“I dolori del giovane Werther” (1774) di Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 – Weimar, 22 marzo 1832), una delle più celebri storie d’amore non corrisposto, ha visto nel corso dei decenni (ormai secoli) accrescersi un gran mucchio di critica letteraria, dunque questa mia lettura è in tal senso certo inutile e nulla di nuovo penso potrà aggiungere. Come di consueto, però, vorrei riportare qui alcune note di lettura. Innanzitutto, il notevole contenuto autobiografico che mi pare trasparirvi, tanto forte mi pare l’immedesimazione dell’autore con il proprio personaggio. Soprattutto nella prima parte. La sensazione che ho avuto è stata quasi quella di leggere un romanzo di genere fantastico (ucronia o fantascienza, fate voi) nel senso che partendo da un assunto reale, si sviluppa poi per vie del tutto immaginarie. L’assunto qui mi pare sia la vita dello stesso Goethe.
Come nelle più grandi opere che trattano dell’amore (ripensavo leggendo allo “Amleto” di Shakespeare), questo assume tutta la sua tragicità quando è messo a confronto con la morte. Qui, anzi, amore e morte paiono quanto mai correlati. L’amore è rivelato grazie alla morte.
La morte, poi, appare quasi un rito, per la meticolosità quasi burocratica con cui è preparata.
Un’affermazione che merita una riflessione è la seguente:
“L’arte è come l’amore: un giovane innamorato si dedica interamente a una ragazza, passa tutte le ore della giornata con lei, a lei dedica ogni sua energia e i suoi averi, per dimostrarle che le appartiene completamente. A un certo punto si intromette un filisteo, un uomo che riveste una carica importante, e gli dice: «Mio caro signore, amare è umano, ma lei deve amare virilmente! Distribuisca le sue ore, ne dedichi alcune al lavoro e altre libere alla sua ragazza! Faccia un calcolo di ciò che possiede, provveda prima ai suoi bisogni; non le proibisco di farle qualche dono col rimanente, ma non tanto spesso; a esempio per il suo onomastico e compleanno ecc.». Se il giovane segue questo consiglio diverrà certamente un uomo utile e consiglierei a un qualsiasi principe di dargli un impiego; ma per il suo amore è finita e, se è artista, anche per la sua arte.”
Non sempre gli scrittori pensano quello che scrivono nei romanzi. Nulla di più sbagliato sarebbe credere che quanto afferma un
personaggio sia un’affermazione dell’autore. Il periodo che ho qui riportato, però, mi ha un po’ irritato per la sua assoluta falsità. “Per il suo amore è finita e, se è artista, anche per la sua arte”? Che assurdità! Come se l’arte e l’amore non possano convivere con una vita ordinata e sana. Al contrario. È solo grazie a essa che il vero artista può creare con serenità e libertà e che l’amore si fortifica ed evolve. Certo, se, invece, come in questo romanzo si viaggia verso un epilogo tragico, o addirittura verso il suicidio, il ragionamento funziona. Conclusione? Goethe, già con questa frase stava preparando il suo personaggio alla propria tragica morte. Suggerimento per gli autori: a volte occorre affermare assurdità se queste aiutano a entrare nella mentalità folle, malata o deviata del proprio personaggio. Può non essere facile e il lettore potrebbe fraintendere il pensiero e l’intenzione di chi scrive. Ma non dimentichiamo che questa è un’opera epistolare, dunque la voce narrante non può che essere terza rispetto al pensiero di Goethe.
Importante nel romanzo è anche il tema della pazzia e, in particolare, della pazzia d’amore. Ricercando il termine “pazzo” nel volume, vedo che compare innumerevoli volte.
Una frase che rende l’idea del conetto penso possa essere questa:
“Guai a colui che assistendo a simile tragedia può dire: “Che pazza! Se avesse aspettato, se avesse lasciato trascorrere il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualcuno sarebbe giunto per consolarla!”. È proprio la stessa cosa che dire: “Che pazzo, è morto di febbre! Se avesse pazientato finché le forze gli fossero tornate, la linfa vitale risanata, il tumulto del suo sangue calmato, oggi sarebbe ancora in vita, e tutto sarebbe andato per il meglio!”.
Lettura tratta dal volume “I magnifici sette capolavori della letteratura tedesca” (E-Newton Classici – I Mammut).