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LA RIVOLUZIONE SOVIETICA DEI ROBOT

Come non leggere “RUR Rossum’s Universal Robots”, il testo teatrale ceco di Karel Capek (Malé Svatoňovice, 9 gennaio 1890 – Praga, 26 dicembre 1938) che, nel 1920, introduce il termine “robot”, si pone come una delle prime opere di fantascienza e come riferimento per un’ampissima letteratura successiva?

Questo caposaldo della letteratura europea risente del clima politico a ridosso della rivoluzione russa. I robot immaginati sono forse più vicini al mostro di Frankestein ideato da Mary Shelley che alle macchine antropomorfe di Isaac Asimov, poiché sono esseri organici, in tutto simili a noi (e identici tra loro sebbene alcuni di aspetto maschile e altri femminile). Oggi li diremmo piuttosto androidi, ma il termine robot (“lavoratore” in ceco) nasce proprio da qui.

Dapprima si vede in queste creature il modo per affrancare l’umanità dal lavoro. Giustamente i personaggi immaginano che con lo sviluppo di tali automi ogni cosa costerà meno e non sarà più necessario lavorare. Purtroppo, il mondo moderno non sembra voler seguire questa semplice logica e ad avvantaggiarsi dell’automazione non sono le masse ma solo pochi.

Il dramma teatrale assume presto toni di distopia in quanto i robot, cui uno dei personaggi dona la capacità di provare emozioni, si ribellano all’uomo (ormai divenuto sterile e demotivato), che considerano una creatura inferiore, sterminandolo. Rimasti soli i robot, però, non conoscendo la “formula” per creare altri come loro e non potendo riprodursi sessualmente scoprono di essere anch’essi destinati all’estinzione. La “natura” si mostra però forte e tra due di loro scoccherà la scintilla dell’amore e, pare, la possibilità di procreare, dando così vita a una nuova umanità di “lavoratori artificiali” ma liberi.

Da notare che quando i robot danno vita a una loro “rivoluzione dei lavoratori” gli umani pensano che l’essere loro tutti uguali li rende più forti e che quindi dovrebbero da quel momento in poi creare “robot nazionali” e non più “universali”, ognuno con diversi colori della pelle, lingue, nazionalità, costruiti per odiarsi tra loro, in modo da non insidiare l’umanità. Ma non ci sarà il tempo per mettere in atto un simile piano.

Siamo insomma più dalle parti delle prime distopie che non della fantascienza classica di venti o

Karel Capek (Malé Svatoňovice, 9 gennaio 1890 – Praga, 26 dicembre 1938)

trent’anni dopo.

Viene da pensare soprattutto alla rivoluzione socialista de “Il tallone di ferro” (1908) di London o alla critica del conformismo sovietico di “Noi” (1921) di Zamjatin.

L’idea di un’umanità sterile la ritroveremo, invece, in tempi più recenti in “Gli eredi della Terra” (1976) di Kate Wilhelm.

Inutile e complesso, invece, elencare le innumerevoli opere in cui ritroviamo esseri robotici.

LA PORTA SU UN VECCHIO FUTURO

La porta sull'estateLa porta sull’estate” (1956) dello scrittore statunitense Robert Anson Heinlein mi pare un tipico esempio dell’ottimismo tecnologico e sociale dell’America degli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, che caratterizza, per esempio anche la produzione di Isaac Asimov.

La fantascienza di quegli anni, spesso si è rivelata assai utopistica, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico. Peccato che le previsioni di allora siano state raramente azzeccate. Si ragionava soprattutto di viaggi spaziali e di colonizzazione dello spazio e ora, alle soglie del secondo decennio del XXI secolo non siamo andati molto oltre una bandierina sulla Luna. Un altro tema erano i viaggi nel tempo, anche se qui vi era assai meno fiducia di poterli realizzare. Altra cosa era per la crioconservazione delle persone, in cui vari autori parevano credere, anche questa ben lontana da realizzarsi.

Heinlein, autore classico della fantascienza, immagina una storia avveniristica ambientata in due epoche future, per noi ormai relegate nel ricordo.

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Robert A. Heinlein (Butler, 7 luglio 1907 – Carmel-by-the-Sea, 8 maggio 1988)

Immagina un ingegnere che nei primi anni ’70 lavora alla produzione di robot (anche qui nella realtà quanto siamo lontani dall’immaginario di Heinlein o Asimov!) e che viene sottoposto a crioconservazione, risvegliandosi nel 2000, dove scopre un mondo in cui i robot da lui creati sono assai diffusi, ma lui è stato ingannato dal suo migliore amico e dalla fidanzata e non ci ha guadagnato nulla.

Scopre allora che i viaggi nel tempo sono possibili e ritorna negli anni ’70 a sistemare le cose.

Il titolo fa riferimento al suo gatto, che d’inverno, prova tutte le porte di casa alla ricerca di una che si apra sull’estate, così come il protagonista cerca un miglior presente.

Se il mondo descritto per certi aspetti dovrebbe sembrare più moderno, con questi “robottoni” ingombranti, meccanici e pieni di tubi strani, ha più che altro un aspetto vintage e l’idea del singolo uomo che realizza macchine incredibili e cambia il mondo è utopistico ai limiti dell’ingenuità, salvo forse per dei “sognatori americani”. La storia è comunque ben  costruita, gradevole e si legge come una cara vecchia cosa.

Se volete leggere qualcosa di Heinlein più moderno e attuale, non perdetevi l’importante “Universo”, tra l’altro scritto persino anni prima, nel 1941, che ha ancora oggi molto da dirci.

 

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LA BUONA VECCHIA FANTASCIENZA FATTA DAI FISICI

Incontro con RamaAnche se oggi si pone altri obiettivi, credo non sia troppo sbagliato dire che la fantascienza nasca come un modo per fare riflessioni sulle possibilità della scienza, soprattutto fisica e chimica, poi estesa ad altre discipline come la biologia.

Alcuni autori importanti erano, in effetti, scienziati prestati alla letteratura. Ora, forse, questa connotazione si è un po’ persa.

Incontro con Rama”, sebbene sia del 1972 e non degli anni gloriosi tra il 1940 e la fine degli anni sessanta, mi pare rientrare a pieno nella hard SF.

Il buon Arthur C. Clarke (Minehead, 16 dicembre 1917 – Colombo, 19 marzo 2008), quello di “2001 Odissea nello spazio”, era, infatti, laureato in fisica e matematica e in questo romanzo fa buono sfoggio delle proprie competenze, nel descrivere la comparsa, nel 2130, di un oggetto dapprima confuso con un asteroide e che poi si rivela essere una grande astronave aliena. Sembra morta, ma rivela grandi soprese al suo interno.

Il romanzo tocca due temi SF fondamentali, i viaggi interstellari e i contatti con gli alieni e lo fa in modo piuttosto originale per quegli anni.

Suggestiva è l’ipotesi avanzata durante l’esplorazione che Rama sia una sorta di arca destinata ad accogliere e trasportare su altri mondi degli esseri umani. Peccato si riveli poi errata.

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Arthur C. Clarke

Clarke si preoccupa anche di accennare a una descrizione di questo nostro futuro, soprattutto dal punto di vista politico-organizzativo, immaginando una Terra unificata sotto un solo governo e vari pianeti e satelliti del sistema solare popolati e trasformati in stati autonomi, sebbene uniti da una sorta di ONU interplanetaria.

Prevale il tipico ottimismo della fantascienza di quegli anni sia verso gli sviluppi tecnologici legati all’esplorazione spaziale, sia per quanto riguarda quelli politici.

La lettura è ancora oggi avvincente, scorrevole e plausibile.

Insomma, un bell’esempio della cara vecchia fantascienza di un tempo.

Il romanzo ha ben tre sequel, sebbene il finale del volume sembri conclusivo.

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UN FANTASY SABBIOSO TRAVESTITO DA FANTASCIENZA

Dune. Il ciclo di Dune. Vol. 1 - Frank Herbert - copertinaQuando lessi per la prima volta Dune (1965) di Frank Herbert da ragazzo, non mi piacque e non mi piacque neppure il film. Trattandosi di un romanzo (e di una saga) importante per la fantascienza, ho ritenuto di provare a rileggerlo ora, da adulto, per capire se riuscivo ad apprezzarlo maggiormente.

Sebbene sia un’opera che avrebbe le caratteristiche per piacermi, dato che inventa e descrive un intero mondo immaginario, attività che considero la più “meritoria” da parte di un autore, anche questa volta mi è parso troppo lungo e nel complesso noioso. Certo è pregevole l’invenzione di un mondo sabbioso, con poca acqua, con un’economia incentrata sulla spezia, con i grossi vermi delle sabbie. Sembra quasi una situazione migliorata rispetto a quella che troveranno gli astronauti su Marte. Meritevole anche la costruzione della religione e della cultura.

Essenzialmente, però, mi è parso un fantasy mascherato da fantascienza, con tutti questi nobili e le loro schiere che si fronteggiano. Non apprezzo, in particolare, che si immagini un mondo così diverso dal nostro e poi si incontrino, duchi, conti e re e che alcuni personaggi abbiamo persino nomi banali e comuni come Paul e Jessica. Ma questi sono solo peccati veniali. Ci sono fantasy che sono così e sono tutt’altro che noiosi.

Diciamo che, nonostante varie avventure, accade piuttosto poco in rapporto al numero di pagi

Frank Herbert

ne, e che non sono riuscito a entrare in empatia con i personaggi, troppo numerosi, di scarso spessore e poco caratterizzati. Tutto sommato ho apprezzato di più le appendici in cui si descrivono la religione o l’ambiente, che non la storia, la cui trama, pur articolata non mi è parsa sufficientemente spessa da sostenere una simile mole di pagine e parole. Non credo proprio che leggerò i volumi successivi, che sono, per la cronaca:

 

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Dune, il film

FANTASCIENZA PER FISICI

Stella doppia 61 CygniSe cominci a leggere un romanzo che si chiama “Stella Doppia 61 Cygni”, può venirti il sospetto di essere davanti a vera fantascienza, di quella di vecchio stile, fatta da scienziati prestati alla letteratura. Se poi scopri che il titolo originale era “Mission of Gravity” non dovresti poi stupirti troppo di trovarvi all’interno non poche considerazioni che sembrano fatte apposta per il diletto di qualche fisico. L’autore statunitense Hal Clement (pseudonimo di Harry Clement Stubbs -Somerville, 30 maggio 1922 – Milton, 29 ottobre 2003 ), vanta, in effetti sia un bachelor in astronomia preso ad Harvard, sia studi in chimica.

Il romanzo poi è degli anni d’oro della fantascienza, pubblicato a puntate nel 1953 e in volume nel 1958.

Copio per comodità da wikipedia la descrizione, che mi pare corretta, del pianeta su cui è ambientata la storia: “Mesklin è un gigante gassoso in orbita attorno a 61 Cygni A. Ruota su sé stesso in 2 ore ed 8 minuti ed ha assunto la forma di un ellissoide molto schiacciato, «da far vergogna a Saturno». Gli elevati valori della velocità di rotazione e dello schiacciamento determinano marcate variazioni dell’accelerazione di gravità tra i poli e l’equatore. Nel romanzo Clement ipotizza che si registrino 3 g all’equatore e circa 700 g ai poli.”.

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Hal Clement

Dunque, le anomale caratteristiche del pianeta sono al centro della storia inventata da Clement, che immagina una spedizione umana sul pianeta, coadiuvata da una razza indigena del luogo, delle creature intelligenti simili a millepiedi, lunghe mezzo metro, che strisciano per resistere alle altissime gravità e non concepiscono la possibilità di volare. Sono esseri che respirano una miscela di idrogeno e metano e con una biologia del tutto diversa dalla nostra. Il pianeta, oltre ad avere le singolarissime differenze gravitazionali, ha anche elevate escursione termiche. Insomma, un ambiente davvero poco adatto all’uomo. Per fortuna gli indigeni si prestano ad aiutare la spedizione terrestre nel recuperare delle apparecchiature scientifiche abbandonate su un razzo, difficile da raggiungere e sono loro i veri protagonisti della storia, vera peculiarità di questo romanzo. Per certi aspetti ragionano forse in modo un po’ troppo umano, pur con le loro fobie dell’altezza, ma va reso onore a Clement per aver creato un mondo molto originale e delle creature  quanto meno per nulla antropomorfe, lontane anni luce dagli alieni stereotipati di Star Trek. Nell’insieme, comunque, un romanzo gradevole anche per chi non sia appassionato di fisica, astronomia o chimica, anche se costoro vi troveranno di sicuro un maggior godimento. Penso comunque che Clement con questo romanzo si sia guadagnato il titolo di “Creatore di Mondi”, che gli conferisco personalmente, categoria, per me tra le più pregiate di autori.

Nel 1970 Clement ne ha scritto un seguito (“Luce di stelle”) e nel 1973 ha realizzato un racconto collegato.

 

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VIAGGIO AL CENTRO DI UN’ANTARTIDE ALIENA

Immagine trovata per le montagne della folliaSono arrivato alla mia quarta lettura di Howard Phillips Lovecraft (Providence, 20 agosto 1890 – Providence, 15 marzo 1937) e, forse, alla migliore “Le montagne della follia” (1931), sebbene non possa certo definirsi un romanzo moderno, al punto che mi ha fatto molto pensare a Jules Verne (Nantes, 8 febbraio 1828 – Amiens, 24 marzo 1905) e questo viaggio attraverso l’antartide, spingendosi nelle profondità del ghiaccio e della terra, mi ha subito richiamato alla mente il suo “Viaggio al centro della terra” (1864). Come nella pre-ucronia verniana incontriamo nelle più profonde viscere della Terra esseri preistorici sopravvissuti allo scorrere del tempo, così, infatti, ne “Le montagne della FolliaLovecraft ci fa scoprire sotto i ghiacci dell’antartide, i resti di una civiltà antecedente addirittura alla nascita della vita sul nostro pianeta. Non solo i resti, a dir il vero, sono sopravvissuti al passaggio di milioni di anni!

Lo stile di Lovecraft qui è quanto mai ottocentesco, scritto in forma di diario, con il protagonista che si rivolge direttamente al lettore. Non si può non notare poi una sovrabbondanza di aggettivi e frasi volti a creare nel lettore aspettativa e meraviglia e un girare attorno alle cose sorprendenti a lungo annunciate prima di mostrarle.

Abbondano, insomma, frasi come:

Ci parlò dell’ineffabile grandiosità della scena e delle straordinarie sensazioni”.

Le sensazioni che Pabodie e io provammo all’arrivo di questi rapporti sono indescrivibili”.

“Il sistema nervoso era così complesso e sofisticato da lasciare sbalordito Lake”.

“Molti ci giudicheranno pazzi”.

“Lo shock provocato dalla visione”.

E aggettivi o avverbi quali “incommensurabile”, “sorprendentemente”, “sconcertanti”, “strane”, “mostruosa”, “incredibile”, “inumana”.

Non sempre, purtroppo, a tale preparazione, segue l’evento grandioso che uno potrebbe aspettarsi. L’uso di tali espressioni, del resto valse a Lovecraft le sue prime stroncature (ogni scuola di scrittura, oggi, insegna a non abusare di aggettivi e, soprattutto, avverbi). Eppure ora possiamo leggere in queste esagerazioni lovecrtaftiane proprio l’impronta del suo stile immaginifico.

La descrizione del loro viaggio attraverso la perduta città degli Antichi conserva il gusto ottocentesco dell’esplorazione scientifica che tanto bene si può vedere in Jules Verne. Dall’analisi dei reperti antichi e dei corpi riescono (e questa è la cosa davvero sorprendente) a ricostruire in breve con grande precisione la storia di milioni di anni di questa razza per due terzi animali e per un terzo vegetale che, giunta sulla Terra da mondi alieni vi portò per la prima volta la vita, creandola per i propri fini, che sulla Terra combatté contro altre creature aliene e che, infine, decadde fino a ritirarsi nel solo antartide, dove fu sopraffatta da degli esseri mostruosi da loro stessi creati, gli shoggoth.

Quel poco che ho letto sinora di Lovecraft, mi pare confermare la rilevanza del tema di creature intelligenti vissute prima dell’uomo.

Ne “La casa stregata” gli esseri primordiali che popolarono un tempo la Terra sono detti Vecchi, qui sono chiamati Antichi. Non sono le stesse creature, ma sono comunque esseri alieni, diversi dall’umanità. Anche ne “L’ombra venuta del tempoLovecraft immagina esseri arcaici e arcani vissuti prima di tutti i tempi, solo che in questo romanzo hanno la capacità di reincarnarsi in altri corpi e di attraversare a piacere il tempo, per cui alcuni di loro assumono sembianze umane.

Ne “Le montagne della follia” compare il celeberrimo pseudobiblion “Necronomicon”, un antico testo immaginario che parlerebbe di creature primordiali che avrebbero abitato la Terra prima dell’uomo, opera più volte citata da H.P. Lovecraft e che già avevo incontrato leggendo la raccolta di racconti “Il guardiano dei sogni”, ma che qui trova una centralità assai maggiore e, i protagonisti, con la loro esplorazione, ne convalidano la fondatezza.

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Howard Phillips Lovecraft

La presenza del Necronomicon e degli Antichi fa collocare il romanzo all’interno del Ciclo di Cthulhu, nome citato anche in queste pagine. Necronomicon e Antichi appaiono anche nelle Storie Oniriche, ma la chiave fantascientifica meglio identifica il Ciclo di Cthulhu rispetto a queste altre più “weird fiction” (come Lovecraft definiva la propria opera).

Grandioso e geniale è comunque il mondo creato, con esseri così diversi da noi, e con questo romanzo Lovecraft si pone di certo ai primissimi tra i grandi “creatori di universi” e di sicuro un precursore di tutti costoro.

Se le mie precedenti letture mi avevano fatto dubitare sulla collocabilità di Lovecraft nel filone della fantascienza, quest’opera dimostra invece che, pur con un gusto dell’horror e del magico suoi propri, Lovecraft può ben porsi accanto, per esempio, a Jules Verne e Herbert George Wells (Bromley, 21 settembre 1866 – Londra, 13 agosto 1946) e Mary Shelley (Londra, 30 agosto 1797 – Londra, 1º febbraio 1851) come uno dei fondatori di questo genere, oltre, che ovviamente, come uno degli autori più interessanti del XX secolo.

Se numerosi sono i suoi racconti i principali romanzi sono:

Il primo e il più lungo dei racconti de “Il guardiano dei sogni” si chiama “Alla ricerca dello sconosciuto Kadath” e credo sia il primo di questo elenco con diverso titolo. Penso che proverò a leggerne presto qualcun altro.

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È SOLO GRAZIE A ROMANZI COME QUESTO CHE LA TERRA ESISTE ANCORA!

Livello 7” di Mordecai Roshwald è un romanzo che ci introduce subito a un’atmosfera claustrofobica, in questo Livello 7, sotterraneo e isolato dal Risultati immagini per Mordecai Roshwaldmondo, in cui dei militari vivono e dovranno a continuare a vivere per il resto delle loro esistenze per scongiurare, scatenare o gestire una possibile guerra nucleare. Sono persone senza dei nomi e, anche tra loro, si chiamano usando dei codici. Combattono contro un Nemico non definito altrimenti e dunque combattono una guerra tra un generico Noi e un generico Nemico. Tutto è asettico e impersonale. Quando si ha in mano le sorti dell’umanità, non si può badare alle singole persone, contano solo i numeri.

Ricevono ordini categorici da una voce dietro un vetro oscurato (e penso a “Maze Runner”). Hanno dodici bottoni da premere per scatenare vari livelli di guerra atomica (e penso al bunker di “Lost”). Vivono nella sicurezza di questo bunker dal quale possono attaccare ma non essere attaccati, dal quale possono distruggere l’intero pianeta ma non essere uccisi loro stessi. In un certo senso sono dei militari particolarmente fortunati, se vivere imprigionati in un buco può dirsi una fortuna, rispetto a morire al sole.

Roshwald in 2012

Mordecai Marceli Roshwald (May 26, 1921 – March 19, 2015) was an American academic and writer. Born in Drohobycz, Ukraine to Jewish parents, Roshwald later emigrated to Israel.[2] His most famous work is Level 7 (1959), a post-apocalyptic science-fiction novel. He is also the author of A Small Arrmageddon (1962) and Dreams and Nightmares: Science and Technology in Myth and Fiction (2008).

Un “filosofo” racconta loro che nel Livello 7 tutto è meglio che all’esterno. Persino la democrazia, perché loro ubbidiscono solo a ordini impersonali che vengono da una voce anonima ma che rappresenta tutti loro. Persino la libertà al Livello 7 è migliore, perché sebbene prigionieri in un abisso da cui non potranno mai uscire, lì dentro possono fare quello che vogliono. Peccato che molte cose siano proibite, come i giochi d’azzardo e gli scherzi e che abbiano comunque da rispettare regole precise e che non ci sia neppure un libro (per non parlare dei film, che non sono neppure citati).

Il mondo esterno li crede morti. Non sono lì per scelta. Il protagonista ascolta l’annuncio del suo compito e del futuro di eterno isolamento comprendendolo ma non assimilandolo subito. Solo dopo, con il ragionamento, ne afferrerà la drammatica portata: lui e tutta la sua discendenza non usciranno mai da lì, per almeno 5 secoli! “Livello 7” è dunque riflessione sul senso della vita e della morte, della guerra, dell’esistenza, della libertà.

Il Livello 7 è uno spazio sotterraneo del tutto autonomo e indipendente per i successivi 500 anni. Ha, infatti, cibo ed energia per 500 persone per un simile periodo. L’aria è prodotta con apposite serre sotterranee e l’acqua è filtrata dal terreno.

I militari ascoltano la musica tramite una sorta di antica filodiffusione (chi si ricorda della filodiffusione?): hanno solo due canali, uno di musica classica e uno di musica leggera. La musica sembra variare all’infinito, ma dopo 12 settimane scopriranno che ricomincia da capo, che le musiche sono limitate. Scopriranno che tutto è limitato. Se lo è in un mondo aperto, lo è a maggior ragione in questo loro piccolo mondo chiuso.

La gente scelta per questa missione è tutta psicologicamente autonoma, ovvero non è particolarmente propensa ai sentimenti, anche se qualcuno finisce per vacillare. A un certo punto vengono autorizzati a sposarsi, in una sorta di matrimonio a tempo, dato che le coppie avranno per sé solo un’ora al giorno in apposite stanze.

Sono come astronauti che debbano colonizzare un mondo alieno inospitale, ma vivono sotto il suolo della nostra Terra. Sembra un romanzo sulle navi generazionali, che trasportano piccole comunità per generazioni fino a mondi lontani. E penso a “Universo” di Robert Heinlein.

Il loro si chiama Livello 7 perché ci sono altri 6 livelli sotterranei oltre alla superficie della Terra, che a volte chiamano Livello 0. Più aumenta il numero dei livelli più sono piccoli e sepolti in profondità e al sicuro da una guerra nucleare.

La gente del Livello 7 si sente privilegiata, ma sebbene tutto sia così ben congegnato non tutto andrà come previsto.

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Fungo atomico

Livello 7” è un romanzo apocalittico del 1959, anni di guerra fredda e di paura di catastrofi nucleari. Anni in cui si cominciavano a costruire rifugi atomici in cui rintanarsi come topi in fuga da un esercito di gatti. Erano anni in cui la gente cominciava davvero ad aver paura che quello che gli Americani avevano sperimentato alla fine della Seconda Guerra Mondiale sterminando la popolazione inerme di Hiroshima e Nagasaki potesse ripetersi in America o in Europa o su scala mondiale. Fu forse soprattutto questa paura a tenere lontana una Terza Guerra Mondiale. Oggi ce ne siamo dimenticati. Le nuove generazioni non sanno cosa sia la paura del nucleare e allora, forse, farebbero bene a leggere romanzi come “Livello 7”, perché il potenziale nucleare odierno è maggiore e più tremendo di quello degli anni ’50 e perché all’epoca erano solo due superpotenze a scontrarsi minacciando un’escalation di armamenti, mentre oggi anche piccoli Paesi, magari guidati da leader infantili con smanie di potere, hanno il potere di premere qualcuno dei dodici bottoni di “Livello 7”, perché oggi in bottoni non sono più in basi militari segrete di due sole potenze avverse, ma sparsi ovunque sul pianeta e bastano un paio di bravi fisici per creare ordigni micidiali. Se si hanno armi di distruzione di massa e non se ne ha paura, la fine rischia di essere maledettamente vicina. Ciò che ci salvò durante la Guerra Fredda fu la paura. Paura alimentata anche da romanzi come questo. Dobbiamo essere grati ad autori come Mordecai Roshwald, perché senza di loro forse oggi ni non saremmo qui. “Livello 7” è un romanzo di fantascienza, ma andrebbe inserito tra quei romanzi che a volte vengono suggeriti nelle iniziative c.d. “leggere per ricordare”. Autori come Mordecai Roshwald meriterebbero un monumento come a degli eroi che abbiano salvato il mondo. Il romanzo magari non sarà narrativamente perfetto, troppo semplice, con un mondo troppo schematico, ma il suo valore di monito è talmente alto da renderlo una lettura imprescindibile.

 

LA PRIMA NAVE GENERAZIONALE

Risultati immagini per universo heinleinVi è mai capitato di leggere un libro e dire “questo libro avrei voluto scriverlo io”?

Da anni vorrei scrivere un romanzo che descriva un viaggio interstellare verso un nuovo mondo. Non, però, la classica storia in cui le astronavi viaggiano più veloci della luce, grazie a qualche trucco come buchi neri, salti nell’iperspazio, ibernazione e simili diavolerie ben note alla fantascienza.

La storia che avevo in mente era quella di un viaggio lungo varie generazioni, a una velocità di poco superiore a quelle delle attuali navicelle spaziali. Avevo immaginato una nave immensa, in grado di ospitare almeno mille persone e tutto ciò che serve per farle vivere in modo del tutto autonomo per almeno mille anni. Avevo anche immaginato che in questi dieci secoli avvenisse quello che di norma avviene in un arco tanto lungo di tempo, in base a quel che ci insegna la storia: la civiltà decade. Avevo, dunque, immaginato una popolazione sprofondata in una sorta di medioevo spaziale, con il ricordo della Terra trasformato in leggenda.

Ebbene, per me questa storia è molto importante, non tanto perché la trovo narrativamente avvincente (è anche questo), ma perché credo che sia un concetto da inculcare nella mente della gente, perché è proprio questo che un giorno dovremo fare: costruire un’astronave immensa e partire verso altri mondi con la certezza che nessuno di coloro che partiranno arriverà di persona e neppure i loro figli, nipoti o pronipoti. Sarà un viaggio per trasportare la vita altrove. Non importerà chi arriverà. Importerà partire. Importerà riuscire a trasportare oltre lo spazio qualche scintilla di vita verso un mondo magari sterile ma che possa essere terraformato. Ho già scritto che credo che la tecnologia umana sia un’aberrazione, un cancro che corrode il nostro pianeta, aggredendone e distruggendone la biodiversità. Se la Vita, la Natura e la Terra sopportano tutto questo non può che essere per un fine superiore. Questo fine non è l’intelligenza umana, non sono l’arte, la musica e la poesia umane. La Vita, la Natura e la Terra non sanno cosa farsene del nostro genio artistico! Lo scopo dell’evoluzione è propagare la Vita. Per farlo verso altri pianeti, uno dei mezzi, forse il solo (salvo ammettere che alcuni batteri possano viaggiare per millenni senza morire) è una civiltà tecnologica. Noi esistiamo per questo e per nessun altro motivo. È nostro dovere morale verso la Natura, la Terra e la Vita partire alla ricerca di nuovi mondi in cui impiantare il seme della Vita. Non sarà necessario creare mondi in cui possa vivere l’uomo. Basterà trasformare un pianeta per consentire che vi attecchisca un batterio o un virus. Siamo portatori di vita, non di “umanità”.

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Robert A. Heinlein

Ebbene il libro che avrei voluto scrivere, a grandi linee, già esiste. Non è proprio come l’avrei scritto io, ma c’è una grande astronave in viaggio da generazioni verso Alpha Centauri e con un equipaggio sprofondato nella barbarie. Ci sono persino dei mutanti come nel mio “Via da Sparta”.

Questo romanzo, in realtà, l’avevo già letto moltissimi anni fa, ai tempi della scuola. Ricordavo di averlo letto, ma non il contenuto. Forse, però, deve aver lavorato sul mio inconscio per decenni! Si tratta di un classico della fantascienza del 1941: “Universo” (“Orphans of the sky”) di Robert Heinlein. Leggo anche che contiene uno dei primi esempi di “nave generazionale” e che a questa sono seguiti vari esempi del genere (che mi riprometto di leggere, in attesa di scrivere la mia versione), quali: “Viaggio senza fine” o “Non-stop” (1958) di Brian Aldiss, la trilogia degli “Esiliati” o de “L’astronave dell’esilio” (The Exiles Trilogy, 1971-1975) di Ben Bova, la serie “Rama” (1973-1993) di Arthur C. Clarke e Gentry Lee, “Eclissi 2000” (1979) di Lino Aldani, il romanzo “Colony” (2000) di Rob Grant, “Supernave” (Mothership, 2004) di John Brosnan.

Pur a distanza di anni è un romanzo che si legge molto bene anche se qualche debolezza ce l’ha, come la scarsa probabilità, in simili condizioni, di sbarcare su un mondo abitabile, ma è lo stesso Heinlein che nota l’estrema fortuna dei propri personaggi e fa notare quanto il gioco delle probabilità fosse contro di loro.

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La Nave riesce ad attraversare lo spazio e, soprattutto, il tempo, perché i suoi “progettisti”, come spiega Heinlein, l’hanno realizzata senza parti in movimento che si usurano (salvo dettagli interni), rendendo così superflua la presenza di manutentori, e l’hanno resa facile da guidare, immaginando che i piloti del futuro non sarebbero stati esperti. Un incidente fa sì che il viaggio duri molto più a lungo del previsto, ma la Nave riesce a reggere meglio della sua popolazione, dilaniata da una guerra tra l’Equipaggio e i Mutanti (una parte della popolazione sottoposta ai raggi cosmici a causa della disattivazione degli scudi anti-radiazione della Nave).

Affascinante è come la storia si sia trasformata in leggenda e come sia mutata la visione dell’universo in una popolazione che da sempre vive in un ambiente ristretto e chiuso, dal quale non può vedere l’esterno, portando la gente a credere che la Nave sia l’intero universo e che nulla esista al di fuori.

Non meno affascinante è come un gruppetto di persone riesca a superare questi preconcetti e arrivare a intuire la vera natura della Nave e il significato tutt’altro che allegorico, come tutti credono, del Viaggio verso Alpha Centauri.

Dalla narrazione emerge uno studio antropologico non privo di importanza e di interesse in vista di possibili futuri viaggi spaziali, che saranno possibili solo quando avremo la possibilità di realizzare navi in grado di viaggiare non certo alla velocità della luce ma almeno a una velocità tale da permetterci di raggiungere un nuovo pianeta in un tempo inferiore a mille anni.Risultati immagini per nave generazionale

Il nuovo sistema planetario di TRAPPIST-1 si trova a 39 anni luce di distanza dalla Terra, che equivale a 369 mila miliardi di chilometri.

New Horizons è al momento la sonda più veloce mai lanciata dall’uomo. È arrivata oltre Plutone nel 2015 e ora è in viaggio fuori dal Sistema Solare, a una velocità di 14,31 chilometri al secondo, ovvero circa 51.499 Km/h. Avanzando a questo ritmo, New Horizons impiegherebbe circa 817mila anni per raggiungere TRAPPIST-1! Dovremmo insomma realizzare navi almeno mille volte più veloci e costruirne di così grandi da ospitare una popolazione autosufficiente. Si dice che, per assicurare una certa varietà genetica, l’equipaggio dovrebbe essere composto da almeno 500 persone. Io immagino che oltre a tale varietà, occorrerebbero anche diverse specializzazioni, dunque, forse un numero di mille viaggiatori sarebbe persino troppo piccolo. Ognuno di questi dovrebbe avere con sé spazio sufficiente per la produzione di cibo, aria e altri beni per la sopravvivenza. Insomma, dovrebbe essere una nave enorme e velocissima, dunque anche costosissima!

Eppure un giorno potremmo e, anzi, dovremo riuscire a costruirne non una ma varie, da lanciare verso possibili pianeti candidati. In quegli anni di un futuro lontano, che speriamo possa un giorno arrivare, “Universo” potrebbe venir riletto con attenzione ed essere considerato una pietra miliare della letteratura d’anticipazione.

 

LA VANITÀ DEL MONDO

Risultati immagini per la fiera della vanità NewtonLa trama de “La Fiera delle Vanità” (Vanity Fair: A novel without a Hero) di William Makepeace Thackeray potrebbe forse essere riassunta come una delle più banali e coinvolgenti per una storia d’amore, con una fanciulla che si innamora di un giovanotto, lo sposa nonostante l’ostilità della famiglia, rimane incinta, lui muore, l’amico di lui, da sempre innamorato di lei la corteggia ma lei resiste per diciotto anni, forte dell’amore per l’amico scomparso. Quando ormai il corteggiatore sta per cedere, un’amica le rivela cose che non avrebbe voluto sapere del marito defunto, piegandone finalmente la resistenza.

Questa “vana” trama che ruota attorno ad Amelia Sedley, affiancata da altre che riterrei minori (come le vicende dell’arrivista Rebecca Sharp, pronta a tutto per conquistarsi un posto in società), serve, però, a questo autore classico della letteratura inglese del XIX secolo come base per descrivere un mondo di vanità, “La Fiera delle Vanità” del titolo, qual’era la civiltà inglese ai tempi della caduta di Napoleone Bonaparte e delle guerre con la Francia, una fiera che anticipa molti aspetti della nostra attuale decadenza, un mondo fatto di complessi rapporti e liti familiari, di delicati e intricati rapporti sociali, di guerre, di feste, di mondanità.

Oggi tutto ciò si legge soprattutto come un documento di come fosse il mondo allora, di come vivessero gli inglesi in quell’inizio di XIX secolo, ormai ben duecento anni fa. Interessante per me cercare di capire il valore della sterlina allora assai maggiore di adesso, scoprire come gli avanzamenti di grado nell’esercito venissero normalmente acquistati in denaro e in nessun modo questo suonasse come una forma di corruzione, ma somigliasse un po’ al sistema con cui oggi acquista una licenza un tassista, un negoziante o un gondoliere. Suonandomi ben strana la pratica, mi viene dunque oggi da riflettere su quanto siano realmente “giuste” le analoghe pratiche moderne appena citate.

Come dice il titolo inglese (Vanity Fair: A novel without a Hero) – e come viene detto all’interno dell’opera –  visto che questo è un romanzo senza un eroe, lasciate che abbia almeno un’eroina, ma Amelia ha ben poco di eroico, è piuttosto una vittima della società, della mondanità e della propria ingenuità. Questa appare dunque, come certo desiderato dall’autore, come un’opera senza eroi, ma se non ci sono, difficilmente può esserci avventura e senza siamo nel grigiore della quotidianità, seppure imbellettata dall’ambientazione storica e dal perfido contesto mondano. Questo, penso, sia una delle cose che mi ha reso più pesanti la lettura.

L’epoca narrata è antecedente a quella dell’autore, seppure non di molto, e questo lo porta a descrivere quegli anni come un’epoca già diversa dalla sua. “La Fiera delle Vanità”) uscì, infatti, a puntate mensili tra il 1847 e il 1848 e, poi, unitariamente, alla fine di tale anno.

La novità per quell’epoca pare fosse avere una protagonista non più tutta virtù o vizio e il descrivere una nuda realtà quotidiana in cui vale più il buon senso che un vacuo sentimentalismo.

Il romanzo non si può definire prolisso (dato che è vivace e ricco di scenette) come mi sono parse altre opere ottocentesche, ma le 662 pagine dell’edizione Newton Compton mi sono parse davvero tante, anzi decisamente troppe, soprattutto per una trama come quella descritta all’inizio che riscuote in me un interesse quasi nullo. Ho letto opere assai più lunghe, magari divise nei numerosi volumi di una saga, ma parlare delle vanità del mondo e degli amori di una ragazzetta scialba per così tanto, francamente mi ha un po’ stancato e devo dire di aver tratto un sospiro di sollievo quando sono finalmente arrivato all’ultima pagina.

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William Makepeace Thackeray (Calcutta, 18 luglio 1811 – Londra, 24 dicembre 1863) è stato uno scrittore inglese, noto soprattutto per le sue opere satiriche, in particolare La fiera delle vanità. È pure noto per essere l’autore del romanzo Le memorie di Barry Lyndon, da cui è stato tratto il film Barry Lyndon di Stanley Kubrick.

La lunghezza di quest’opera, tra l’altro, mi ha portato a fare qualcosa che non avevo mai fatto prima in vita mia: abbandonare la versione cartacea e passare all’e-book.

Mantengo, infatti, normalmente, in lettura almeno un libro su carta e uno in formato elettronico, dato che quelli in e-book li posso leggere in T.T.S. e quindi in circostanze ben diverse dai cartacei (mentre guido, cammino, sono in palestra, cucino…). Il tempo per leggere su carta per me si è ridotto ogni anno di più, dunque la percentuale di libri letti, anzi ascoltati, con Text To Speech, sono ormai divenuti ampia maggioranza. Rendendomi, dunque, conto di non riuscire a progredire molto nella lettura dell’opera di Thackeray, ho deciso di lasciare il cartaceo e riprendere la lettura in e-book, riuscendo così a completarlo. Se non l’avessi fatto, me lo sarei trovato in attesa di essere finito forse ancora quest’estate. Le sue dimensioni fisiche, tra l’altro, mi rendevano anche scomodo portarmelo dietro in quelle occasioni in cui spesso leggo su carta, come in fila in qualche ufficio, pratica peraltro che mi capita sempre meno da quando moltissime attività che un tempo richiedevano uno spostamento di persona si possono fare on-line.

Insomma, questo libro segna una nuova tappa del mio abbandono di quel supporto desueto che è la carta. Fenomeno questo che mi sorprende per la sua rapidità, se penso che il primo libro che lessi in elettronico fu “L’eleganza del riccio”, nell’agosto del 2010 (lo feci al PC, non avendo ancora un e-reader). Trascorse poi un anno, fino al settembre 2011, prima che mi decidessi ad acquistare il primo e-reader, di cui apprezzai da subito la possibilità di leggere in T.T.S. Nel 2012 gli e-book erano 43 su 64 letture. Insomma, in meno di sette anni, sto ormai quasi per rinunciare alla lettura su carta, se non fosse che ho ancora tanti cartacei da leggere. Se dovessi riservare anche a questi volumi l’approccio seguito con “La Fiera della Vanità” o addirittura iniziarli direttamente in elettronico, penso che finirò per abbandonare del tutto la carta.

 

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LA BUONA VECCHIA FANTASCIENZA INGLESE

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John Wyndham

Risultati immagini per il risveglio dell'abisso wyndhamIl risveglio dell’abisso” (“The Kraken Wakes”), pubblicato nel 1953 da John Wyndham, pseudonimo di John Wyndham Parkes Lucas Beynon Harris (Knowle, 10 luglio 1903 – Londra, 11 marzo 1969), è uno dei più classici romanzi di quegli anni d’oro per la fantascienza di lingua inglese. Se in quel periodo spopolavano gli autori americani, Wyndham, pur essendo cittadino britannico ebbe la sua dose di fama con questo romanzo e con altri capisaldi come “Il giorno dei trifidi” e “L’invasione degli ultracorpi”, vere pietre miliari del genere.

L’affascinante ipotesi di questo romanzo è che delle creature abitanti gli abissi oceanici, a decine di chilometri di profondità, abbiano sviluppato una civiltà del tutto diversa dalla nostra e, provocati dall’umanità, muovano al contrattacco, rivelandosi assai più potenti di noi e soprattutto irraggiungibili e inconoscibili, mistero che dà particolare dignità alla narrazione. Se questi esseri marini siano di origine aliena o si siano sviluppati negli abissi degli oceani terrestri non è dato sapere,Risultati immagini per il risveglio dell'abisso wyndham anche se la vicenda comincia con strani oggetti luminosi che, provenienti da cielo, si immergono in mare.

La storia ha sviluppi apocalittici e si presenta come un’originale rappresentazione di invasione aliena, con l’interessante raffigurazione di creature in grado di svilupparsi intellettualmente nonostante le tenebre profonde e le altissime pressioni in cui vivono. Sebbene non le mostri mai direttamente, Wyndham ci
presenta delle creature profondamente diverse da noi per origini, mentalità ed esigenze vitali, cosa quanto mai apprezzabile in un’opera che esplora i confini del possibile e quanto di più lontano possibile dai ridicoli alieni antropomorfi di serie televisive come Star Trek o di altra fantascienza di qualità decisamente inferiore. Sebbene non definirei quest’opera un capolavoro della letteratura, essendo forse un po’ troppo semplice e sviluppando troppo velocemente gli effetti di questa devastante invasione, rimane comunque ancora oggi uno tra i romanzi più originali e consistenti della fantascienza.

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