara, il fratellastro ritrovato, l’emigrato Marco, il solitario Mario che si spegne senza nessuno, l’amico aggregante Mattia, il determinato Luigi, i bambini che osservano le stelle, Antonio che vive libero dai telefoni, i piccoli contrabbandieri, l’amore di Franco e Gina, il tradimento virtuale con la bambola gonfiabile, l’amore quasi impossibile. Entriamo poi nelle case e scopriamo i segreti di un cassetto a lungo chiuso, il sogno di una libreria, il giardino in una bottiglia.

Questo è il mondo di Guido De Marchi, queste sono le sue “Piccole storie metropolitane”.

WP_20190319_16_56_33_Selfie.jpg

LA NOSTRA GENTE

Risultati immagini per c'è gente che MiliottiHo incontrato Anna Genni Miliotti in occasione di alcuni eventi organizzati da Porto Seguro Editore, tra cui la fiera letteraria Firenze Libro Aperto. Questo editore, tra le altre cose, ha pubblicato i primi due volumi della mia saga “Via da Sparta”, la mia biografia “Il sognatore divergente”, scritta da Massimo Acciai Baggiani, e il libro di memorie familiari “C’è gente che” di Anna Genni Miliotti. Ne avevo avuto notizia anche tramite un amico che è cugino dell’autrice e che in una pagina del volume è menzionato, anche se senza cognome.

Leggere storie familiari ingenera in me sempre dei sensi di colpa. Essendo uno che scrive (non oso usare il termine scrittore – come dice l’autore mio amico Sergio Calamandrei, noi, al più, siamo “scriventi”) e avendo una lunga e complessa storia familiare alle spalle (o forse “sulle” spalle, dato che è quanto mai “impegnativa”), in questi casi penso a tutto quello che potrei (e forse dovrei) scrivere.

Nel mio caso avrei materiale per descrivere più di 1200 anni di Storia e il mio grande dubbio è come metterlo in forma originale e gradevole per il lettore. Da dove partire poi?

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Anna Genni Miliotti

Come risolve il problema Anna Miliotti? Direi che si limita alle ultime generazioni, alle persone che ha conosciuto direttamente e soprattutto non segue un ordine strettamente cronologico ma ritrae ora un personaggio, ora un altro. Ne risulta una scrittura semplice e immediata, in cui la buona conoscenza dei fatti e delle persone descritte rende particolarmente vivace e “vicini” i personaggi.

Non manca di dare alcune connotazioni d’ambiente, come quando parla delle “incomprensioni” campanilistiche tra fiorentini e pratesi, della difficoltà di definirsi per chi ha origini “miste” (ma pur sempre toscane, che dovrei dir io che ho sangue che affluisce da tutta Europa), dell’industria tessile pratese, dei rapporti tra pratesi e cinesi, dei nostri anni, dei nostri usi e costumi.

La sensazione, fin dalle prime pagine, è di un mondo a me sì vicino, dato che vivo ormai da anni a Firenze, ma “raggiunto” da strade ben diverse. E questo fa aumentare i miei sensi di colpa di cui all’inizio, dicendomi che anche la mia storia familiare meriterebbe di esser raccontata, perché ogni storia è diversa dalle altre e, come questa narrata dalla Miliotti, può stupire e incuriosire il lettore, proprio per questo misto di aspetti in cui ci riconosciamo con altri che ci sono del tutto alieni. Una ricetta agro-dolce, ma di sicuro effetto.

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Prato

Eppure io non oserei parlare di “gente che” mi è così vicina. Anna Genni Miliotti ha il coraggio di farlo e di renderci un quadro, proprio per questo emotivamente vivo e sentito.

Proprio mentre finivo di leggere le sue pagine, mi sono trovato a rovistare tra documenti e foto di un secolo fa. Queste e il suo libro, mi hanno messo voglia di scrivere, magari partendo proprio da lì, da quegli anni ‘20 di un altro secolo e di un altro millennio.

Gli anni di cui parla la Miliotti sono, invece, quelli della seconda metà del XX secolo e di questo primo ventennio. A vederla l’avevo giudicata più giovane, mia coetanea, ma leggo che nel 1969, quando io facevo ancora l’asilo, frequentava l’università. Anche questi pochi anni contribuiscono a mutare il punto di vista su un’epoca che entrambi stiamo attraversando.

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