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LA STRADA DI CHRISTOPHER

John Christopher (Sam Youd)

Sam Youd (Huyton, 16 aprile 1922 – Bath, 3 febbraio 2012) è stato uno scrittore di fantascienza britannico attivo con una miriade di pseudonimi diversi, il più famoso dei quali credo sia John Christopher, alias con cui ha firmato, tra le tante, opere come “Morte dell’erba” (The Death of Grass, Michael Joseph, 1956), la Trilogia de “I tripodi” (espansa in tetralogia, 1988) e “Una ruga sulla Terra “(A Wrinkle in the Skin; titolo USA The Ragged Edge, 1965).

Ho letto ora quest’ultimo romanzo, piacevole e godibile. L’idea di base è, però, forse il solo elemento fantascientifico: un immane terremoto globale distrugge la Terra, inghiotte i mari e fa scomparire la civiltà umana. I pochi sopravvissuti si barcamenano per sopravvivere, in un mondo senza più regole, dove il più forte schiaccia il più debole.

La letteratura e il cinema sono pieni di terremoti, ma l’idea di uno di portata così grande da cancellare la civiltà umana e portare moltissime specie all’estinzione credo abbia una sua originalità, sebbene imparentata con le storie in cui la Terra subisce l’impatto di qualche meteorite o altri grossi corpi celesti.

Ne nasce un romanzo d’avventura e di viaggio che molto probabilmente può esser stato d’ispirazione per Cormac McCarthy e la sua grigia, stupenda, distopia “La strada” (2006).

A parte il cataclisma che ha generato il caos post-apocalittico che fa da ambientazione a entrambe le

opere (che in Christopher è ben enunciato mentre in McCarthy rimane misterioso), per il resto la trama a grandi linee pare la stessa: un uomo e un bambino in un viaggio di sopravvivenza attraverso una terra desolata, incontrando rare persone, spesso pericolose. Certo in Christopher a guidare i loro passi è la speranza e la ricerca, nel grigio mondo polveroso di McCarthy si percepisce solo la rassegnazione e una sopravvivenza disperata. Diversi anche gli stili, ma affascinanti e coinvolgenti entrambi i romanzi. Se Christopher ha il merito di venir prima, McCarthy quello di una scrittura unica.

Una ruga sulla Terra”, come il precedente “Morte dell’erba” si inserisce in un filone post-apocalittico che Christopher sembra gestire assai bene.

La formula adulto e bambino in viaggio in un mondo devastato sarà poi ripreso da altre opere, oltre a “La strada”. Solo l’altra sera, per esempio, vedevo in streaming il film “Bird box” (2018, diretto da Susanne Bier e con Sandra Bullock), dove a fuggire attraverso un mondo devastato da strane presenze invisibili che uccidono con lo sguardo sono una madre con due bambini piccoli. Non posso non pensare poi al Pistolero Roland di Gilead e al bambino della saga de “La Torre Nera” (1982-2012) di Stephen King, il grande narratore del mondo infantile.

UN CUORE ETRUSCO TRA LE ONDE DELLA STORIA

Sovente i popoli restano legati alle loro origini storiche per quanto remote. Questo vale di certo anche

Navicello etrusco - Roberto Mosi Libro - Libraccio.it

per i Toscani, che ricordano con nostalgia i momenti di maggior gloria della propria storia da, andando a ritroso, gli anni in cui Firenze fu capitale del regno d’Italia[1], ai tempi del Granducato di Toscana per arrivare sino ai fasti del popolo etrusco. Le origini etrusche sono anzi quelle di cui vanno più fieri, se non altro perché non rappresentano un fugace momento di gloria passeggera ma appunto l’origine della propria cultura.

Il poeta Roberto Mosi sembra ben conoscere e immedesimarsi in questa passione per i tempi precedenti la dominazione romana.

Ciò traspare, in particolare, nel volume che mi è or ora capito di finir di leggere, “Navicello etrusco”, titolo che prosegue quasi nel sottotitolo “per il mare di Piombino” (Edizioni Il Foglio, 2018).

Che etruschi fossero alcuni dei primi re di Roma è cosa se non certa, almeno probabile. Che anche etrusco fosse quel Dardano che fondò Troia, dalla quale partì poi Enea per una sorta di viaggio di ritorno verso la nostra penisola e per porre le basi di Roma forse è solo leggenda.

Per i Greci, per esempio, questo figlio di Zeus ed Elettra nacque in Arcadia e da lì si spostò in Dardania, poi ridenominata Teucria per suo nipote Troo, terra dove sorse poi Troia.

Fu piuttosto Virgilio a narrare che Dardano venisse dall’etrusca Corythus ed è lì che il poeta latino fa tornare Enea, alla ricerca della terra degli avi.

Questa versione sposa il fiorentino Mosi quando scrive “Dardano partì dall’Etruria / per fondare la città di Troia”, ma questa è per lui occasione per suggerirci con levità l’immagine di moderni viaggi per la medesima rotta, quelli dei “migranti in fuga” di oggi.

E già, perché Mosi, con uno sguardo alla storia antica, tiene però i piedi saldi nella quotidianità e non la dimentica mai.

La sua Toscana è una “terra che ha smesso / le vesti proletarie per i vestiti / raffinati della cultura”, che, però, mai può dimenticare le proprie basi contadine. Mosi alla cultura del suo popolo è sempre attento, così come ai miti antichi, come ha mostrato anche nel suo “Prometheus”, che ci parla, per brevi fotografie poetiche, dei tanti muri di ogni tempo.

Come può far intuire il titolo, “Navicello etrusco” non ci canta solo della terra ma anche e soprattutto del mare. Quello tra Populonia e Piombino in particolare, la rotta del ferro degli antichi avi.

E questa raccolta di versi è un viaggio attraverso queste acque ma anche attraverso il mare della Storia.

Il volume è diviso in due parti, l’una dedicata a Turan, la dea etrusca dell’amore, che come Narciso ama specchiarsi, l’altra richiama l’immagine della statuetta votiva denominata da D’Annunzio “L’Ombra della Sera” (facile per il lettore non comprenderne il riferimento, che pare solo una poetica descrizione dello scorrere del tempo). Due parti ma un unico viaggio nel tempo che ci porta ad assistere, per velocissimi accenni, piccoli flash fotografici, alle invasioni barbariche, all’attraversata del Mediterraneo di Rutilio Namaziano, alle invasioni dei Goti e San Cerbone, alla caccia alle streghe, a Napoleone all’Elba con Maria Walewska[2], alla Seconda Guerra Mondiale con la batteria di Punta Falcone, ai disoccupati dell’era industriale, ai migranti di oggi.

Scorgo poi in questi versi il passo dello stesso Roberto Mosi sulle spiagge del litorale toscano, Baratti, Populonia, Vada.

Le onde mormorano alla spiaggia/ bianca, la luna invade / il silenzio della camera”.

Mi lascio andare alle onde, il fresco / dell’acqua accarezza il mio nuoto leggero”.

Eccolo mentre osserva “Marta e Anna” che “sono / padrone della spiaggia. // Marta compone un tappeto / di ciottoli”. Eccolo mentre affronta le fatiche dei vacanzieri, “il serpente di macchine. / Una striscia ininterrotta / di lamiere scintillanti”. Eccolo che “Dalla terrazza dell’albergo” respira “l’aria del mare”.

Eccolo attento osservatore della natura, delle “Zone libere / zone che sfuggono al nostro controllo, / meritano rispetto per la loro verginità / per la loro disposizione naturale all’indecisione. / La diversità / trova rifugio su il ciglio della strada”.


[1] Mosi ha partecipato con un proprio racconto sulle case di ferro all’antologia “Accadeva in Firenze Capitale” del GSF – Gruppo Scrittori Firenze, curata da Sergio Calamandrei e Cristina Gatti e a “Gente di Dante” sempre del GSF, curata da Carlo Menzinger e Caterina Perrone, con un racconto su Corso Donati.

[2] Su Elisa Baciocchi, la sorella dell’imperatore legata alla Toscana, Mosi ha scritto il saggio “Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone”.

LA VOCE E GLI OCCHI DEL MARE

Risultati immagini per Oceano mare BariccoSono vari anni che non leggo un romanzo di Alessandro Baricco. L’ultima sua opera che ho apprezzato, parecchio tempo fa, è infatti un saggio (“I barbari”), che lessi quando uscì a puntate con La Repubblica e che trovai pieno di intuizioni interessanti se non geniali. Anche i romanzi letti in precedenza mi erano piaciuti molto, sebbene la mia sensibilità letteraria all’epoca fosse certo diversa da adesso.

Ho affrontato dunque ora la lettura di “Oceano Mare”, romanzo che credevo di aver già letto ma che ho scoperto essere per me ancora nuovo. Come spesso mi accade quando leggo un romanzo da cui mi aspetto molto (in questo caso apprezzandone l’autore), anche questa volta sono rimasto un po’ deluso.

L’incipit mi ha incuiriosito, rafforzando le mie ottimistiche attese.

“Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare il mare nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.

Potrebbe essere la perfezione immagine per occhi divini mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità verità ma ancora una volta é il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.”

Nella prefazione c’è una discreta sintesi del tema di questo romanzo:

“Molti anni fa, sulla riva di un qualche oceano, arrivò un uomo. L’aveva portato lì una promessa. La locanda in cui si fermò si chiamava Almayer. Sette stanze. Degli strani bambini, un pittore, una donna bellissima, un professore dal nome strano, un uomo misterioso, una ragazza che non voleva morire, un prete buffo. Tutti lì, a cercare qualcosa, in bilico sull’oceano. Molti anni fa, questi e altri destini incontrarono il mare e ne tornarono segnati. Questo libro li racconta perché, ad ascoltarli, si sente la voce del mare.”

In questo abbozzo di trama si legge il fascino della storia, ma anche il suo limite: troppi personaggi e, forse, un obiettivo un po’ troppo pretenzioso: far sentire nelle storie di alcune persone la voce del mare. Che sia obiettivo arduo lo deve sapere anche Baricco, tanto è vero che quello che definirei il personaggio principale è un pittore, ex-ritrattista, che per anni cerca invano di dipingere il mare, firmando ogni volta tele bianche o quasi. Da ritrattista, cerca gli occhi del mare e non li trova, come forse l’autore cerca la voce del mare e la trova solo a tratti.

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Alessandro Baricco

Il risultato è un romanzo intrigante, con personaggi singolari, ma privo di unitarietà e, appunto, forse un po’ troppo lontano dalla sua stessa anima. Una storia che lì per lì incuriosisce ma che tende a svanire veloce nella memoria, al punto che finito il libro, senza aver trovato reminiscenze in alcun passo, mi chiedo ora se davvero non l’avessi già letto, come pensavo, e poi dimenticato, come rischio di fare di nuovo.

IL VECCHIO E LA NATURA

Risultati immagini per il vecchio e il mare hemingwayIl Vecchio è solo. Il Vecchio lo nutre il mare. Il Vecchio sono ottantacinque volte che esce con la sua barca senza tornare con un pesce. Uno vero, uno con cui ripagarsi della fatica e del tempo. Il Vecchio ha un solo amico, il Ragazzo. Il Ragazzo pesca con lui da quando aveva cinque anni, ma il Vecchio ha il malocchio, pensano i suoi genitori, e l’hanno costretto a cambiare barca. Il Vecchio ora è solo. Solo con il mare. Parla da solo. Rimpiange il Ragazzo.

Come il Capitano Acab aspetta il grande pesce. Quello vero. Quello importante. Qualcosa abbocca al suo amo. Un pesce enorme che trascina la barca per giorni.

È una battaglia quella del Vecchio con il Pesce, che ammira e che rispetta, ma che deve uccidere. Non è la grande balena bianca di Melville, ma il vecchio è solo e le forze non sono più quelle di una volta. Il pesce è più grande della sua barca. Il Vecchio combatte con la fame, la sete, la fatica, i crampi, il sonno, ma resiste.

È vita quotidiana, ma è una battaglia epica, immortale, indimenticabile. È la più grande e bella delle imprese, quella di un Uomo con poche risorse contro la Natura. Di un Uomo che vive nella Natura, con la Natura.

Ho appena riletto “Il Vecchio e il Mare” di Ernest Hemigway. “Il Vecchio e il Mare” è tutto questo. Dico di averlo riletto, perché ero convinto di averlo già fatto molti anni fa, ma ora non ne sono convinto. Se l’avessi fatto davvero non avrei potuto dimenticarlo così. Oppure sì. La nostra sensibilità cambia con il tempo. Ho letto questo libro perché ci sono alcuni autori classici, pochissimi, forse solo due (Dostoevsji e Hemingway) che non sono mai riuscito a farmi piacere.

Del russo ho letto di recente un paio di cose (“I Demoni” e “Le Notti Bianche”) e proprio non sono riuscito a digerirlo. Dell’americano conservavo un ricordo negativo, risalente a letture giovanili, e una profonda antipatia per quest’uomo dall’aria arrogante, che non faceva che scrivere di caccia e battaglie. Sapevo di sbagliarmi, che non era giusto ricordarlo così e che dovevo riaffrontarlo: leggerlo ancora, dopo tanti anni dall’ultima volta. Visto le recenti pessime esperienze con l’autore de “I Demoni”, pensavo fosse un tentativo inutile, ma un nome così qualche ora dovevo dedicarla e credo di aver fatto bene a sforzarmi di superare il mio pregiudizio.

Ne “Il Vecchio e il Mare” si parla di pesca. Siamo dunque dalle parti dell’Hemigway che ricordavo: uomini che uccidono. Eppure quella che viene descritta è una lotta per la sopravvivenza. Il Vecchio non è un naufrago, costretto a pescare per estrema necessità, ma la pesca è il suo mestiere, è il solo modo che conosce per procurarsi da vivere, per nutrirsi. È povero e sfortunato. Nonostante la sua abilità ed esperienza il Mare non lo ricompensa più con i suoi frutti. Pesca solo piccoli animali di cui nutrirsi sul momento, con cui placare i morsi della fame. Conosce il Mare e le sue creature. Le ama, le capisce, le rispetta. Questo rende la sua impresa una vera impresa, una lotta epica, una grande storia.

Il Vecchio e il Mare” è un buon libro. È scritto bene, in modo moderno, essenziale, diretto, senza inutili fronzoli. Il protagonista è intenso, vero, concreto, vibrante. La trama è semplice ma non meno vera e coinvolgente. La storia è una di quelle che ti rimane dentro (o che dovrebbe farlo!).

Sarà ora, dunque, di scoprire meglio questo autore. Forse gli altri romanzi torneranno a deludermi, ma, a questo punto, glielo devo, a quest’altro vecchio, al vecchio Ernest.

Certo “Il Vecchio e il Mare” ha una storia di quelle che sono particolarmente nelle mie corde e gli altri libri  potrebbero non avere questo vantaggio. Amo questo tipo di sfide.

Leggendolo non ho pensato solo al grande “Moby Dick” di cui è, in un certo senso, una versione in miniatura, ma a tutte le altre belle storie in cui un uomo (o pochi uomini) affrontano le forze più grandi di loro della Natura, da, ovviamente il “Robinson Crusoe” di Defoe, a “Nelle Terre Estreme” di Krakauer, a (sebbene sia anche altro) “Hunger Games” della Collins, a “La Bambina che amava Tom Gordon” di King, ad “Ayla Figlia della Terra” (e romanzi successivi) della Auel, a Verne, a Salgari, ma anche a vicende fantascientifiche come “Io sono Leggenda” di Matheson, “Darwinia” di Wilson, “La Strada” di McCarthy, a film come “127 Ore”, “Frozen”, “In the Wild”. In particolare, ho pensato che McCarthy, forse, debba qualcosa a questo romanzo per il suo splendido “La Strada”, se non altro per lo stile, per questa solitudine e, più palesemente, per l’anonimato universale dei personaggi (il Vecchio e il Ragazzo qui, l’Uomo e il Bambino là).

Firenze, 07/07/2013

LE AVVENTURE DI UN CAMALEONTE DI BARCELLONA

Come si può trovare un difetto in un libro che appassiona, incuriosisce e raramente annoia? Può esserlo forse una trama densa di avvenimenti? Dal punto di vista narrativo, questa credo sia la buona regola di molti bestseller, dal punto di vista della credibilità della storia, questo però può essere un elemento che la inficia seriamente.

Che ne direste allora di un personaggio che vediamo neonato sfuggire alla morte per abbandono e fame, crescere orfano di madre, perdere da piccolo il padre in una rivolta, diventare scaricatore di porto, trasformarsi in soldato e poi in banchiere, perdere parenti e amici per peste e guerre, diventare Barone e Console del Mare e poi perdere tutto sotto gli attacchi dell’Inquisizione, scampare a morte certa e ritornare ricco?

Sebbene il romanzo che ne parla sia voluminoso, l’impressione è che questo personaggio sia un po’ finto. Se però accettiamo questo suo camaleontismo come, per esempio, i superpoteri di un eroe dei fumetti o il trovarsi sempre in mezzo ai guai di qualche detective, allora non potremo non goderci un romanzo come “La Cattedrale del Mare” di Ildefonso Falcones (nato a Barcellona nel 1958). Lo apprezzeremo allora non tanto per il piacere di immergerci in una Barcellona del XIV secolo, assistere all’edificazione della sua cattedrale, alle lotte interne ed esterne della città e della Catalogna, quanto per la simpatia verso personaggi cui è difficile non affezionarsi, dal buon protagonista Arnau Estanyol, al suo fratello adottivo Joanet, alla madre Francesca, alle belle donne che lo circondano, agli amici ebrei e moreschi. Faremo fatica a staccarci da queste pagine per i numerosi momenti in cui riusciremo a emozionarci seguendo le avventure di Arnau, sempre guidate dal cuore. Scopriremo un mondo in cui chi sa essere un buon amico generoso sarà sempre ricambiato.

Ildefonso Falcones

Ildefonso Falcones

Non stupisce che questo libro, uscito nel 2006, sia stato tradotto in numerose lingue e abbia venduto, pare, milioni di copie: con una ricetta che non risparmia colpi di scena, suspance, emozioni, la strada per diventare un bestseller appare spianata.

 

Firenze, 27/05/2013