Ci sono libri con cui non riesco a entrare in sintonia. Uno di questi è “Pensa a Fleba” di Ian M. Banks (Dunfermline, 16 febbraio 1954 – Kirkcaldy, 9 giugno 2013). Amo la fantascienza e la considero un genere sottovalutato, ma non amo la space opera, che credo offra un’immagine del genere di cui è parte che molto contribuisce ad allontanare lettori “comuni” dalla Sci-fi. “Pensa a Fleba” ha molti elementi della space opera: grandi e piccole astronavi che si scontrano nello spazio, muovendosi tra miriadi di mondi abitati da alieni, in continue battaglie e lotte, qui minuziosamente descritte.
Apprezzo molto i creatori di mondi e, a onore di Ian M. Banks, va detto che la sua invenzione di questa civiltà interstellare detta Cultura si può far rientrare tra i grandi universi immaginari per la ricchezza di particolari con cui è descritta.
Eppure, mi sono annoiato molto a leggere questo libro, sperando sempre che prima o poi riuscisse a coinvolgermi. Di pagine ne ha davvero tante (583), ma mentre il suo seguito “L’impero di Azad” (che ho già letto) dopo un inizio assai faticoso, mi aveva conquistato, questa volta non c’è stato verso di farmelo piacere.
Troppo minuziose (e lente) mi sono parse le descrizioni di lotte e battaglie. Troppo pedanti le parti saggistiche in cui si spiega la Cultura.
Ecco uno dei migliori brani in cui viene descritta:
“E noi? Nulla più di un altro rutto nelle tenebre. Suono, ma non parole. Rumore senza significato.
Noi non siamo niente per loro. Soltanto virulenze biologiche, e del tipo più aggressivo. La Cultura deve sembrare agli idirani il più brulicante amalgama di tutto ciò che trovano ripugnante.
Noi siamo una razza di mostriciattoli, e il nostro passato è una storia di intrighi, di tranelli oscuri, di ambizioni esplose per creare imperi fatti di crudeltà, e di guerre inutili quanto sanguinose. I nostri antenati erano i reietti della galassia, in continua lotta per crescere ed espandersi e uccidere, e le loro effimere società nascevano solo per crollare, putrefarsi e risorgere dal marciume, senza speranza… doveva esserci qualcosa di sbagliato in noi; non abbiamo mai voluto nulla di stabile, preferendo la frenesia e l’insoddisfazione nevrotica, e mettendo sempre il nostro bene davanti a quello di chiunque altro. Siamo così patetici, deboli cose di carne dalla vita corta, agitati e confusi. E stupidi, proprio stupidi, agli occhi di un idirano.
Ripugnanza fisica, dunque, ma con qualcosa di peggio in più. Noi alteriamo noi stessi, mettiamo le mani nei codici genetici stabiliti dalla Vita, pronunciamo il nostro Verbo, esigiamo che Dio sia fatto a nostra immagine e somiglianza, e vogliamo tenere fra le nostre dita la bacchetta magica. Interferiamo con la nostra eredità genetica, e interferiamo nello sviluppo delle altre razze (ah, qui condividiamo un interesse!)… e peggio ancora, costruiamo l’anatema ultimo e ci gettiamo nelle sue braccia: le Menti, le macchine senzienti. Dissacriamo così la stessa immagine della vita e creiamo la sua antitesi, l’idolo vivente.
No, non sorprende che ci disprezzino, dai poveri malati mutanti che siamo, egoisti e osceni, servi e adoratori delle macchine. Neanche sicuri della nostra identità: chi o cosa è la Cultura? Dove comincia e dove finisce, esattamente? Cosa cerca, dove va? Gli idirani sanno con certezza chi vogliono essere: una razza pura e incontaminata, o niente. E noi? Il Contatto è il Contatto, il nucleo, ma al di là di questo? Le varietà genetiche imperano, e malgrado l’idea sia una non tutti possono accoppiarsi con chiunque altro. Le Menti? Non hanno uno standard comportamentale, sono individualiste e imprevedibili, anch’esse indipendenti. Nessuno è veramente legato a un posto, troppi si proclamano del tutto liberi dagli altri. Non ci sono mai stati confini e patria per la Cultura, ma soltanto provvisorie zone di contatto, parti in movimento, contorni evanescenti. Dunque, chi siamo noi?”
Ecco, invece, un esempio di scontro, preso a caso tra i vari presenti:
“Xoxarle restò immobile come morto per otto, forse dieci secondi.
Poi fu come se un’enorme molla d’acciaio lo avesse fatto balzare via dal muro. Fece due passi avanti e uno di lato, e con un braccio proteso in avanti colpì Horza al petto scaraventandolo con violenza addosso a Yalson. Subito dopo, malgrado le gambe parzialmente legate, tolse di mezzo Aviger con uno spintone che lo fece rotolare fino alla parete opposta, sferrò a Unaha-Closp un manrovescio da cui il robot fu fatto roteare nell’aria, e corse verso Wubslin.
Xoxarle saltò i sacchi con un tuffo in avanti sollevando una mano chiusa a pugno, e prima che l’ingegnere potesse reagire la abbassò con tutta la sua forza sul sensore di massa, fracassandolo d’un colpo. L’altra sua mano saettò in direzione del fucile a raggi, mentre Wubslin si scostava d’istinto rotolando contro le gambe di Balveda.
Le dita di Xoxarle si chiusero sull’arma come le ganasce di una trappola a scatto sulla zampa di un animale. Roteò su se stesso, stritolando sotto la schiena ciò che restava dell’apparecchiatura, e la canna del lanciaraggi si girò verso il punto dove Horza e Yalson stavano ancora cercando di ritrovare l’equilibrio. Aviger gemeva, disteso al suolo; Unaha-Closp compì una curva a U e accelerò nell’aria in direzione di Xoxarle, che appena fu immobile alzò l’arma mirando al petto di Horza.
Il corpo cilindrico di Unaha-Closp colpì la mandibola dell’idirano come un proiettile lanciato da una catapulta, schiacciandogli il mento contro il petto e sollevandolo di peso dai rottami del sensore di massa. Xoxarle volò all’indietro per un paio di metri, impattò nella parete di roccia con un tonfo sordo e si afflosciò privo di sensi a pochi passi da Wubslin.
Horza s’immobilizzò a metà del balzo con cui stava cercando di evitare il raggio. Yalson puntò il fucile, col dito irrigidito sul grilletto, e se non sparò fu soltanto perché Wubslin si alzò in piedi proprio sulla sua linea di tiro. Balveda era indietreggiata di corsa, e adesso, con una mano sulla bocca, fissava il robot che s’era fermato pochi palmi al di sopra della testa di Xoxarle. Aviger si sfregò la nuca mugolando di dolore e gettò alla parete uno sguardo risentito.”
Non so se siete riusciti a leggere tutto. Ed è solo un estratto della scena. Una descrizione così dettagliata è certo molto utile per lo sceneggiatore di un film, ma per un lettore? La mia tentazione è di arrivare alla fine il più in fretta possibile.
Il titolo deriva dalla citazione iniziale “Gentile o ebreo, tu, che impugnando il timone volgi il guardo al vento, Considera Phlebas, che un tempo era alto e forte come te.” di T.S. Eliot (La terra desolata, IV).
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