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UN CUORE ETRUSCO TRA LE ONDE DELLA STORIA

Sovente i popoli restano legati alle loro origini storiche per quanto remote. Questo vale di certo anche

Navicello etrusco - Roberto Mosi Libro - Libraccio.it

per i Toscani, che ricordano con nostalgia i momenti di maggior gloria della propria storia da, andando a ritroso, gli anni in cui Firenze fu capitale del regno d’Italia[1], ai tempi del Granducato di Toscana per arrivare sino ai fasti del popolo etrusco. Le origini etrusche sono anzi quelle di cui vanno più fieri, se non altro perché non rappresentano un fugace momento di gloria passeggera ma appunto l’origine della propria cultura.

Il poeta Roberto Mosi sembra ben conoscere e immedesimarsi in questa passione per i tempi precedenti la dominazione romana.

Ciò traspare, in particolare, nel volume che mi è or ora capito di finir di leggere, “Navicello etrusco”, titolo che prosegue quasi nel sottotitolo “per il mare di Piombino” (Edizioni Il Foglio, 2018).

Che etruschi fossero alcuni dei primi re di Roma è cosa se non certa, almeno probabile. Che anche etrusco fosse quel Dardano che fondò Troia, dalla quale partì poi Enea per una sorta di viaggio di ritorno verso la nostra penisola e per porre le basi di Roma forse è solo leggenda.

Per i Greci, per esempio, questo figlio di Zeus ed Elettra nacque in Arcadia e da lì si spostò in Dardania, poi ridenominata Teucria per suo nipote Troo, terra dove sorse poi Troia.

Fu piuttosto Virgilio a narrare che Dardano venisse dall’etrusca Corythus ed è lì che il poeta latino fa tornare Enea, alla ricerca della terra degli avi.

Questa versione sposa il fiorentino Mosi quando scrive “Dardano partì dall’Etruria / per fondare la città di Troia”, ma questa è per lui occasione per suggerirci con levità l’immagine di moderni viaggi per la medesima rotta, quelli dei “migranti in fuga” di oggi.

E già, perché Mosi, con uno sguardo alla storia antica, tiene però i piedi saldi nella quotidianità e non la dimentica mai.

La sua Toscana è una “terra che ha smesso / le vesti proletarie per i vestiti / raffinati della cultura”, che, però, mai può dimenticare le proprie basi contadine. Mosi alla cultura del suo popolo è sempre attento, così come ai miti antichi, come ha mostrato anche nel suo “Prometheus”, che ci parla, per brevi fotografie poetiche, dei tanti muri di ogni tempo.

Come può far intuire il titolo, “Navicello etrusco” non ci canta solo della terra ma anche e soprattutto del mare. Quello tra Populonia e Piombino in particolare, la rotta del ferro degli antichi avi.

E questa raccolta di versi è un viaggio attraverso queste acque ma anche attraverso il mare della Storia.

Il volume è diviso in due parti, l’una dedicata a Turan, la dea etrusca dell’amore, che come Narciso ama specchiarsi, l’altra richiama l’immagine della statuetta votiva denominata da D’Annunzio “L’Ombra della Sera” (facile per il lettore non comprenderne il riferimento, che pare solo una poetica descrizione dello scorrere del tempo). Due parti ma un unico viaggio nel tempo che ci porta ad assistere, per velocissimi accenni, piccoli flash fotografici, alle invasioni barbariche, all’attraversata del Mediterraneo di Rutilio Namaziano, alle invasioni dei Goti e San Cerbone, alla caccia alle streghe, a Napoleone all’Elba con Maria Walewska[2], alla Seconda Guerra Mondiale con la batteria di Punta Falcone, ai disoccupati dell’era industriale, ai migranti di oggi.

Scorgo poi in questi versi il passo dello stesso Roberto Mosi sulle spiagge del litorale toscano, Baratti, Populonia, Vada.

Le onde mormorano alla spiaggia/ bianca, la luna invade / il silenzio della camera”.

Mi lascio andare alle onde, il fresco / dell’acqua accarezza il mio nuoto leggero”.

Eccolo mentre osserva “Marta e Anna” che “sono / padrone della spiaggia. // Marta compone un tappeto / di ciottoli”. Eccolo mentre affronta le fatiche dei vacanzieri, “il serpente di macchine. / Una striscia ininterrotta / di lamiere scintillanti”. Eccolo che “Dalla terrazza dell’albergo” respira “l’aria del mare”.

Eccolo attento osservatore della natura, delle “Zone libere / zone che sfuggono al nostro controllo, / meritano rispetto per la loro verginità / per la loro disposizione naturale all’indecisione. / La diversità / trova rifugio su il ciglio della strada”.


[1] Mosi ha partecipato con un proprio racconto sulle case di ferro all’antologia “Accadeva in Firenze Capitale” del GSF – Gruppo Scrittori Firenze, curata da Sergio Calamandrei e Cristina Gatti e a “Gente di Dante” sempre del GSF, curata da Carlo Menzinger e Caterina Perrone, con un racconto su Corso Donati.

[2] Su Elisa Baciocchi, la sorella dell’imperatore legata alla Toscana, Mosi ha scritto il saggio “Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone”.

UN THRILLER STORICO DA LIMARE UN PO’

Copertina I guardiani della storiaUltimamente leggo soprattutto e-book, ma ho ancora tantissimi cartacei da leggere. Tra questi, c’era, regalatomi qualche tempo fa, “I guardiani della storia” di Elisabetta Cametti (Giunti Editore).

Il volume mi incuriosiva soprattutto per due motivi: il titolo ricorda quello di una serie di romanzi che ho scritto e pubblicato in parte (“I guardiani dell’ucronia”) e si presenta come un thriller storico, genere che mi interessa. Leggendo poi la biografia di Elisabetta Cametti ho notato alcune somiglianze con la mia: è un po’ più giovane di me (1970 contro 1964), è laureata in Economia e Commercio, si è occupata di marketing, inoltre è italiana, anche se il suo romanzo ha un po’ l’impostazione dei thriller americani, con una protagonista che come si legge nel risvolto di copertina è “bionda, combattiva, porta spesso i tacchi alti, dorme quattro ore per notte e adora gli animali”. Si tratta di “Katherine Sinclaire, direttore generale della 9Sense Publishing, una delle più potenti case editrici mondiali”.

Un’autrice italiana che scelga come protagonista un’inglese già mi insospettisce un po’. Per carità, la cosa in sé non è certo un problema, in fondo io stesso non ho scritto un romanzo su un’eroina francese (Giovanna D’Arco in “Giovanna e l’angelo”)? La cosa però non mi convince molto. Per fortuna la seconda parte del romanzo si sposta in territorio italico e si comincia a parlare di etruschi.

Gli etruschi veri però compaiono solo indirettamente, dato che l’indagine si sposta sul Lago di Bolsena in un luogo a loro sacro, che ricorda un po’ qualche spelonca archeologica alla Indiana Jones, con avventure che si fanno via via più rocambolesche, con riti misterici e labirinti impenetrabili.

Elisabetta Cametti

Il romanzo avrebbe un certo potenziale, ma un buon editing sarebbe stato utile, non certo per errori grammaticali o sintattici, essendo scritto abbastanza bene, ma per alcuni piccoli salti logici, varie ripetizioni e alcune leggerezze descrittive che mi hanno un po’ irritato nella lettura. Purtroppo queste sono cose che ci fanno apprezzar meno un’opera anche quando la sua qualità complessiva sarebbe superiore.

Sono piccole cose, ma hanno il loro impatto. Citerei qualche esempio per farne capire meglio la natura:

A pag. 589 leggo:

“<<È l’acqua che ha fatto crollare il pavimento.>>

<<Cioè?>>

Dopo essersi caricata Bianca sulla spalla, Jethro si avvicinò al dislivello da cui si erano calati e colpì la superficie con un calcio. Un rumore acuto echeggiò nella galleria.

<<Metallo…>>

<<E quindi?>>”

Segue spiegazione. Nuova domanda. Ulteriore spiegazione. Il “Cioè?” sembra abbandonato a se stesso e la brillante Katherine pare un po’ scema (e non solo qui). Non era una tipa tosta, aggressiva e rampante?

Anche esclamazioni come:

“<<Dove? Siamo imprigionati qui sotto, senza scampo!>>” (pag. 584)

Mi suonano poco naturali.

Sempre nella stessa parte del libro (pag. 586) i protagonisti finiscono in una barca, che presumerei essere piccola, tipo barca a remi, dato che sono dentro un edificio sotterraneo. Non sembra che siano scesi dalla barca, ma leggiamo:

“Katherine notò che Jethro barcollava. Si teneva la spalla destra con la mano sinistra e trascinava una gamba.”

Ma non eravamo in barca? Di solito non ci si muove così tanto. O forse sono già scesi?

Poco dopo, in effetti, Katherine

Elisabetta Cametti

“Strisciando carponi, raggiunse il corpo della ragazza.”

O la barca è grande o ne sono usciti.

Poche righe dopo però leggo:

“la distese sulla panca della barca.”

Una barca con una panca (una sola) fa pensare sia davvero a remi. Ci sono tornati sopra o non ne sono mai scesi?

Ci sono poi alcune descrizioni dettagliate che mi sono parse superflue, tipo (pag.291):

“Le mani nelle tasche dei pantaloni cargo beige che poggiavanosu paio di scarponi da trekking in goretex con la suola in vibram scolpita, un pile leggero chiuso fino al collo e sopra un altro pile spesso con la cerniera slacciata.”

Peccato che l’autrice si sia dimenticata di descrivere mutande e calzini!

Oppure (pag.289):

“<<Dove sei?>>

<<Scesa adesso da una Mercedes ML nera noleggiata all’aeroporto di Malpensa>>”

Ma cosa importa da che auto è scesa e dove l’ha presa? Dato che è ai piedi del Monte Rosa, poteva bastare dire questo. Serve a descrivere il personaggio (che viaggia in Mercedes), ma disturba la lettura.

Sono dettagli, ma il romanzo è pieno di queste piccole divagazioni che nell’insieme distraggono e annoiano.

Aprendo sempre a caso il libro (pag. 255) leggo ancora (poi non vi tedierò più con altri esempi):

“A piedi nudi Katherine uscì dalla stanza, attraversò l’appartamento buio fino alla porta del ripostiglio. La aprì, accese la luce, sollevò l’anta scorrevole dell’armadio e tirò fuori una scatola di cartone.”

Dire che è a piedi nudi aiuta a descrivere il personaggio? Può essere. Ma una descrizione così precisa per dire solo, poco dopo che ha preso dall’armadio quattro bombolette spray, quando invece nell’episodio del fiume sotto l’Isola di Bolsena, manco si capisce se i personaggi sono in barca e che cavolo di barca è, mi pare contraddittorio.

Le cose banali e ovvie, che tutti conoscono e capiscono, non dovrebbero necessitare di descrizioni. Se descrivo una situazione particolare, invece, occorre essere precisi, perché la scena non si visualizza altrettanto facilmente.

Che dire poi delle parti in corsivo, in cui leggiamo direttamente i pensieri dei personaggi? L’approccio letterario è accettabile, ma il realismo dei pensieri lascia piuttosto a desiderare.

Anche la trama è poco coerente nel suo passare da vicende aziendalistiche e conflitti familiari a misteri etruschi. Avrei gradito un maggior approfondimento della storia etrusca. Un simile popolo avrebbe potuto offrire maggiori spunti.

Insomma, non posso che augurare a Elisabetta Cametti (anche se ha pubblicato con Giunti, è pur sempre un’autrice esordiente al suo primo libro) di trovare un editor di cui fidarsi e che la aiuti a bilanciare meglio i suoi prossimi testi, che sembrano avere molte delle caratteristiche di alcuni bestseller americani, con ambientazioni esotiche (come posso sembrare gli etruschi da quelle parti), manager d’assalto proiettati in giro per il mondo, morti sospette e misteri mistici.