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L’UOMO CHE AMA LE PAROLE ESSENZIALI

Se volete farvi un’idea della poetica di Roberto Mosi, non potete che leggere il volume “Amo le parole”, sottotitolo “Poesie 2017-2023”, edito da Giuliano Ladolfi, che raccoglie versi di Roberto Mosi tratti dai volumi:

Si tratta quindi di una rassegna assai significativa della più recente produzione poetica di questo autore.

Avevo a suo tempo già letto e commentato “Navicello etrusco” e “Prometheus. Il dono del fuoco” oltre ad altre opere di questo autore fiorentino, membro del Gruppo Scrittori Firenze e della Camerata dei Poeti di Firenze, quali “Concerto”, “I barbari” ed  “Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone” ma anche i  racconti nelle antologie del GSF “Le immaginate”, “Le sconfinate”, “Gente di Dante” e “Accadeva in Firenze capitale”.

Che tipo di scrittura vi troviamo? Come scopriremo assieme, sono versi diretti ed essenziali che mirano al cuore delle cose, che parlano di gente e sentimenti reali ma senza sentimentalismi, di luoghi e della loro storia che è soprattutto narrazione di vite passate. Uno sguardo alla memoria e ai ricordi, soprattutto collettivi, ma anche tanta attenzione per il presente e anche un pensiero preoccupato per il futuro.

Nella Prefazione, Carmelo Consoli, Presidente della Camerata dei Poeti di Firenze, esordisce con parole che non posso non condividere:

Tutta la poesia di Roberto Mosi è innestata su un’instancabile attraversata di territori e immagini di un tempo che dal contemporaneo sconfina nel passato e nell’antico, collegandosi con disinvoltura al mito che ne sorregge e nobilita tutta l’architettura costruttiva”.

Mosi è, infatti, “appassionato seguace del mondo del mito”.

Il Profumo dell’Iris” si apre con una serie di versi sulle piazze fiorentine. Mosi è autore, infatti, assai radicato nel territorio che ben conosce. Quella su Santa Croce ne coglie le molteplici geometrie poetiche. “L’annunziata” quando conta “trenta le colonne, otto i bambini” ci fa quasi pensare alla magia di una filastrocca. In “Santo spirito” sentiamo in ogni verso lo spirare potente del vento. Parlando de “La Stazione” non poteva che parlarci degli extracomunitari che vi stazionano: “uccelli migratori”. Ne “Le Murate” emergono prepotente la storia ma anche i primi segnali di un ambiente malsano: “il fiume bussò / alle porte del carcere / il mese di novembre/ e volle le sue vittime” poi “venne il tempo della città / che divorò il carcere”. L’amore per il colore di questo fotografo dell’animo domina i versi sullo storico caffè “Le Giubbe Rosse”. “Il Casone dei Poveri” ci parla di un non-castello di antenati che non paiono principi. Ne “L’anello dei viali” con “la polizia in assetto di guerra” scorgiamo tensioni sociali. L’otto marzo della “Manifattura tabacchi” ci parla del popolo femminile di Firenze.

Andrebbe fatto un volume fotografico con gli incredibili (spesso orribili) monumenti che adornano le rotatorie delle piazze italiane. “L’omino della pioggia” ci parla di uno di questi, a Firenze sud, quasi magrittiano. “Le bombe sulle officine di Porta al Prato” creano una sorta di loop nei versi a testimoniare l’assurdo ripetersi della violenza.

Mosi sembra amare i numeri, forse perché in fondo la poesia è anche matematica in parole (metrica e ritmo non lo sono?). In “Le Cure”, però contiamo solo sessanta olive e sei cucchiai d’olio. Per parlarci di Palazzo Vecchio cita Pablo Neruda. Nel “Piazzale degli Uffizi” le figure della galleria escono dai quadri e il poeta conclude con versi che leggerei quasi come un proprio manifesto: “Oggi c’è bisogno / di bellezza, di simboli / sereni del bello”. Bellezza, sì, ma anche serenità e non fini a loro stesse ma per essere simboli e, direi, esempi.

Se in “Vicolo delle brache” facciamo l’incontro soprannaturale con un angelo bianco e uno nero (che forse tanto angelo non è), in “Via del Canto Rivolto”, protagoniste sono le persone, come spesso nei versi del Mosi, gente, però, che scompare “D’agosto” lasciando “l’ascensore immobile / gli appartamenti vuoti”. Con “Le rificolone” sono i ragazzi e i bambini a popolare di nuovo le strade in questa festa tutta fiorentina.

Quando si arriva “Allo Stadio” la gente si fa folla e l’autore dice “mi perdo nella banalità / delle parole di Vasco” ma questa banalità non deve essere poi così negativa visto che si trova anche lui a cantare.

“Campo di Marte” con la sua stazione non può che essere luogo d’incontri e anche del quartiere di “Rifredi” dipinge il passare dei treni. Quanta storia e quanta vita riesce a scoprire in un quartiere all’apparenza nuovo, come Novoli, “fra monconi di cemento” “dove fiorivano / d’inverno rose scarlatte”.

Come non ricordare l’attentato di “Via dei Georgofili”, ma in questi versi l’esplosione anziché allontanare pare unire, ravvicinando questa via del centro fiorentino con “Il Gigante dalla collina di Pratolino” che maledice questa ferita ingiuriosa.

Ed ecco comparire Rosai, Cajkovsji, Vinicio Berti mentre persino “Peretola” pare avere una storia da raccontare con “sui tavoli lattine di Coca Cola”. In un “Quartiere popolare” “il cortile ha il respiro / della gente che dorme”: Firenze città di persone, di storia e di storie.

Mentre “s’intrecciano mani di ogni colore” tra la gente si fa largo il mito e “Dal Pratomagno spunta la luna / fauni e ninfe escono dai boschi”. Eppure, a “Fiesole”, anche una “immobile lucertola” può essere protagonista davanti alla Cupola.

Roberto Mosi

Sovente i popoli restano legati alle loro origini storiche per quanto remote. Questo vale di certo anche per i Toscani, che ricordano con nostalgia i momenti di maggior gloria del proprio passato da, andando a ritroso, gli anni in cui Firenze fu capitale del regno d’Italia, ai tempi del Granducato di Toscana per arrivare sino ai fasti del popolo etrusco. Le origini etrusche sono anzi quelle di cui vanno più fieri, se non altro perché non rappresentano un fugace momento di gloria passeggera ma appunto l’origine della propria cultura.

Il poeta Roberto Mosi sembra ben conoscere e immedesimarsi in questa passione per i tempi precedenti la dominazione romana.

Ciò traspare, in particolare, in “Navicello etrusco”, titolo che prosegue quasi nel sottotitolo “per il mare di Piombino” (Edizioni Il Foglio, 2018).

Che etruschi fossero alcuni dei primi re di Roma è cosa se non certa, almeno probabile. Che anche etrusco fosse quel Dardano che fondò Troia, dalla quale partì poi Enea per una sorta di viaggio di ritorno verso la nostra penisola e per porre le basi di Roma forse è solo leggenda.

Per i Greci, per esempio, questo figlio di Zeus ed Elettra nacque in Arcadia e da lì si spostò in Dardania, poi ridenominata Teucria per suo nipote Troo, terra dove sorse poi Troia.

Fu piuttosto Virgilio a narrare che Dardano venisse dall’etrusca Corythus ed è lì che il poeta latino fa tornare Enea, alla ricerca della terra degli avi.

Questa versione sposa il fiorentino Mosi quando scrive “Dardano partì dall’Etruria / per fondare la città di Troia”, ma questa è per lui occasione per suggerirci con levità l’immagine di moderni viaggi per la medesima rotta, quelli dei “migranti in fuga” di oggi.

E già, perché Mosi, con uno sguardo alla storia antica, tiene però i piedi saldi nella quotidianità e non la dimentica mai, con la sua vita e i suoi drammi.

La sua Toscana è una “terra che ha smesso / le vesti proletarie per i vestiti / raffinati della cultura”, che, però, mai può dimenticare le proprie basi contadine. Mosi alla cultura del suo popolo è sempre attento, così come ai miti antichi, come ha mostrato anche nel suo “Prometheus”, che ci parla, per brevi fotografie poetiche, dei tanti muri di ogni tempo.

Come può far intuire il titolo, “Navicello etrusco” non ci canta solo della terra ma anche e soprattutto del mare. Quello tra Populonia e Piombino in particolare, la rotta del ferro degli antichi avi.

E questa raccolta di versi è un viaggio attraverso queste acque ma anche attraverso il mare della Storia.

La raccolta è divisa in due parti, l’una dedicata a Turan, la dea etrusca dell’amore che, come Narciso, ama specchiarsi, l’altra richiama l’immagine della statuetta votiva denominata da D’Annunzio “L’Ombra della Sera” (facile per il lettore non comprenderne il riferimento, che pare solo una poetica descrizione dello scorrere del tempo). Due parti ma un unico viaggio nel tempo che ci porta ad assistere, per velocissimi accenni, piccoli flash fotografici, alle invasioni barbariche, all’attraversata del Mediterraneo di Rutilio Namaziano, alle invasioni dei Goti e San Cerbone, alla caccia alle streghe, a Napoleone all’Elba con Maria Walewska, alla Seconda Guerra Mondiale con la batteria di Punta Falcone, ai disoccupati dell’era industriale, ai migranti di oggi.

Scorgo poi in questi versi il passo dello stesso Roberto Mosi sulle spiagge del litorale toscano, Baratti, Populonia, Vada.

Le onde mormorano alla spiaggia/ bianca, la luna invade / il silenzio della camera”.

Mi lascio andare alle onde, il fresco / dell’acqua accarezza il mio nuoto leggero”.

Eccolo mentre osserva “Marta e Anna” che “sono / padrone della spiaggia. // Marta compone un tappeto / di ciottoli”. Eccolo mentre affronta le fatiche dei vacanzieri, “il serpente di macchine. / Una striscia ininterrotta / di lamiere scintillanti”. Eccolo che “Dalla terrazza dell’albergo” respira “l’aria del mare”.

Eccolo attento osservatore della natura, delle “Zone libere / zone che sfuggono al nostro controllo, / meritano rispetto per la loro verginità / per la loro disposizione naturale all’indecisione. / La diversità / trova rifugio su il ciglio della strada”.

Èrato (Ερατώ), figlia di Zeus e di Mnemosine, è per i Greci una delle Muse, quella del canto corale e della poesia amorosa.

Roberto Mosi intitola un suo volume, qui ripreso, “Eratoterapia”: la poesia come cura per l’anima.

Il capitolo decolla con una corsa di una coppia in bicicletta che canta come “un’orchestra volante”: un video-clip in parole.

In Piazza Duomo, davanti a “La Cupola” una bambina, quasi come un autistico, conta ogni cosa, ma in quella conta c’è tutta la sua vitalità infantile.

Può essere la poesia un mestiere? Una bambina lo crede, pensando a “Il nonno poeta”. Beata lei.

I bambini sembrano dunque protagonisti di questa cura in versi anche in “Passi sulla neve” dove “I miei passi pesanti / seguono i tuoi leggeri” se come mi pare le “impronte innamorate” sono quelle di un adulto e un bambino.

Già s’è detto dell’uso frequente del colore nei versi di Mosi. In “Parola – poesia” ne abbiamo un altro esempio: celeste, rosso, bianco. Sono, come qui, spesso colori essenziali, netti, decisi, senza sfumature. Quasi matematici, come certi conteggi che talora incontriamo nella sua poetica: non soggetti a dubbi.

La memoria! Mosi è poeta di visione ma anche di ricordo. Di pensiero e di riflessione. Eppure quando “si mette in moto il motore / della mente” vorrebbe poterlo fermare, come fosse un computer da resettare o spegnere.

Il capitolo si conclude con i versi che hanno dato il nome alla raccolta “Amo le parole”: “Amo le parole / che si sollevano dalle strade / con il respiro della poesia”. Già, le strade, le piazze, i luoghi, vera fonte d’ispirazione di questo poeta.

Dopo questi versi un intermezzo non poetico, la “Lettera a Marta” che è però un altro piccolo manifesto di ciò che Mosi intende per poesia: “Fai in modo che il tuo comporre sia una voce essenziale, senza fronzoli, che navighi in mezzo al vero della vita, giocando, a volte, se credi, con i riflessi che brillano dagli specchi del mito.” “Evita, poi, i cascami ammuffiti dele vecchie stagioni della poesia, che hanno fatto il loro tempo”. “Crea percorsi coinvolgenti per te e per gli altri”. E non è forse così che scrive Mosi? Non ho scorto mai toni pomposi ed epici o lirismi sdolcinati: narra la vita e la storia (che è vita del passato) come tratti veloci e netti, essenziali, come scrive lui stesso.

Il successivo capitolo è “Orfeo in Fonte Santa”. Ci narra di un luogo toccato più volte dalla storia. Fu rifugio dei partigiani presso l’Antella di Firenze ma anche, trecento anni prima, luogo dove una “allegra brigata di letterati, scienziati e amanti della bella vita” la scelsero come luogo dei loro incontri, chiamandolo anche Fonte di Baci o Fonte Castalia, creando il movimento letterario dell’Arcadia.

Alla Fonte Santa “brilla il vortice del silenzio” e il poeta può gridare al mondo “io sono”, mentre “angeli migranti danzano / leggeri come il vento che giunge / dal Mediterraneo”, finché a spezzare l’incantesimo del luogo non v’è “sangue, sangue sul verde / delle foglie, sul pavimento/ della Cattedrale”. Luogo di poeti, partigiani ma anche “Migranti giunti dall’Africa / dalla Siria”. “Ogni sera un riparo diverso”.

I “Dialoghi con Marcel Proust” ci parlano dell’opera di Giotto e riprendono le parole di Proust su Ponte Vecchio.

La follia dei manicomi, la follia della loro esistenza e quella racchiusa in loro sono in “Sinfonia per San Salvi” su questo luogo di cura psichiatrico fiorentino, che parla de “la nave dei folli dal padiglione / delle Agitate”. Qui la gente di Firenze è divisa tra “Tranquilli, Infermi / Paralitici, Semi Agitati ed Epilettici / Agitati” che si deve “Sorvegliare Contare Proteggere”, in un tempo in cui è “Elettricità cura prima del cervello / delle Agitate”.

Promethèus” ci parla di muri di ogni parte del mondo, ma si capisce che il poeta è di Firenze, città orfana delle mura di cinta, sin dal “risanamento” del Poggi che voleva mutarla in capitale d’Italia, ma ricca di “muri privati” onnipresenti. Mura di ville che cingono le strette viuzze collinari tra piccoli bastioni che celano la vista dei giardini retrostanti, case dalle mura di pietra e dalle alte finestre. Una città troppo fortificata per poterci ambientare una storia di zombie, quelle creature semi-vive che nei film americani dilagano ovunque abbattendo fragili porte-finestre e vetrate senza imposte o inferriate.

Una città priva delle grandi periferie delle metropoli ma non per questo orfana del tocco irriverente dei writer, che lasciano i propri graffiti in sottopassi, lungo i binari della ferrovia o su edifici che sono quasi archeologia industriale.

Lo sguardo poetico dell’autore va, infatti, spesso proprio alle opere di questi artisti di strada.

Il titolo “Promethèus” rimanda alla mitica figura che diede il fuoco all’uomo, ma anche “l’idea del calcolo” e “il sistema dei segni tracciati”. Padre, quindi, dell’energia, della tecnologia ma anche della scrittura e, perché no, dei graffiti, della “fantasia dei colori” che riempiono “strade periferiche/ muri della ferrovia / sottopassi nell’ombra / saracinesche abbassate” in queste nostre “Città a misura d’automobile”. Sono quadri che “vivono dell’aria / delle strade, dei muri bagnati”.

Di quali muri ci parla?

Oltre a quelli di Firenze, quelli di Gerusalemme, di Berlino, del Messico, di Melbourne, di Rio de Janeiro.

E chi si muove tra questi muri?

Ecco i pugili che “combattono miserie”, ecco “l’omino magro” che “esce dalla fogna”, “un grappolo di palloni in mano”, ecco che “il Giullare s’intrufola, follia / dei segnali / lo spray nella mano / la freccia stradale infilza un cuore / il Cristo pende dall’incrocio”.

Ecco i malati dei manicomi dipingere i muri delle loro case-prigione.

Ecco gli antenati dei writer all’opera nelle grotte di Lascaux.

Brevi poesie di grande forza visiva che sono fotografie. Del resto, si sente, il Mosi non è solo poeta, ma anche fotografo.

La sensibilità ecologica e ambientale di Roberto Mosi affiora nel capitoloIl nostro giardino globale”: cita Giorgio Caproni “L’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore”.

Scrive invece Mosi stesso: “Il nostro giardino viaggia / nello spazio infinito” mentre “L’esercito di plastica” “trascina / l’artiglieria pesante, tronchi / bidoni, misteriose carcasse”, “inseguite da nere / placide, strisce di olio”, in un mondo in cui “misurano la ricchezza / dai rifiuti di ogni giorno”.

E mentre crollano ghiacciai e montagne e la siccità miete vittime, “gli orsi polari hanno / imparato a strisciare / per non rompere lo strato / sottile del ghiaccio”.

Mentre il caldo aumenta e i mari si alzano l’autore si chiede se “I pesci nuoteranno per le strade / di Viareggio, di Livorno?” Pare immagine assurda ma, ormai, difficilmente potrà avere risposta negativa.

I nostri giorni” riunisce versi pubblicati sulla pluridecennale rivista “L’Area di Broca” di cui è anche redattore, ormai, temo, prossima alla chiusura. Parlano di stranieri, pandemie, vita e morte, conflitti, futuri, rivoluzioni digitali e intelligenze artificiali.

Completa il volume la postfazione di Giuliano Ladolfi che sottolinea l’importanza nei versi di Mosi dell’eratoterapia: la poesia come cura, forse non solo dell’anima del poeta o del lettore ma anche del mondo intero di cui Mosi denuncia le fragilità, i pericoli. Ladolfi nota anche che il poeta “assegna la scrittura in versi alla dimensione umana e non a quella puramente intellettuale e linguistica.” “Se «la poesia prende il posto dei sogni», è fondamentale che a tutti sia concesso di sognare tramite quest’arte.”

IL CONCERTO DELLA VITA

Roberto Mosi è autore del GSF – Gruppo Scrittori Firenze, dall’intensa produzione letteraria che va dalla saggistica, alla narrativa alla poesia. Di lui ho già letto “I barbari”, “Navicello etrusco”, “Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone”, “Promethèus”. Ha inoltre partecipato con dei racconti alle antologie del GSF “Le immaginate”, “Le sconfinate”, “Gente di Dante” e “Accadeva in Firenze capitale”. Rimando ai link per approfondimenti.

Complice il lungo viaggio verso il Salone di Torino (rallentato dalla tragica alluvione romagnola), ho ora letto la sua silloge poetica “Concerto”, volumetto introdotto da una prefazione di Giuseppe Panella e chiuso da una Nota dell’autore.

Ne approfitto per citare Panella, ove scrive “Questa raccolta, Concerto, pone attenzione alle istanze della musica nella struttura sinfonica per movimenti e a quelle poetiche nello svolgersi delle evocazioni che generano immagini. Insieme le due istanze producono emozioni che si rincorrono nel flusso della coscienza, di frammenti di memoria.” Credo sia proprio questo lo spirito dell’opera: riallacciarsi alla musica per fare poesia.

Di nuovo ci insegna la prefazione: “I quattro movimenti del suo Concerto, allora, dedicati come sono alle quattro stagioni (seguendo una tradizione ben definita nella storia della musica), alternano ricostruzioni delle vicende di attualità a momenti di vita familiare, intercetta segni orribili di inciviltà persistente (il razzismo che i terribili fatti di Rosarno hanno mostrato come ancora prevalenti nella in-cultura della penisola) ma si apre a moti di speranza per il futuro delle generazioni che verranno.

Rimane quindi poco da aggiungere. Preferisco far parlare il poeta, citandone brevi stralci:

Populonia è muta / aggrappata alla costa, / ruscelli di melma / uccidono il mare”, dove leggo un’istanza ecologista ben radicata al territorio, approccio che mi è assai caro e vicino.

Bolle la pentola / il sogno d’Europa / ballano le fiamme / le streghe agitano il brodo.” Condivisibili desideri di unità continentale narrati con toni magici…

Ed ecco il mito che si fa strada: “Ulisse torna sempre a Itaca” o “Sono giunto alle terre / degli Etruschi. Le navi / passano il Bosforo, / bandiere al vento. / Inseguo Giasone / alla conquista del vello” o “Il filo di Arianna / nelle mani di Teseo, / legame d’amore”.

E per la magia della nascita, credo legata all’arrivo di un nuovo nipote, ci regala versi come “il colloquio / con le ombre diventi / sommesso. La vita / ha generato la vita.

Ed ecco che la musica si lega agli spazi geografici: “Batte leggero / il cuore dell’orchestra / sulla spiaggia del Golfo / di Baratti”.

In un paio di poesie Mosi gioca magicamente con i numeri:

Roberto Mosi

Marta è nel tempo / venti secondi per respirare / venti minuti per urlare / venti giorni per sognare / venti settimane per sorridere / venti mesi per giocare / venti anni per amare / Marta è il nostro tempo”, ma anche “Sessanta le olive / dell’olivo sul balcone / sessanta olive da spremere / per gli animali della fattoria / Sei cucchiai per le oche, / il cavallo e l’asinello. / Sei cucchiai per il gallo / e poi non ce n’è più”.

Gioca a volte, Mosi, con gli spazi della mente: “Labirinto miraggio / il nulla al centro / scomposizione del reale / seduzione dell’invisibile”.

Importanti anche le istanze sociali: “Rinasce Peretola / e la Casa del Popolo, / cultura e solidarietà.” o storiche “un anno sul Monte / da partigiano. Fummo/ circondati dai tedeschi. / Solo io mi salvai.” o “Il primo volo quello / di Zoroastro da Peretola” che si mescola quasi con la quotidianità dei voli dall’aeroporto fiorentino di Peretola.

Che cosa muove l’animo di questo poeta? Forse lo capiamo leggendo: “oggi c’è bisogno / di bellezza, di simboli / sereni del bello”, magari “per un nuovo Rinascimento”.

Cos’è per lui la poesia? “Un ammasso di argilla / da modellare a piene mani” perché poi “La poesia è pronta / per la polvere del giorno”, nata dalla materia concreta e pronta a calarsi nella vita e a esserne consumata.

LE DONNE IMMAGINARIE CI PARLANO

Il GSF – Gruppo Scrittori Firenze, dopo l’antologia “Le sconfinate” su donne che nella storia si sono mosse fuori dalle righe (e tante altre antologie), ripropone ora una nuova raccolta di racconti realizzati dai propri soci sotto forma di monologo (come nel precedente volume) con protagoniste donne immaginarie presenti in opere artistiche, letterarie, cinematografiche, teatrali, del mito, della canzone, della fiaba, della poesia, operistiche o di altre forme creative. Tra i generi si va dai classici, al mainstream, alla fantascienza, al giallo, all’horror, al fantastico.

Ne è nato un volume che riunisce cinquantadue personaggi femminili, descritti da cinquantadue autori in cinquantuno racconti, riportati nel volume in ordine alfabetico, ciascuno illustrato da un disegno di Enrico Guerrini, immagini tutte poi riunite nella copertina. Il volume, intitolato “Le immaginate” (Il Foglio, giugno 2023) è curato da Nicoletta Manetti e Cristina Gatti, con l’aiuto di un comitato di lettura di membri del GSF.

Le donne di questo libro spesso sono figure che escono dalle pagine e si confrontano con le opere da cui sono nate e talora con gli autori stessi che le hanno create, a volte per protestare per come sono state “immaginate”. A volte le troviamo descritte nello stesso periodo della vita in cui furono originariamente rappresentate, altre volte gli autori del GSF le immaginano a anni di distanza o, addirittura, proiettate nel nostro tempo dalle epoche in cui erano vissute, anche se molto lontane o addirittura in spazi fittizi o nell’aldilà.

Se ogni scrittore ha scelto donne diverse, alcuni autori sono stati scelti più volte come Alessandro Manzoni, Quentin Tarantino e, soprattutto, Walt Disney, Omero (considerando che molti personaggi del mito compaiono anche nelle sue opere). Mi ha, invece, stupito l’assenza di figure bibliche.

Alice disegnata da Enrico Guerrini
  • Si parte con Aida, in un monologo di Elisabetta Braschi che è quasi un saggio letterario, in cui la protagonista si confronta con l’opera verdiana e gli spettacoli che di questa sono stati allestiti.
  • Terza Agnoletti affronta Alatiel dal Decamerone di Boccaccio, la figlia del sultano di Babilonia, che si smarca dalle storie inventate su di lei, come quella dei nove uomini che l’avrebbero posseduta ma anche da quella sulla sua presunta verginità.
  • Carlo Menzinger di Preussenthal (chi è costui?) immagina l’Alice di Carroll ormai adulta, se non invecchiata, rinchiusa in un ospedale psichiatrico e ancora ossessionata dalle visioni del Paese delle Meraviglie e nel contempo alla ricerca di un Tempo Perduto dal sapore proustiano.
  • Nel monologo su Amelie di Gabriella Becherelli, la protagonista del film di Jan Pierre Jeunet, questa, alla ricerca di se stessa, a volte quasi confusa con l’attrice Audrey Tautou che l’ha interpretata, si racconta, osservando anche la realizzazione del film, in un’atmosfera surreale fra realtà e immaginazione: “Del resto vestire i panni di un altro è qualcosa che riguarda un po’ tutti nella vita: ci travestiamo, cambiamo atteggiamento, mettiamo una maschera, oppure immaginiamo di essere qualcun altro”. Racconto che sembra quasi ricollegarsi a quello su Alice con “la scatola di metallo: piccoli giocattoli, bigliettini, dettagli significativi che descrivono il mondo perduto dell’infanzia”, l’uomo di vetro che mi ricorda Humpty Dumpty, “il cinema” che “in fondo infrange il tempo”, “il tempo” che “sembra avere le ossa fragili come l’uomo di vetro”.
  • Paolo Dapporto, da bravo chimico, con la sua Andromaca ci fa notare il colossale salto culturale della guerra di Troia con il passaggio dalle armi di bronzo alle armi di ferro: “Vi rendete conto di quello che ci propone Glauco? Di combattere contro i nostri nemici in modo sleale, usando armi che loro non possiedono. Non è così che siamo stati educati e che educhiamo i nostri figli alle future battaglie”.
  • Renato Campinoti affronta il difficile amore e il suicidio di Anna Karenina, raffigurandola nell’aldilà, dove incontra Virginia Wolf e mentre viaggia tra Londra e Parigi, scoprendo la filantropia grazie a Angela Burdett-Cutts.
  • Francesco Fattorini da voce ad Artemide, la dea della caccia, mostrandola come una donna che per desiderio di libertà rifugge l’amore.

Silvia Alonso fa parlare Beatrix Kiddo, in arte Black Mamba, la protagonista del film di Quentin Tarantino “Kill Bill”, una serial killer affiliata a una banda di assassini che fanno capo al malavitoso ‘Bill’, qui alla ricerca di vendetta armata della sua katana.

  • Clarice Starling, la protagonista de “Il Silenzio degli innocenti” viene immaginata da Fausto Meoli ormai pensionata, a Firenze, ma sempre angosciata da Hannibal Lecter.
  • Un altro personaggio che ritroviamo invecchiato a pensare al proprio passato è la cattivissima Crudelia De Mon de “La carica dei 101”, che Maria Di Lisio vede ancora ossessionata dall’amica-nemica Anita. Una donna così fredda che per scaldarsi ha bisogno di pellicce e pepe!
  • Manna Parsì ha scelto per il suo monologo Daisy Buchanan de “Il grande Gatsby” per farne quasi il simbolo di tutte le donne senza coraggio, incapaci di amare, frivole e superficiali.
  • La Desdemona dell’Otello disegnata da Sylvia Zanotto, come altre donne dell’antologia, rivendica la propria personalità e l’importanza del proprio ruolo, mostrando un rapporto con l’altro sesso quanto mai contrastato, quasi fosse incapace di accettare il proprio essere donna, “Quell’io femmina che l’io maschio travolge”.
  • Despina, la cameriera frivola e insidiosa dell’opera di Mozart “Così fan tutte” è rinarrata da Brunetto Magaldi nel contempo come personaggio e come attrice, che si sente in dovere di specificare: “Io, nella realtà, sono ben diversa da quella frivola e amorale Despina”.
  • Giovanna Archimede sceglie Prassede, la vecchia bigotta che custodisce la virtù della Lucia dei “Promessi sposi”.
  • Oscilla un ragno sul suo filo instabile, Io son quel ragno penso e guardo Menelao, il mio sposo novello”. Comincia così il racconto sulla spartana Elena, la prima grande femme fatale della letteratura e non posso non pensare alla mia trilogia “Via da Sparta” (“Il sogno del ragno”, “Il regno del ragno” e “La figlia del ragno”). So che Miriam Ticci li ha letti e non posso allora non chiedermi quanto questo racconto ne sia stato influenzato, ma la risposta è negativa: si tratta di ben altra storia e di una donna che alla fine proclama: “La verità è che io il mio primo uomo ancora l’aspetto, quello che avrà cura del nostro reciproco amore e per il quale io farò follie, costi quel che costi!
  • Il tenente Ellen Ripley interpretato da Sigourney Weaver in “Alien” e vari altri film successivi, romanzi, fumetti e videogiochi è una donna che pur non essendo bella ha molto stimolato l’immaginario maschile. Adriano Muzzi le rivendica un’altra identità:

“Chiariamo subito alcuni punti:

Io sono bionda, e non mora con i capelli appiccicaticci come l’attrice.

Sono muscolosa, ma anche formosa, ossia ‘bona’. Non sembro un maschiaccio.

Non sono affatto coraggiosa: ho agito come ho agito solo perché sono stata costretta dalle circostanze. Col cavolo che mi offrivo volontaria per cacciare quel maledetto mostro.”

Anche il suo rapporto con l’alieno assume una nuova connotazione nel racconto.

  • Giusy Frisina scrive di Emma Bovary: “Sognavo l’Amore, ero innamorata di questa parola” le fa dire. Le fa anche constatare che “Flaubert voleva comunque farmi diventare un’eroina a tutti i costi e ci è riuscito perfettamente, al punto da farmi apparire, nello stesso tempo, peccatrice e santa”. Come in altri racconti di questo volume, la protagonista si confronta con il proprio autore e l’opera da cui è uscita, spostandosi dal piano dell’immaginario a quello del reale.
  • Nell’opera di Collodi la Fata Turchina, come il Grillo Parlante, ha un ruolo di guida per Pinocchio, un po’ materno, un po’ da docente. Nel suo monologo Antonella Cipriani la immagina alle prese con un ragazzo contemporaneo svogliato e troppo attratto dai videogiochi.
  • L’orchessa Fiona di Donatella Bellucci è alla ricerca di riscatto e di un diverso destino. Se la prende con il proprio autore e con tutti coloro che hanno descritto le donne nelle fiabe (ma non solo): “Delle povere inette, ingenue a rischio della vita, addormentate per anni, avvelenate, vessate oltre ogni limite, rinchiuse nelle torri, private della voce.
  • Indiana immagina una Ginevra che “sgattaiola fuori dal suo castello sulle ali di una carrozza, rinunciando al trono di Regina di Camelot. Raggiunge Versailles”.
  • Nicoletta Manetti ci parla del difficile rapporto di Giselda Materassi con le sorelle più grandi e il difficile nipote Remo un po’ scavezzacollo. Sorella un po’ Cassandra, un po’ “grillo parlante”.
  • Cristina Gatti scrive della Lullaby di “Colazione da Tiffany”, ovvero Holly Golightly che fu interpretata da Audrey Hepburn “una ragazza, reduce da un passato difficile, al tempo stesso dolce, caparbia, cinica e sognatrice che vive una vita altamente sregolata, fatta di mondanità, eccessi e di espedienti”, “inconsapevolmente sexy” divenuta “un’icona di eleganza”. Il personaggio si rapporta criticamente con il romanzo e il film che l’hanno rappresentata.
  • Chiara Sardelli dà voce a una delle pochissime figure femminili delle opere su Sherlock Holmes, Irene Adler, che compare in un solo racconto. L’immagina viaggiatrice nel tempo, assoldata da Churchill come spia contro il nazismo, donna vittoriana che mal si adatta ai tempi “moderni”.
  • Gianni Paxia ci parla della Jeanne di Maupassant che ne descrive “una vita che si rivela piena di delusioni da parte degli esseri umani, e, causa di maggiore sofferenza, di delusioni che arrivano da persone a lei vicine, anche dai genitori.”, ragazza cresciuta in convento, che arriva impreparata al matrimonio e alla prima notte di nozze, alla ricerca di amore, ma sentendosi sempre tradita da tutti, persino dal figlio.
  • Eleonora Falchi si cimenta con un classico della letteratura per ragazze, dando voce a Jo March di “Piccole donne” e facendola confrontare con i tempi moderni.
  • Gabriele Antonacci dà voce a una ninfa, Lena, che allevò il Dio Bacco come raffigurata nei versi di Michele di Lando nel XIV secolo, trasformandola in una testimone della storia.
  • La Margherita che fa parlare Gabriella Tozzetti esce da uno dei più intriganti romanzi della letteratura, “Il Maestro e Margherita” di Bulgàkov, colei che, innamorata del Maestro, presiede al ballo di Satana.
  • Claudia Piccini immagina che Mary Poppins, per la sua “voglia di donarsi ai più piccoli” sia trasportata “in un bellissimo paese dell’Italia, per prendersi cura di una persona speciale”. “Anna è sola, i suoi genitori l’hanno abbandonata appena nata, in una cesta di paglia, sulla spiaggia in riva al mare”. La piccola, che nel 2021 vive a Livorno, è affetta dalla Sindrome di Down.
  • La Medea di Roberto Riviello è moderna e contemporanea: “Cos’altro potrebbe fare, oggi, questa folle Medea se non: Rimuovere, Rimuovere, Rimuovere.” Come la mia Alice e altre “immaginate” la ritroviamo in una “Casa di cura ma lo so bene che è un manicomio”.
  • La Medusa di Cristina Scrigna più che un mostro mitologico è una donna tormentata.
  • La Minnie di Giovanna Checchi è la non più eterna fidanzata di Topolino ma una donna-topa ormai matura, sposata e alquanto stanca del proprio rapporto con il troppo perfetto Mickey Mouse.
  • Devo confessare di non conoscere Modesty Blaise cui dà voce Raffaele Masiero Salvatori, dunque fatico a comprendere quanto l’autore si discosti dal personaggio originario, “un’agente dei servizi segreti inglesi dopo un passato criminale”.
  • Anche troppo conosciuta, invece, la Monaca di Monza che Alba Gaetana Avarello dipinge come donna innamorata di un amore appassionato e violento.
  • Nanà, l’Imperatrice-Sfinge è fra le opere più imponenti del Giardino dei Tarocchi di Capalbio. Nilde Casale sceglie dunque non la protagonista di un romanzo, un film o un fumetto ma una statua. Una statua-casa. “Una Sfinge. Enorme e fluida, dai seni giganteschi, con due oblò al posto dei capezzoli. I capelli mi ricoprono la schiena e il sedere, ci puoi salire e camminare come su una terrazza.
  • Rosalba Nola anima Nora della “Casa di bambola” di Ibsen facendole incontrare in sogno il suo stesso creatore, che la vuole avvinta agli schemi da lui ideati: “Con voce flebile si disse lieto che avessi spezzato le catene del mio matrimonio. Ma poi si alzò e con rinnovato vigore mi promise che il miracolo mancato – di gloria, d’onore! – si sarebbe finalmente realizzato! Ma ancora una volta dovevo essere il personaggio obbediente che la sua penna aveva creato, continuare a fare sacrifici e senza mai un lamento”.
  • Vi ricordate di Pippilotta Pesanella Tapparella Succiamenta? Forse no. Ma certo ricordate il suo soprannome Pippi Calzelunghe. Di lei scrive Marco Tempestini, immaginandola adulta, seppur sempre ribelle, pronta ad aiutare in ogni modo i bambini poveri, persino regalando parte delle sue mitiche monete d’oro.
  • “Il nome della rosa” di Umberto Eco non è certo un romanzo erotico ma contiene al suo interno una delle scene che ricordo, anche nella versione cinematografica, come tra le più sensuali della letteratura italiana: l’incontro tra il giovane novizio e la bella mendicante, la Ragazza Senza Nome di cui ci parla Andrea Zavagli.
  • Roberto Mosi sceglie invece Melina, la protagonista di una fiaba della Val d’Adige, su una giovane contadina che si nasconde in una cesta di mele e sposa un principe per aver spezzato l’incantesimo della strega Baldassarra che lo aveva trasformato in un coleottero.
  • Rose Da Silva, una madre amorevole che partirà alla disperata ricerca della sua bambina Sharon scomparsa nei tetri anfratti di Silent Hillè la figura scelta da Matteo Alulli per il suo monologo in cui affronta “gli incubi più cruenti e deformi che si trascinano nella nebbia cittadina, la cui comunità nasconde una macabra e diabolica verità”. La storia è occasione per riflessioni sulla morale.
  • Anche Fabrizio De Sanctis sceglie un horror per il suo racconto, anche se con l’ironia di Quentin Tarantino: “Dal tramonto all’alba”. La sua protagonista è Santanico Pandemonium, la “regina” dei vampiri che infestano il From Dusk Till Dawn e ci parla del potenziale erotico del vampirismo.
  • Caterina Perrone non poteva che scegliere l’eroina de “Le mille e una notte”, Sharazàd, che con il suo erotismo e “con le sue storie farà dimenticare al re Shahriyàr il suo desiderio di vendetta contro la moglie che lo ha tradito”.
  • Laura Vignali nel descrivere la signora Frola, la fa uscire dalle pagine del libro e confrontarsi, pirandellianamente (visto l’autore) con il suo pubblico.
  • Miriam Cividalli Canarutto decide di dar voce a un personaggio secondario dei romanzi di Simenon, la moglie del commissario Maigret.
  • Carlo Giannone sceglie la protagonista di una poesia, La Spigolatrice di Sapri, rappresentata anche in alcune statue in cui la donna non si riconosce.
  • Francesca Tofanari e Oliva Cordella trasportano Teresa Raquin nel 2022 è le fanno rescindere il “contratto” che la lega con l’autore Emile Zola, ma se sei un personaggio è difficile uscire dai propri panni.
  • Gli dei sono immortali, dunque nulla di strano che Andrea Carraresi faccia vivere Teti ai nostri giorni, per rimpiangere la futilità della propria bellezza che non le è stata poi di grande aiuto e per lamentarsi della morte del figlio Achille.
  • Il volume dovrebbe contenere dei monologhi, ma spesso all’interno di questi compaiono dei dialoghi. Se il monologo è fatto da due donne (che non parlano in coro o che finiscono una le frasi dell’altra) possiamo ancora definirlo tale? Saimo Tedino sceglie di far parlare Thelma e Louise, che si raccontano le loro difficili vicende e si interrogano su quale regista potrebbe mai rappresentare al cinema la loro storia o quali attrici interpretarle meglio.
  • La Valentina di Crepax nelle pagine di Andrea Improta rimpiange l’infanzia mai avuta (essendo stata disegnata già adulta) e la mancanza di un vero amore nella propria vita, sebbene simbolo di bellezza.
  • Uno degli autori più rilevanti per la successiva letteratura fantastica è Wells e il suo “La macchina del tempo” è una delle opere più significative e ricca di influenze sulla scrittura successiva. Un personaggio di quest’opera ha però avuto sinora poco rilievo: Weena. Una fragile fanciulla degli eloi, una delle due razze evolutesi dall’umanità. Massimo Acciai Baggiani coglie l’occasione di descrivere il suo rapporto con il protagonista giunto dal passato per mostrare le difficoltà delle differenze culturali anche in un rapporto amoroso, in un caso come questo caratterizzato da enorme distanza tra i due modelli sociali.

Con questo racconto si conclude questa enciclopedica carrellata di protagoniste e di monologhi, da leggersi soprattutto come invito alla lettura, alla conoscenza, alla visione e all’approfondimento delle opere citate, testimonianza dello sterminato patrimonio culturale in cui ci muoviamo, dove il mito, la fiaba, il fumetto, il cinema, la TV, la scultura, la poesia, l’opera, la canzone, la narrativa di ogni genere possono in pari misura generare nuovi stimoli culturali, nuove percezioni, nuove storie.

Il volume sarà presentato il 12 Giugno 2023 alle ore 16 presso l’Auditorium del Consiglio Regionale della Toscana in via Cavour 14 (Firenze).

Video:

12/06/2023 – Presentazione presso l’Auditorium del Consiglio Regionale Toscano

Recensioni:

Ada Ascari sul blog del GSF

12/06/2023 – Renato Campinoti, Cristina Gatti, Nicoletta Manetti, Enrico Guerrini e Carlo Menzinger

I BARBARI A FIRENZE

L’impero romano stava per cadere. Una delle ultime fortunate battaglie si svolse a Florentia, la città voluta cinque secoli prima da Giulio Cesare per contrastare i catilinari di Fiesole.

Dello scontro tra le orde barbare (Goti ma anche molti altri popoli nordici quali Vandali, Suebi, Burgundi, Vendi ed Eruli) del 405 d.C. alle porte della sua Firenze ci parla il grande affabulatore fiorentino Roberto Mosi nel suo “Barbari”, un romanzo veloce e snello, che con i toni della narrativa non perde occasione per istruirci e aggiornarci su quegli eventi ormai lontani quasi fosse un saggio storico, tale è la ricchezza dei particolari e la profondità delle analisi effettuate dall’autore. Il sottotitolo suona “Dalle steppe a Florentia alla porta Contra Aquilonem”.

La brevità dei capitoli scandisce il ritmo serrato della breve storia. Alle vicende del protagonista Rufo si mescolano quelle delle figure reali, dal vescovo fiorentino Zanobi, al comandante romano Stilicone, al sovrano dei Goti Radagaiso (Radegast I, forse, in realtà un Obodrita slavo).

Si legge dei successi romani con una certa malinconia, immaginando l’inutilità dei successi di Stilicone di fronte a un destino che pare ormai aver segnato le sorti dell’impero più vasto che l’Europa avesse mai conosciuto. Nel 476  d.C. il generale sciro Odoacre avrebbe deposto l’ultimo imperatore, Romolo Augusto, due nomi fondanti della storia romana, uniti a segnarne la fine.

Roberto Mosi fa parte del GSF – Gruppo Scrittori Firenze, per il quale ha partecipato alle antologie “Le sconfinate”, “Gente di Dante” e “Accadeva in Firenze Capitale”.

Di Mosi ho anche letto “Navicello etrusco”, “Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone” e “Promethèus”.

Roberto Mosi

RAGAZZE “CATTIVE”

Periodo intenso di pubblicazioni questo per il GSF Gruppo Scrittori Firenze che dopo aver pubblicato due antologie nel 2021, “Gente di Dante” (Tabula Fati) sul poeta fiorentino e “Accadeva in Firenze Capitale” (Carmignani), esce ora con la prima antologia per il 2022 e già annuncia la prossima. Si tratta del volume curato da Nicoletta ManettiLe sconfinate” (Carmignani) che riunisce i monologhi di 14 autori dell’associazione che danno voce a 15 donne “fuori dai confini”, contro-corrente, persino negative e violente.

Insomma non la solita antologia sulle donne e a favore delle donne, ma un volume dal quale emerge tutta la malvagità femminile, pur senza una critica verso questo sesso, che forse qui raggiunge la vera parità con i maschi: nella cattiveria, nella perversione, nella lussuria, nella violenza. “Non-eroine per eccellenza”. “A volte si tratta di donne perfide, crudeli, mostruose” si legge nella “Valutazione editoriale Premio Città di Come” che fa da prefazione al volume.

Sono soprattutto autrici ad aver aderito, ma non solo. Il primo racconto, per esempio, è di Roberto Mosi e dà voce ad Antigone che, come attraverso una sorta di macchina del tempo, parla a un gruppo di persone di oggi che sta allestendo a Pisa un’opera teatrale sull’opera sofoclea a lei dedicata. È proprio lei a parlare ma suona strano sentirle dire di precedenti contatti in videoconferenza! Una Pisa che ci narra, potrebbe avere origini, più mitiche che reali, proprio nella sua Tebe. Donna ribelle, Antigone, condannata a morire d’inedia, sepolta viva, come il Conte Ugolino, a Pisa, affinché “le nostre mani non si macchino del sangue di questa donna”. Come ai tempi dell’Inquisizione si bruciava gli eretici e le streghe per non versare il loro sangue. La condanna di Antigone è occasione per una riflessione politica: “fino a che punto lo Stato con le sue leggi più o meno arbitrarie può forzare a compiere atti aberranti”?

E poi eccoci a Cleopatra, la lussuriosa regina d’Egitto. Lussuriosa? “Amore? No, passione piuttosto, piacere senza limiti. Ossessione del piacere. Perché chiamarla lussuria? Suona spregevole?” afferma la sovrana per mano di Caterina Perrone, che ci mostra poi, con il suo punto di vista, i suoi rapporti con i grandi romani Cesare, Antonio e Ottaviano. Quest’ultimo non disposto a piegarsi al suo fascino di donna non troppo bella ma affascinante e sempre provocante, nelle movenze e negli abiti discinti.

Sceglie una serial killer Fabrizio De Sanctis, Ersébet Bathory, creatrice di macchine di tortura. Versione femminile di Barbablù (il Maresciallo De Rais di cui scrissi nel mio “Giovanna e l’angelo”), finché scelse le sue vittime tra il popolo rimase impunita. Sceglierle tra la piccola nobiltà segna la sua fine.

La vediamo ormai catturata: “Parlo al nulla. Il Nulla nel quale credete di avermi rinchiusa da… Da quanto? Non so. Non m’importa”.

Ecco poi Cristina Gatti, presidente dell’associazione, che ancora una volta si cimenta con la sua amata Mary Shelley, che ha portato anche a teatro. Una donna che è non solo la creatrice del celebre mostro, la creatura realizzata da Victor Frankestein mettendo assieme parti di cadaveri e dandogli vita, opera iniziatrice della fantascienza e nel contempo dell’horror e del romanzo gotico. Una donna che è stata anche poetessa, moglie affezionata e madre sfortunata, orbata dei suoi figli. La sua immagine più intima è quella che ci regale l’autrice.

Nel loro sconfinare queste donne non sempre diventano simboli del male, a volte il loro desiderio di andare contro le regole e il comune sentire è volto a un profondo desiderio di fare il bene, di salvare e aiutare l’umanità, non limitarsi a essere “la donna di un solo uomo. Troppo restrittivo, troppo confinato. Il mio destino è occuparmi dell’umanità intera, e posso farlo attraverso la cura e l’assistenza” fa dire l’infermiera Antonella Cipriani alla sua infermiera Florence Nightingale (1820-1910) in questo racconto ambientato durante un’altra Guerra di Crimea. Non mancano anche qui i toni cupi, un po’ pulp, anche se solo per negazione: “Adesso il fetore di escrementi, sangue rappreso, sudore, carne putrida, fogne maleodoranti è soltanto un lontano ricordo” perché “la mortalità malaria e colera è notevolmente calata”. Altri tempi, altri mali, stessi mali. Stessi anni in cui la mia bisnonna Teresita Ruata esercitava la medicina. Professione rara e difficile per una donna, che fu poi costretta ad abbandonare.

La donna scelta da Andrea Zavagli oggi l’avremmo chiamata hostess. All’epoca fu coniato un nome apposta per lei e altre come lei: lorette. Aveva inventato un modo nuovo di dare piacere agli uomini, accompagnandoli nella vita e non solo a letto. Si chiamava Rose Alphonsine Plessis ma si faceva chiamare Marie Duplessis. Di lei e della sua breve vita, stroncata ad appena ventitré anni (quante giovani vite stroncate troppo presto in questo volume, quasi un destino!), scriverà uno dei suoi amanti, Alexandre Dumas ne “La signora delle Camelie” ma anche il librettista de “La traviata” di Giuseppe Verdi.

Camille Claudel fu la modella, l’allieva e l’amante di Auguste Rodin e questo suo rapporto con il grande artista ha un po’ oscurato la sua arte. Nel racconto di Marco Tempestini la troviamo in manicomio che sogna di vivere su Marte, un pianeta dove trova finalmente la sua dimensione e tutti ne riconoscono l’autonoma grandezza.

Non mi chiamo Suzanne. Da piccola a Montmartre, ero Marie Clementine, la figlia bastarda della lavandaia” così si presenta Suzanne Valadon nel racconto della curatrice Nicoletta Manetti. Un’artista più nota per le sue relazioni che per la sua arte, madre di Maurice Utrillo, in rapporti con pittori come Degas, Renoir e Toulouse-Lautrec. Quest’ultimo le diede il nome biblico della donna spiata dai vecchioni, per la sua attività di modella.

Nel racconto troviamo una donna alla ricerca dell’arte e dell’amore “era dell’amore che in realtà ero innamorata. Comunque, in ognuno vedevo una possibile via d’uscita. Ero bugiarda, infedele, ma a mio modo ero vera. Facevo ciò che mi andava di fare, solo quello. Ero io a scegliere”.

Gabriella Tozzetti ci parla poi di Marina Cvetaeva e del suo innamoramento per Sonja Parnok. Anche in questo racconto ritroviamo la Crimea: suggestioni di questi tempi di guerra? Eppure, i racconti dovrebbero essere precedenti.

Mi ha colpito qui un’affermazione messa in bocca al personaggio “per scrivere avevo bisogno di entusiasmarmi, provare emozioni, innamorarmi più e più volte”. Nel leggere questo volume mi sono, infatti, chiesto quale sia la differenza di approccio al tema dell’antologia tra gli autori e le autrici e più in generale che cosa distingua lo scrivere maschile da quello femminile. Forse la risposta è proprio in questo bisogno tutto femminile. Credo che un uomo per scrivere non abbia bisogno tanto di emozioni quanto di idee, di ambientazioni, di contesti. Le emozioni ci sono, ovviamente, ma vengono dopo. O forse no. Merita una riflessione.

Ho sempre scritto per tutta la mia vita perché traboccavo di sentimenti, ma adesso non mi sono rimaste che l’umiliazione, la solitudine, la paura” scrive Gabriella Tozzetti. E io? Io ho sempre scritto perché trabocco di idee, di trame, di ambientazioni nuove, di personaggi. Umiliazione, solitudine e paura sarebbero semmai fonti d’ispirazione. Sta qui la differenza?

Arriviamo così a un racconto maschile, quello di Nicola Ronchi sulla saponificatrice di Correggio Leonarda Cianciulli. Non sarà dunque un caso se un uomo, come alcuni racconti prima Fabrizio De Sanctis, non sceglie una poetessa o una pittrice ma un’assassina? Non che questo racconto sia privo di emozioni e sentimenti, ma prevale la trama noir di questa donna malata, di cui delinea la psicologia sin dall’infanzia: “mia madre diceva che ero stata uno sbaglio”. Una donna la cui prima ossessione era: “dovevo uccidermi, dunque, e dovevo farlo in modo spettacolare, comico”.

Molti di questi racconti sono narrazioni delle protagoniste in fin di vita. Quasi che il loro essere sconfinate dovesse trovare un limite almeno nella morte.

Ecco poi alcune profezie infauste a incupire la narrazione: “avrai figliolanza, ma tutti i figli tuoi moriranno”. Sarà proprio la paura della morte del figlio a scatenare la furia omicida di Leonarda Cianciulli, dopo diciassette gravidanze con solo 4 figli sopravvissuti. Sono cose che ti provano. “Vedo nella tua mano destra il carcere e nella sinistra il manicomio”.

Ecco poi il racconto di Andrea Zurlo (non fatevi ingannare dal nome, si tratta di un’autrice argentina, non di un uomo). Quasi a voler contraddire quanto scrivevo sopra, la Zurlo sceglie, in modo forse un po’ maschile, un’eroina, Tina Modotti. Eroina? Sì, ma anche fotografa. Ecco! Personaggio che ha combattuto in Messico e Spagna. Donna determinata: “Domandati sempre chi sei e da dove vieni e dove vuoi andare. Devi decidere tu chi vuoi essere e non piegarti a diventare quello che gli altri pretendono da te, soprattutto se sei una donna” proclama all’inizio del racconto.

Gabriella Becherelli prende una sorta di macchina del tempo, un po’ come ha fatto Roberto Mosi nel primo racconto e fa dialogare Frida Kahlo e Artemisia Gentileschi in due monologhi intrecciati.

Io sono Artemisia,” “unica donna del mio tempo a essere una pittrice. Sono venuta per presentarvi Frida, l’altra donna che ha fatto della sua vita un autoritratto”. Monologhi alternati da versi.

Sylvia Zanotto parla della scrittrice Violette Leduc e del suo amore saffico non corrisposto per Simone de Beauvoir.

L’iraniana Manna Parsì sceglie l’autrice della sua terra Forough Farrokhzad, morta giovanissima in un incidente stradale. L’autrice ci parla dei rapporti familiari e con Dio: “Mio padre mi ripeteva che Dio era buono e nessuno era come lui. Ma io, peccatrice, sapevo bene che era come tutti gli altri. Anche lui non perdonava.”.

Chiude la raccolta il più giovane degli autori di questa raccolta, Saimo Tedino (che ha anche realizzato il bel trailer dell’antologia), con un racconto che appare il più moderno nei toni oltre che nella protagonista, la cantante Amy Whinehouse che dice di sé “Potevo essere felice e invece mi sono impegnata a essere triste.” Troppo alcol e troppe droghe. “Amy, tu ami chi non ti vuole, tu ami chi non sa amarti” le ripete ossessivo l’amico Reg, che le dice anche “Io non voglio essere complice della tua morte.

Alla fine, però, vediamo anche lei, troppo giovane, in fin di vita: “Sono morta guardando me stessa. Una pesciolina in un acquario di vodka e vergogna.”

Si chiude così questa rassegna di anti-eroine, ma l’avventura non finisce. Il Gruppo Scrittori Firenze, sta già programmando un altro volume sulle donne, non più donne della storia, ma donne nate dalla letteratura, dal cinema, dal fumetto, all’immaginario. Non so come si chiamerà il nuovo volume ma dentro di me lo chiamo già “Le immaginarie”.

Intanto, si parlerà ancora de “Le sconfinate” lunedì 22 marzo 2022 alle 17,30 alla BibiloteCanova, via Chiusi 4/3 A (Firenze). È richiesta la prenotazione.

UN CUORE ETRUSCO TRA LE ONDE DELLA STORIA

Sovente i popoli restano legati alle loro origini storiche per quanto remote. Questo vale di certo anche

Navicello etrusco - Roberto Mosi Libro - Libraccio.it

per i Toscani, che ricordano con nostalgia i momenti di maggior gloria della propria storia da, andando a ritroso, gli anni in cui Firenze fu capitale del regno d’Italia[1], ai tempi del Granducato di Toscana per arrivare sino ai fasti del popolo etrusco. Le origini etrusche sono anzi quelle di cui vanno più fieri, se non altro perché non rappresentano un fugace momento di gloria passeggera ma appunto l’origine della propria cultura.

Il poeta Roberto Mosi sembra ben conoscere e immedesimarsi in questa passione per i tempi precedenti la dominazione romana.

Ciò traspare, in particolare, nel volume che mi è or ora capito di finir di leggere, “Navicello etrusco”, titolo che prosegue quasi nel sottotitolo “per il mare di Piombino” (Edizioni Il Foglio, 2018).

Che etruschi fossero alcuni dei primi re di Roma è cosa se non certa, almeno probabile. Che anche etrusco fosse quel Dardano che fondò Troia, dalla quale partì poi Enea per una sorta di viaggio di ritorno verso la nostra penisola e per porre le basi di Roma forse è solo leggenda.

Per i Greci, per esempio, questo figlio di Zeus ed Elettra nacque in Arcadia e da lì si spostò in Dardania, poi ridenominata Teucria per suo nipote Troo, terra dove sorse poi Troia.

Fu piuttosto Virgilio a narrare che Dardano venisse dall’etrusca Corythus ed è lì che il poeta latino fa tornare Enea, alla ricerca della terra degli avi.

Questa versione sposa il fiorentino Mosi quando scrive “Dardano partì dall’Etruria / per fondare la città di Troia”, ma questa è per lui occasione per suggerirci con levità l’immagine di moderni viaggi per la medesima rotta, quelli dei “migranti in fuga” di oggi.

E già, perché Mosi, con uno sguardo alla storia antica, tiene però i piedi saldi nella quotidianità e non la dimentica mai.

La sua Toscana è una “terra che ha smesso / le vesti proletarie per i vestiti / raffinati della cultura”, che, però, mai può dimenticare le proprie basi contadine. Mosi alla cultura del suo popolo è sempre attento, così come ai miti antichi, come ha mostrato anche nel suo “Prometheus”, che ci parla, per brevi fotografie poetiche, dei tanti muri di ogni tempo.

Come può far intuire il titolo, “Navicello etrusco” non ci canta solo della terra ma anche e soprattutto del mare. Quello tra Populonia e Piombino in particolare, la rotta del ferro degli antichi avi.

E questa raccolta di versi è un viaggio attraverso queste acque ma anche attraverso il mare della Storia.

Il volume è diviso in due parti, l’una dedicata a Turan, la dea etrusca dell’amore, che come Narciso ama specchiarsi, l’altra richiama l’immagine della statuetta votiva denominata da D’Annunzio “L’Ombra della Sera” (facile per il lettore non comprenderne il riferimento, che pare solo una poetica descrizione dello scorrere del tempo). Due parti ma un unico viaggio nel tempo che ci porta ad assistere, per velocissimi accenni, piccoli flash fotografici, alle invasioni barbariche, all’attraversata del Mediterraneo di Rutilio Namaziano, alle invasioni dei Goti e San Cerbone, alla caccia alle streghe, a Napoleone all’Elba con Maria Walewska[2], alla Seconda Guerra Mondiale con la batteria di Punta Falcone, ai disoccupati dell’era industriale, ai migranti di oggi.

Scorgo poi in questi versi il passo dello stesso Roberto Mosi sulle spiagge del litorale toscano, Baratti, Populonia, Vada.

Le onde mormorano alla spiaggia/ bianca, la luna invade / il silenzio della camera”.

Mi lascio andare alle onde, il fresco / dell’acqua accarezza il mio nuoto leggero”.

Eccolo mentre osserva “Marta e Anna” che “sono / padrone della spiaggia. // Marta compone un tappeto / di ciottoli”. Eccolo mentre affronta le fatiche dei vacanzieri, “il serpente di macchine. / Una striscia ininterrotta / di lamiere scintillanti”. Eccolo che “Dalla terrazza dell’albergo” respira “l’aria del mare”.

Eccolo attento osservatore della natura, delle “Zone libere / zone che sfuggono al nostro controllo, / meritano rispetto per la loro verginità / per la loro disposizione naturale all’indecisione. / La diversità / trova rifugio su il ciglio della strada”.


[1] Mosi ha partecipato con un proprio racconto sulle case di ferro all’antologia “Accadeva in Firenze Capitale” del GSF – Gruppo Scrittori Firenze, curata da Sergio Calamandrei e Cristina Gatti e a “Gente di Dante” sempre del GSF, curata da Carlo Menzinger e Caterina Perrone, con un racconto su Corso Donati.

[2] Su Elisa Baciocchi, la sorella dell’imperatore legata alla Toscana, Mosi ha scritto il saggio “Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone”.

I SEGNI DURATURI DELL’EFFIMERO PASSAGGIO DI NAPOLEONE

Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone. Storie francesi da Piombino a  Parigi : Mosi, Roberto: Amazon.it: Libri

Il saggio “Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone”, sottotitolo “Storie francesi da Piombino a Parigi” di Roberto Mosi è una vivida guida dei luoghi napoleonici in Toscana, da Piombino, all’Elba, a Lucca, a Massa e a Carrara e soprattutto di quelli dello Stato di Piombino affidato alla sorella Elisa e al marito e poi del Principato di Lucca, retto dalla coppia.

Furono pochi gli anni dell’ascesa e caduta di Napoleone, una decina quelli del Principato di Lucca della sorella, ma anni importanti per il rinnovamento della regione.

L’Imperatore dava grande importanza alle città, impegnandosi a rinnovarle, ma anche alle vie di comunicazione, che, sull’esempio dell’Impero Romano, sono alla base del consolidamento di un impero.

Anche l’arte subì un notevole impulso, divenendo terreno fertile per artisti come David e Canova.

Importanti le risorse minerarie della Toscana, dai marmi di Carrrara al Ferro di Piombino e dell’Elba, tanto determinante in tempo di guerra.

Il saggio ci conduce a scoprire la vita del tempo, la moda, il modo di mangiare, le feste, la quotidianità di questa famiglia assurta da una piccola nobiltà a un impero di portata europea. Difficili, però, sono le veloci ascese, come insegna non solo la storia dell’imperatore corso (ma di origini toscane, essendo la famiglia di San Miniato), ma anche quella di Alessandro Magno, Carlo Magno o persino, nella sua negatività, Adolf Hitler. Gli imperi possono nascere in breve ma più in fretta crescono, più in fretta crollano, privi della connessione con i poteri preesistenti, che primo o poi si riorganizzano. Eppure, anche queste meteore sanno lasciare segni duraturi nella memoria del mondo.

Questo volume di Mosi, ci aiuta a ricostruire quelli del passaggio toscano di questo grande e della sua famiglia.

Roberto Mosi davanti al Museo Casa di Dante il 13 Settembre 2021 per le celebrazioni dei 700 anni dalla morte dell’Alighieri.

LA GENTE DI DANTE È ARRIVATA

Non è stata breve la strada che ci ha condotto a vedere la pubblicazione dell’antologia del GSF Gruppo Scrittori FirenzeGente di Dante” (Tabula Fati, Settembre 2021).

La proposta fu di Caterina Perrone. Poteva il Gruppo Scrittori Firenze rimanere in silenzio nel settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri, il grande esule fiorentino? Si chiedeva. D’altra parte, noi del Comitato Direttivo dell’associazione culturale ci si domandava se potessero gli scrittori del GSF azzardarsi a far sentire la propria voce nel ricordo del sommo poeta.

È prevalsa, però, la voglia di fare e di esserci in quest’importante ricorrenza letteraria che tanto strettamente riguarda la città che rappresentiamo.

Mi è, quindi, stato chiesto di affiancare Caterina Perrone nella cura dell’antologia. Cosa che ho fatto non senza riluttanza e perplessità. Sono, è vero, autore che spesso si diletta a giocare con la storia, ma non sono uno storico, né tanto meno un dantista. Sarebbe stato un gioco più grande di noi?

Abbiamo però osato, pensando che la gente di Dante non è solo quella della Firenze del XIII e XIV secolo o che compare nelle opere del poeta, siamo anche noi. Gente che si è fatta trascinare nella lettura, nello studio, a riflettere, a rivivere quel mondo e quelle atmosfere. Ci siamo appassionati e riconosciuti. È stata una bella avventura. Non credevamo che questa idea trovasse tanti seguaci. Quando ci siamo voltati la gente era ormai una piccola folla. Ne è uscita una raccolta corposa. Il tema era difficile. Ci si poteva impaurire per un confronto con una figura tanto importante e non pensavamo di poter contare su una risposta così sentita da parte di tanti autori che hanno voluto aderire, soci vecchi e nuovi della nostra associazione. Sorprende sempre come partendo da uno spunto comune possano uscir fuori tanta diversità, tanta inventiva, tanta creatività. Ed ecco che le stesse vicende e gli stessi personaggi, pur nella correttezza dei dati storici, paiono diversi, perché differenti siamo noi che guardiamo e in loro forse riconosciamo ed esprimiamo un po’ di noi stessi. Felice mi è parsa la nostra scelta di raccontare le persone e i personaggi di Dante e della sua opera, piuttosto che confrontarci con questa, con i suoi versi e i suoi pensieri, impresa più complessa che riserviamo ad altri.

Quest’antologia del GSF – Gruppo Scrittori Firenze vuole essere dunque un tributo al grande poeta toscano attraverso racconti che ne illustrano lo spirito, la vita e quella dei personaggi del suo tempo o delle sue opere, con toni che vanno dallo storico, all’ucronia, alla creazione fantastica, come è giusto per ricordare un autore che non è stato solo il più grande padre della lingua italiana e un poeta cardine della nostra letteratura, ma anche uno dei massimi autori di genere fantastico nazionali, con la creazione di un intero universo ultraterreno, cosa che me lo fa sentire più vicino del Dante Alighieri studiato a scuola. Non ci si sorprenda quindi nel trovare in quest’antologia, accanto alla narrazione strettamente storica, viaggi nel tempo o visioni oniriche, perché l’omaggio alla vena immaginifica di Dante è anche in questo.

Il GSF – Gruppo Scrittori Firenze, associazione impegnata su svariati fronti culturali, dai premi letterari e artistici, agli incontri letterari e turistici, ai gruppi di lettura, ai corsi di scrittura creativa, ai reading, ai momenti di scrittura a tema, con questo volume, edito dal Gruppo Editoriale Tabula Fati, torna a distanza di pochi mesi dall’uscita di Accadeva in Firenze Capitale (Carmignani Editrice, 2021) a raccontare la propria città in un volume di narrativa a sfondo storico, per la quale  i suoi autori stanno dimostrando una particolare sensibilità e un’ammirevole vena creativa, attraendo a sé ogni anno nuove penne.

La partecipazione a Gente di Dante è avvenuta tramite l’adesione a un bando pubblicato sul sito e sul blog dell’associazione all’inizio del 2021 e poi diffuso sulle principali piattaforme social, lasciando la possibilità di partecipare a chiunque fosse socio del GSF o volesse diventarlo. Come curatori, nella nostra opera di selezione ed editing, abbiamo avuto l’ausilio di un comitato editoriale composto, oltre che da noi, dalla presidente del GSF Cristina Gatti, dai soci Massimo Acciai Baggiani, Renato Campinoti, Barbara Carraresi e Chiara Sardelli. Come consulenti storici siamo stati assistiti dai professori Alessandro Ferrini e Massimo Seriacopi.

Il volume è corredato da un’appendice a cura dell’Unione Fiorentina Museo Casa di Dante, cortesemente messoci a disposizione da Tullia Carlino Hautmann, responsabile del Coordinamento Museo ed Eventi e della Segreteria di Presidenza Associazione.

L’immagine di copertina è stata realizzata dalla socia Daniela Corsini.

Un sentito ringraziamento a tutti loro, agli autori e all’editore Marco Solfanelli di Tabula Fati, che hanno reso possibile la realizzazione di quest’antologia.

Siamo lieti e orgogliosi, dunque, di poter aggiungere questa nuova opera alle precedenti antologie dell’associazione.

Copertina provvisoria

Come si diceva, il progetto “Gente di Dante” ha avuto un considerevole successo, portando alla ricezione di un gran numero di testi, tutti di apprezzabile qualità, che coprono una ricca gamma di chiavi narrative, che potranno soddisfare gli amanti di generi letterari diversi, e presentano un’interessante e a volte inconsueta panoramica sul tempo di Dante Alighieri e sui personaggi delle sue opere. Così numerosi da costringerci a escluderne vari, pur pregevoli.

Per esprimere le due diverse anime che compongono quest’antologia, l’abbiamo divisa in due parti:

La suggestione della storia

L’incanto della fantasia.

Ci siamo molto appassionati nel leggere i testi che pervenivano man mano, stupendoci per la loro varietà e originalità. Pensiamo meritino di essere lette entrambe le parti, in quanto l’una complementare all’altra, nella pur diversa visione che offrono.

Il volume si apre con le prefazioni del dantista Massimo Seriacopi e del giornalista Paolo Ciampi, seguite dall’introduzione di noi curatori (che ho in parte ripreso in queste righe).

Si passa quindi ai 36 racconti, metà nella prima e metà nella seconda parte, in entrambe disposti in ordine più o meno cronologico.

Ecco, quindi, l’intensa narrazione di Fabrizio De Sanctis su Farinata degli Uberti; ecco le riflessioni di Luca Anichini sull’arte della guerra a quei tempi; ecco la Pia di Caterina Perrone, che la vuole Malavolti più che Tolomei; ecco i racconti sulla battaglia di Campaldino cui partecipò lo stesso poeta, scritti da Giorgio Smojver e Gianni Marucelli; ecco i rapporti di Dante con la politica nella narrazione di Luca Lunghini; ecco il contesto urbanistico e artistico nel racconto di Gabriele Antonacci; ecco la vita quotidiana e politica dell’Alighieri nel racconto di Renato Campinoti; ecco i viaggi e l’esilio del vate nelle storie di Maila Meini, Barbara Carraresi, Brunetto Magaldi, Milena Beltrandi e Giovanni Paxia; ecco le imprese di Corso Donati descritte da Paolo Ferro e Renato Mosi; ecco gli odii tra famiglie nel racconto di Sergio Calamandrei; ecco la morte del grande fiorentino nel testo di Antonella Bausi ed ecco Cristina Gatti che ci presenta la figura dell’occultista Cecco D’Ascoli.

Si chiude così la parte più legata alla storia, all’accurata narrazione delle vicende e si apre quella in cui la fantasia e la creatività trovano maggior sfogo.

Nicoletta Manetti dà voce a Beatrice Portinari dopo la sua morte; Antonella Cipriani ci parla della moglie dell’Alighieri, di cui poco sappiamo; Manna Parsì si immagina l’infanzia di Dante e Beatrice; Alessandro Lazzeri torna indietro nel tempo sino alla battaglia di Campaldino e Pierfrancesco Prosperi immagina un’ucronia connessa all’epico scontro che muta il nostro presente; David Ferrante ci parla di Celestino V; Rosalba Nola affronta la figura della trovatora Bieris de Romanz; le atmosfere descritte da Samuele Mazzotti per la nascita della “Divina Commedia” si fanno surreali, strani e misteriosi sono gli incontri del poeta alle prese con la stesura dei primi canti dell’inferno; ripercorre la sua vita in una sorta di incubo l’Alighieri prima di raggiungere Beatrice in paradiso nella narrazione di Francesco Russo; Miriam Ticci parla di una vita tutta all’insegna dei versi danteschi; torna indietro dai nostri giorni al 1306 la protagonista della storia di Terza Agnoletti; è un incubo dantesco quello di Fabio Ferrante; Francesca Tafanari e Oliva Cordella immaginano un condominio moderno abitato da Dante e da gente del suo tempo; Silvia Alonso trasforma l’Inferno in un suggestivo videogioco; il mio racconto offre una spiegazione fantastica al recupero degli ultimi tredici canti del “Paradiso” e alla scomparsa della salma dell’Alighieri; Massimo Acciai Baggiani prosegue il mio racconto immaginando Dante ai giorni d’oggi; Donato Altomare ci mostra un surreale e fantascientifico Caronte alle prese con la morte di Cerbero.

Mi piacerebbe raccontarvi qualcosa di tutti questi autori, ma sono davvero troppi. Vi invito solo a leggerne le biografie alla fine del volume, dalla quale vedrete come siano stati accolti accanto a scrittori con minor esperienza anche autori importanti, con ampia produzione e che sono stati apprezzati anche vincendo importanti premi di rilevanza nazionale.

Ringrazio, tutti coloro che hanno partecipato e speriamo che voi lettori possiate gradirne come noi la lettura.

Se vorrete incontrarci, il volume sarà presentato nelle seguenti occcasioni:

  • 8 Settembre ore 17,00 – Presentazione di “Gente di Dante” (ore 18,00) e “Accadeva in Firenze Capitale” – Palazzo Datini a Prato – Via Ser Lapo Mazzei, 43
  • 13 Settembre ore 18,00 Piazza davanti Casa di Dante – Intervento nel corso del reading dantesco  – Via Santa Margherita 1
  • 17 Settembre ore 18,00 circa – PRESENTAZIONE DELL’ANTOLOGIA – Giardino della Biblioteca Buonarroti  a Firenze – Viale Alessandro Guidoni, 188
  • 30 Settembre ore 17,00 – PRESENTAZIONE DELL’ANTOLOGIA – Circolo degli Artisti Casa di Dante a Firenze – Via Santa Margherita 1
  • 18 Ottobre ore 17,00 – PRESENTAZIONE DELL’ANTOLOGIA – SMS Rifredi Via Vittorio Emanuele II, 303

FOTO DI MURI GRAFFIATI

Roberto Mosi è autore fiorentino. La sua silloge poetica “Promethèus” ci parla di muri di ogni parte del mondo, ma si

Promethéus. Il dono del fuoco - Roberto Mosi - Libro - Mondadori Store

capisce che il poeta è di Firenze, città orfana delle mura di cinta, sin dal “risanamento” del Poggi che voleva mutarla in capitale d’Italia, ma ricca di “muri privati” onnipresenti. Mura di ville che cingono le strette viuzze collinari tra piccoli bastioni che celano la vista dei giardini retrostanti, case dalle mura di pietra e dalle alte finestre. Una città troppo fortificata per poterci ambientare una storia di zombie, quelle creature semi-vive che nei film americani dilagano ovunque abbattendo fragili porte-finestre e vetrate senza imposte o inferriate.

Una città priva delle grandi periferie delle metropoli ma non per questo orfana del tocco irriverente dei writer, che lasciano i propri graffiti in sottopassi, lungo i binari della ferrovia o su edifici che sono quasi archeologia industriale.

Lo sguardo poetico dell’autore va, infatti, spesso proprio alle opere di questi artisti di strada.

Il titolo “Promethèus” rimanda alla mitica figura che diede il fuoco all’uomo, ma anche “l’idea del calcolo” e “il sistema dei segni tracciati”. Padre, quindi, dell’energia, della tecnologia ma anche della scrittura e, perché no, dei graffiti, della “fantasia dei colori” che riempiono “strade periferiche/ muri della ferrovia / sottopassi nell’ombra / saracinesche abbassate” in queste nostre “Città a misura d’automobile”. Sono quadri che “vivono dell’aria / delle strade, dei muri bagnati”.

Di quali muri ci parla?

Oltre a quelli di Firenze, quelli di Gerusalemme, di Berlino, del Messico, di Melbourne, di Rio de Janeiro.

Roberto Mosi (@poesia3000) | Twitter
Roberto Mosi, autore del GSF – Gruppo Scrittori Firenze

E chi si muove tra questi muri?

Ecco i pugili che “combattono miserie”, ecco “l’omino magro” che “esce dalla fogna”, “un grappolo di palloni in mano”, ecco che “il Giullare s’intrufola, follia / dei segnali / lo spray nella mano / la freccia stradale infilza un cuore / il Cristo pende dall’incrocio”.

Ecco i malati dei manicomi dipingere i muri delle loro case-prigione.

Ecco gli antenati dei writer all’opera nelle grotte di Lascaux.

Brevi poesie di grande forza visiva che sono fotografie. Del resto, si sente, il Mosi non è solo poeta, ma anche fotografo.

FIRENZE CAPITALE, NASCITA DI UN’ANTOLOGIA

La città di Firenze fu capitale del Regno d’Italia per un breve periodo di sei anni, dal 3 febbraio 1865 al 3 febbraio 1871. Che non sarebbe durata oltre si capì già con la presa di Roma, il 20 settembre 1870.

L’anno scorso Cristina Gatti, la Presidentessa del GSF – Gruppo Scrittori Firenze, propose di predisporre un’antologia che ricordasse quegli anni, da presentare in occasione dei 150 anni dalla breccia di Porta Pia.

C’è stata poi l’epidemia di covid-19 e, vista l’impossibilità di presentare il volume in presenza, fu fatta scivolare l’uscita all’aprile 2021, che forse è anno anche più adeguato per celebrare la fine di questo periodo assai interessante per la nostra città.

Per preparare il volume, la pandemia ci diede ancora il tempo per uno degli Incontri letterari che presentavo in Laurenziana con Barbara Carraresi per il GSF, martedì 11 Febbraio 2021. Per l’occasione invitai il giallista Sergio Calamandrei, che ha un’autentica passione per quegli anni, sui quali ha raccolto, letto e studiato un’invidiabile biblioteca.

Il suo intervento piacque all’uditorio e lo aggregammo subito come consulente storico per l’antologia in preparazione.

Il grande impegno che subito mise nel collaborare alla stesura della raccolta, ha fatto sì che da consulente fu presto “promosso” a curatore, andando ad affiancare nel ruolo Cristina Gatti.

Personalmente ho avuto l’onore di figurare nel Comitato Editoriale assieme a Fabrizio De Sanctis, Maila Meini e Vincenzo Sacco.

Il volume ha così raccolto i racconti (in ordine di apparizione nel volume) di Fabrizio De Sanctis, Caterina Perrone, Vincenzo Sacco, Cristina Gatti, Gabriele Antonacci, Barbara Carraresi, il sottoscritto Carlo Menzinger di Preussenthal, Nicoletta Manetti, Renato Campinoti, Maila Meini, Roberto Mosi, Pierfrancesco Prosperi, Sergio Calamandrei. Chiude la serie il racconto-postfazione di Paolo Ciampi.

Il volume è arricchito anche da una parte saggistica con gli interventi di Pietro Tornabene, Giuseppe Matulli e Andrea Cantile e da un ricco corredo fotografico, comprensivo di tavole a colori.

Il pregio del volume è accentuato dall’insolito formato.

Diversi sono i toni e gli stili dei vari autori, così come i personaggi che si succedono in queste pagine intense e vivaci, da quelli più popolari ai frequentatori dei salotti, dai fiorentini ai torinesi, ai tanti stranieri, che in quegli anni rappresentavano ben due terzi della buona società fiorentina.

Ed ecco il celebre oste Gigi Porco nel racconto di De Sanctis, ecco Marie Bonaparte nei salotti descritti da Caterina Perrone, ecco l’ispettore di Vincenzo Maria Sacco che indaga nientemeno che sul furto del David di Donatello, ecco l’incontro tra un conte e un lustrascarpe nella narrazione di Cristina Gatti, ecco la meraviglia delle prime linee ferroviarie nel “volo dell’ippogrifo” di Gabriele Antonacci, ecco il mendicante Pipetta di Barbara Carraresi che assiste all’inaugurazione della statua di Dante, ecco nel mio racconto il dialogo tra la città di Firenze e il grande collezionista Frederick Stibbert che ci regalerà uno dei più suggestivi musei d’armature, ecco  Dostoevskij descritto da Nicoletta Manetti, ecco il patriota Beppe Dolfi dipinto da Renato Campinoti, ecco la domestica di Maila Meini, ecco gli abitanti delle case di ferro e legno di Roberto Mosi, ecco una Firenze rimasta capitale ancora oggi nella geniale immaginazione di quel re dell’ucronia italiana che è Pierfrancesco Prosperi, ecco la partecipazione alla presa di Roma di un predecessore (il giornalista Sabatino) del celebre ispettore Arturi di Sergio Calamandrei. Inutile evidenziare la consueta poeticità del racconto-postfazione del giornalista Paolo Ciampi, che ripercorre in una sorta di sintesi tutti i racconti precedenti.

Non mancano nel volume le occasioni per raffigurare le difficoltà derivanti dal veloce trasferimento della burocrazia torinese nel capoluogo toscano, che alterò i prezzi e creò non pochi disagi alla popolazione, sia per gli imponenti lavori di trasformazione urbana, sia per l’alterazione demografica avvenuta in breve tempo su una città di medie dimensioni qual’era Firenze allora.

Volume, dunque, ricco ed elegante, piacevole da leggere, istruttivo e ottimo da conservare nella propria libreria per riletture future, che si aggiunge alle altre antologie pubblicate dall’associazione e cui presto farà seguito la silloge dedicata ai settecento anni dalla scomparsa dell’Alighieri “Gente di Dante”, che sto curando con Caterina Perrone per il GSF.