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I GENERI LETTERARI ESISTONO?

Mi era sfuggito il numero doppio, 24 e 25, del 2020 della bella rivista monografica “IF – Insolito & Fantastico”, prima pubblicata da Tabula fati e ora da Odoya, già curata da Carlo Bordoni e ora da Alessandro Scarsella, cui collaboro sin dai primi numeri.

Avevo inviato per la pubblicazione un paio di racconti destinati a un numero su Frankestein, che non era poi uscito. Ritenevo quindi che le mie due storie (“Frank” e “Noi, Frankestein”) fossero rimaste negli archivi della rivista. Ho però scoperto ora che questi, come altro destinato a tale numero, è confluito in questo numero dal titolo “Letture di genere”.

Non sono purtroppo riuscito a trovare la versione cartacea del volume (se ne avete una, fatemi sapere, perché li colleziono), per cui l’ho acquistata in e-book.

Si parte con un editoriale del curatore Alessandro Scarsella ovviamente su che cosa sia la lettura di genere. Mi verrebbe qui da dire la mia, ma vi lascio leggere cosa c’è scritto nella rivista. Pongo solo a chi legge il quesito: esiste davvero una letteratura di genere o sono solo etichette utili per indirizzare i lettori nel mare magnum delle pubblicazioni?

Il primo articolo è di Marie-Agathe Tillette e ci parla del romanzo storico e dei personaggi marginali che vi compaiono: questo genere apre lo spettro sociale alle classi più deboli dandone una raffigurazione, spostando la centralità dai protagonisti della Storia.

Simona Cigliana ci parla del soprannaturale in Targhetti, Capuana, Fogazzaro e Pirandello.

Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi affrontano il genere avventuroso-esotico parlando di Emilio Salgari, affrontandone le opere in cui prevale il fantastico. Come curatore di rivista (“Per terra e per mare”, 1904-06), Salgari, infatti, diede molto spazio alle opere fantastiche, forse più che nelle proprie. Interessante anche l’idea che, questo importante autore tanto bistrattato dalle antologie scolastiche, fosse suggestionato dagli Scapigliati.

I medesimi affrontano poi il noir italiano di Lorenzo Montano e quello di Simenon.

Alberto Zava scrive del poliziesco, cogliendone gli aspetti metafisici in Guido Piovene.

Matteo Rima scrive dei vampiri nei fumetti.

Francesca Valentini affronta Italo Calvino in rapporto alla ficciòn barocca e alla letteratura sudamericana.

Alice Favaro esplora le correlazioni tra fantascienza italiana e neo-fantastico ispanoamericano.

Alessandro Scarsella esamina il fantastico italiano del secondo dopoguerra.

Jessica Tramontina-Salar analizza la scrittura di Giorgio Falco “dall’iperrealtà al l’ipermodernità”.

L’horror nazionale è il tema affrontato da Roberto Risso.

Mariangela Lando si interroga su come sia stato recepito “Frankestein” di Mary Shelley.

Torna il noir al centro del testo di Walter Catalano.

Riccardo Gramantieri ci parla della letteratura sugli UFO, che tanto spazio ha avuto agli albori della fantascienza italiana.

Fuori tema, nella sezione “Senza traccia” la pubblicazione postuma di un intervento di Giuseppe Panella su sublime, terrore e coraggio.

Ada Neiger parla dei libri di cucina.

La sezione “Simbiosi” accoglie il racconto “Simbiosi” di Dario Marcucci, il mio (Carlo Menzinger) “Frank” su un trapianto di cervello da un WASP al corpo di un sirio-americano (sceglierà la vita e la famiglia del suo corpo o della sua mente?), il mio “Noi, Frankestein” su un uomo con una mente artificiale dal grande potere.

“Il primo viaggio sulla Luna” di Carlo Bordoni immagina che un vecchio ingegnere italiano, aiutato da un bambino, riesca a costruire nel 1940 un razzo a tre stadi e a spedire una gallina sulla luna.

Noto con piacere che l’Annuario 2019 della fantascienza, tra i vari libri pubblicati ricorda anche la mia antologia “Apocalissi fiorentine” (Tabula fati).

Carlo Bordoni recensisce poi l’interessante “Vita da millenials” di Geraldina Roberti. Marta Mancini commenta “Il coccodrillo” di Vladimir Kantor.

Il veloce racconto finale di Luigi Annibaldi ci mostra una serie di misteriose morti tra i cantanti dell’Opera.

Volume quindi forse più variegato di altri con un tema più ristretto ma non meno interessante.

STA PER ESSERE USCIRE “LA FELICITÀ AFFOGATA”

Ebbene sì, ci siamo quasi. Sta per essere pubblicato da Tabula fati nella collana “Orizzonti della fantascienza” il mio romanzo breve “La felicità affogata”, che aveva vinto come inedito il primo premio del concorso World SF Italia.

La felicità è saper vedere il bicchiere mezzo pieno, ma si può essere felici attraversando le apocalissi?

L’agguerrito ingegnere robotico Lapo Vinci non vede mai il bicchiere mezzo vuoto. Vive in un palazzo sotterraneo di una Firenze post-apocalittica sommersa dal mare e affronta ogni sorta di catastrofe mantenendo il suo ottimismo e la sua voglia di vivere e godersi la vita.

Lapo Vinci costruisce (e usa) automi erotici per la Sexy Dolls International, società del potente gruppo internazionale Tomorrow Tech ma nel contempo traffica con la malavita locale e si diletta a seguire e praticare violenti incontri di nakedwrestling.

La fortuna sembra perseguitarlo ma il suo indomito ottimismo lo fa sempre tornare a galla dopo ogni sventura, personale o mondiale, permettendogli di sopravvivere al surriscaldamento globale, all’innalzamento dei mari che hanno sommerso la sua Firenze, alla siccità che ha scatenato una guerra dei poveri, agli intrighi della politica, a un inatteso conflitto nucleare e persino alla morte.

In tutto ciò scoprirà l’amore, la paternità e, soprattutto, il vero senso della felicità.

Il romanzo è stato sviluppato partendo dal racconto “Firenze underwater”, pubblicato nella raccolta “Quel che resta di Firenze” (Tabula fati, 2023), scritto il 17 giugno 2004 e poi rielaborato il 07 maggio 2016. A sua volta “Firenze underwater” era adattato dal precedente racconto “Lo spacciatore” pubblicato in “Quindici Voci” (Novembre 2002 – Edizioni Liberodiscrivere) unendolo con alcune idee e temi già sviluppati in alcune storie pubblicate in rete sulle Sexy Dolls.

Come i racconti di “Quel che resta di Firenze” e della precedente silloge “Apocalissi Fiorentine” (Tabula fati, 2019), si caratterizza sia per il desiderio di fare fantascienza di ambientazione italiana e, più specificamente, fiorentina, sia, soprattutto, con l’intento di mostrare come le problematiche del nostro tempo siano qualcosa di concreto e molto vicino a noi, che non riguardano Paesi e terre lontane, ma persino le nostre stesse città, la cui esistenza è ed è sempre stata fragile.

Se, infatti, “Apocalissi fiorentine” esplorava in parte momenti della storia in cui l’esistenza della città è stata particolarmente a rischio e in parte momenti del prossimo futuro, descrivendo il verificarsi della crisi stessa, “Quel che resta di Firenze”, mostrando scenari post-apocalittici, ci dava un quadro di quali potrebbero essere concretamente gli effetti di alcune degenerazioni ambientali, sociali, tecnologiche o storiche.

La felicità affogata”, partendo da uno scenario già post-apocalittico, con il surriscaldamento in atto, il conseguente innalzamento dei mari, una città imbastardita, dominata dalla criminalità, carenza di cibo, lo sviluppo di una sotto-cultura internazionale da immigrazione, mostra ulteriori drammatici sviluppi in atto con alcune degenerazioni tecnologiche, la corruzione politica, una drammatica siccità con disordini sociali conseguenti, drammi familiari, sfociando infine in una catastrofe all’apparenza definitiva.

In tutto ciò spicca l’indomito ottimismo del protagonista, che attraversa le catastrofi quasi con cieca noncuranza (in una metafora dell’atteggiamento oggi diffuso) ma nel contempo con una potente volontà di sopravvivere e andare avanti.

Un’indomita felicità che né il mare crescente né le altre avversità della vita, morte compresa, sembrano riuscire a piegare.

I MIGLIORI ALIENI PORTANO PANDEMIE

David Gerrold

Leggendo il titolo o la trama de “La guerra contro gli Chtorr” (1983) di David Gerrold (Chicago, 24 gennaio 1944), e forse persino le prime pagine, difficilmente si potrebbe immaginare di trovarsi davanti a uno dei migliori esempi di alieni della fantascienza. Tutto farebbe infatti pensare a FS muscolare di serie B, con soldati agguerriti che combattono contro mostri cattivi, ferocissimi e indistruttibili.

Si scopre, invece, attraverso lo sguardo del protagonista Jim McCarthy, un giovane biologo entrato quasi per caso nelle Forze Speciali dell’esercito americano, che forse quei vermoni indistruttibili chiamati Chtorran non sono i veri invasori. Quella a cui assistiamo in questo primo romanzo della serie è una complessa e articolata invasione ecologica. Gli alieni sono comparsi dal nulla. Non hanno astronavi, non hanno armi, non sembrano neppure intelligenti. Gli Chtorran, si scopre, andando avanti con la lettura, sono solo una delle 154 specie (individuate) che stanno insidiando ogni nicchia ecologica della Terra. Non per nulla oltre ai vermoni cattivi, l’altro effetto evidente dell’invasione è lo svilupparsi di alcune epidemie letali. Qualcuno sospetta (e tendo a credergli) che questa sia in realtà solo un’opera di chtorrizzazione della Terra: qualcuno sta cercando di cambiare la nostra ecologia per adattarla a una razza aliena superiore che ancora non ha fatto la sua comparsa. Se l’idea è questa, allora questo romanzo si dovrebbe porre in cima alla lista delle opere che hanno saputo ideare gli alieni più interessanti come “L’acchiappasogni” di Stephen King, Neanche gli dei” e “Nemesis” di Isaac Asimov, quelli di Sheckley e “Solaris” di Lem. Il finale del romanzo non lascia certezza: occorre leggere i successivi.

Da notare, peraltro, che Jerrold David Friedman (questo il vero nome di David Gerrold) ha esordito

scrivendo storie per la serie “Star Trek” che amo citare per dire come NON dovrebbero essere gli alieni. Non sopporto, infatti, gli alieni antropomorfi, che considero quanto mai implausibili, seppure utili per fare film a basso costo. Gerrold ha lavorato anche a serie di fantascienza quali “Babylon 5”, “I viaggiatori” (Sliders) e “Ai confini della realtà” (The Twilight Zone).

Un’altra delle specie aliene interessanti sono i millepiedi. Si ipotizza che gli Chtorran li allevino per mangiarli. Personalmente sono propenso a immaginarli come la prima fase di vita degli Chtorrian: come i bruchi si mutano in farfalle, così i millepiedi mi immagino possano mutarsi in vermoni assassini. Dovrò però attendere i prossimi romanzi per capire se non mi sbaglio.

La serie è, infatti, così composta:

  1. La guerra contro gli Chtorr (A Matter for Men, 1983),
  2. Il ritorno degli Chtorr (A Day for Damnation, 1984),
  3. Il giorno della vendetta (A Rage for Revenge, 1987),
  4. L’anno del massacro (A Season for Slaughter, 1991).

Il primo volume, scrivono in rete, non è il migliore della serie. Io l’ho trovato avvincente, molto coinvolgente, intrigante. Forse con qualche lentezza in alcuni punti ma nel complesso un buon bilanciamento di azione e idee intelligenti, con un protagonista che emerge dalle pagine.

Che difetti ha questo libro?

Poco giustificato, forse un lungo flashback sull’addestramento del protagonista al corso di etica: sembra lo spunto per metterci un po’ di morale. Una divagazione che non pare funzionale alla trama del romanzo (ma forse lo è per la serie?).

Lo Chtorran imprigionato dietro il vetro nella sala conferenze sembra preso direttamente da King Kong. Non so se questa sia una debolezza o vada apprezzato come citazione.

Altra cosa un po’ strana è il nome della dottoressa che compare verso la fine: Lucrezia Borgia! Ma davvero? Voleva un nome italiano e il primo che gli è venuto in mente è stato questo o scopriremo che la scelta è voluta?

Tra le idee “filosofiche” credo meriti una riflessione il concetto che la civiltà è provvisoria e dunque la cultura ha meno valore delle capacità manuali. Applicato a un’apocalisse se ne comprende tutta la verità.

Che dire poi dell’analisi economica dell’apocalisse, con le sue influenze su inflazione e recessione?

Una nota storica: il romanzo è stato pubblicato nel 1983 e immagina una grave crisi politico-militare nel 1997 che cambia gli assetti del pianeta, portando all’imposizione del disarmo degli U.S.A., considerati guerrafondai.

Persino le azioni militari, che in genere suscitano in me un interesse piuttosto tiepido, mi sono parse molto realistiche per l’atteggiamento psicologico dei militari coinvolti, con la concretezza di un buon film sui marines con istruttori inflessibili, ovviamente, non certo Joyce o Flaubert.

Oltretutto, in questi tempi post-covid, non si può non notare che questo è un altro dei romanzi che in tempi non sospetti paventava i rischi delle pandemie, per quanto qui eterodiretta (ma si sospetta l’intervento di potenze straniere).

Se questo non è il migliore della serie, sono impaziente di leggere gli altri.

IL DEBOLE POTERE DEI SOGNI

N.K. Jemisin

Nella scheda anobii del romanzo di fantascienza-fantasy “La Luna che uccide” (2012) di Nora Keita Jemisin (Iowa City, 19 settembre 1972) leggo il seguente inizio di trama “Nella antica città-stato di Gujaareh, la pace è l’unica legge. Sui suoi tetti e tra le ombre delle sue strade acciottolate vegliano i raccoglitori, i custodi di questa pace. Sacerdoti della Dea del Sogno hanno il compito di raccogliere la magia della mente addormentata e usarla per guarire, calmare… e uccidere chiunque giudichino corrotto.”

Tema per me interessante, non per nulla ho pubblicato almeno due romanzi sul potere della mente e del sogno (“La bambina dei sogni” e “Psicosfera”) e una biografia che mi è stata dedicata si chiama “Il sognatore divergente”, ma la declinazione dell’idea è modesta, i toni fantasy prevalgono su quelli più tecnici e razionali della fantascienza, tutto sembra basarsi sull’individuazione di queste figure detti Raccoglitori ma il loro ruolo di custodi della pace mediante il potere del sogno non mi pare ben delineato o sviluppato. Il loro resta poco più di un nome. Dei mitici Mietitori resta forse meno di un nome, solo una vaga minaccia, forse irreale. Interessante l’idea (o almeno la definizione) di sangue onirico.

Forse la frase più bella del libro è la citazione iniziale, che molto promette ma poco fa raccogliere: “Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Quelli che sognano di notte, nei recessi polverosi delle loro menti, si svegliano di giorno per scoprire la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché possono mettere in pratica i loro sogni a occhi aperti e renderli possibili. (T.E. LAWRENCE, I sette pilastri della saggezza)”. Peccato non l’abbia scritta la Jemisin.

Secondo libro che leggo questa settimana e che non mi lascia nulla.

Nell’andare a postare questo commento scopro di aver già recensito un libro di quest’autrice afroamericana: “La quinta stagione”. Vi riporto qui l’ultima frase: “Insomma, un romanzo che non mi ha preso. Fantascienza o fantasy? Forse più vicino al fantasy per questo suo creare classi di individui e per i poteri quasi magici degli orogeni, di cui non mi pare si tenti alcuna classificazione scientifica. Non penserei di leggere i successivi.” Invece, avendo completamente rimosso tale lettura, peraltro risalente solo al maggio 2022, mi sono trovato non a leggerne il seguito ma un altro libro, a quanto pare, con i medesimi difetti. Riuscirò a evitare di leggerne ancora, ammaliato dalle trame e sedotto dai numerosi premi vinti da quest’autrice?

MIGRARE SU UN PIANETA OSTILE

Il Mastro di forgia – Arma infero” di Fabio Carta temo non sia romanzo che fa per me. A metà strada tra fantasy e fantascienza narra di un pianeta senza stagioni in cui è difficile vivere per aria inquinata e in cui la scarsità d’acqua provoca guerre. Pare un possibile futuro distopico per la Terra ma è un altro pianeta su cui i terrestri sono migrati molte generazioni prima. Prima dell’arrivo dell’uomo era un mondo semi-disabitato, a parte alcuni microrganismi, poi sono arrivati anche altri alieni che nessuno ha mai visto. Fin qui, parrebbe un libro di quelli che leggo volentieri.

L’autore, però, ama descrivere meccanismi, tecniche, vicende storiche. Questo, per i miei gusti, rende la lettura meno viva e l’interesse leggendo cala. A un certo punto l’autore nel proseguire con queste descrizioni pare rendersi conto della loro pesantezza e scrive “se non vi tedio troppo”. Mi chiedo allora perché rischiare questo e non tagliare qualche parte descrittiva?

UN TRITTICO HORROR SULLA SCHIZOFRENIA

Singolare il volume realizzato da Marco GazzolaHyde in time” (Edikit, 2023) partendo dalla celebre

Mario Gazzola

opera “Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde” (1886) di Robert Louis Stevenson(Edimburgo, 13 novembre 1850 – Vailima, 3 dicembre 1894).

È diviso in tre parti:

  1. una prima stesura immaginaria dell’opera di Stevenson (pare ne abbia davvero fatta una versione poi distrutta), antecedente all’originaria,
  2. “Il lupo di Whitechapel”, un sequel, sempre immaginario, scritto dal figliastro dell’autore Samuel Lloyd Osbourne (San Francisco, 7 aprile 1868 – Glendale, 22 maggio 1947), scrittore realmente esistito,
  3. “Hyde in time”, un successivo sequel del di lui figlio, il barbone quasi omonimo Samuel Osbourne. Samuel Lloyd Osbourne, effettivamente, nel 1936 si risposò con Yvonne Payerne, di quaranta anni più giovane, dalla quale ebbe un terzo figlio, Samuel (nato a Nizza nel 1936). Non mi risulterebbe essere mai stato anche lui uno scrittore né saprei se sia diventato davvero un barbone.

Nel romanzo ottocentesco la vicenda è narrata dal punto di vista di un avvocato, Utterson, amico dello scienziato, fino a quando Jekyll prende la parola tramite una lettera indirizzata a costui, nel quale spiega la vicenda.

Gazzola cambia innanzitutto il punto di vista, che diventa, nella prima parte, quello di Edward Hyde, la metà rappresentante il Male del binomio schizofrenico Jekyll-Hyde. Ne consegue un più marcato accento su una visione malata o perversa della storia, che già in questa prima parte vira maggiormente verso l’horror (che pur caratterizzava l’originale di Stevenson), il macabro e il pulp.

La componente fantastica, quasi onirica, si accentua ulteriormente nei due sequel.

Roberta Guardascione

La trovata di Gazzola è quasi un’ucronia narrativa, o meglio una sliding-door, con la vicenda che non si conclude con il suicidio del dottor Jekyll, incapace di controllare le proprie trasformazioni in Edward Hyde, ma prosegue con la trovata paranormale di immaginare una trasmigrazione della personalità malvagia di Hyde in vari altri soggetti, andando a mescolare questo personaggio letterario con il mito della cronaca nera di Jack Lo Squartatore, la cui misteriosa identità viene quindi fatta corrispondere a quella di Hyde, trasmigrato in corpi maschili e femminili per compiere i suoi delitti e, soprattutto, nelle vesti del pittore Walter Sickert (Monaco di Baviera, 31 maggio 1860 – Bath, 22 gennaio 1942), figura realmente esistita e che, come detto espressamente nel romanzo “rientra tra i principali sospettati di essere stato il famigerato Jack lo Squartatore, l’autore degli storici omicidi avvenuti a Londra nell’estate del 1888, ancora oggi avvolti nel mistero.

A confermare l’ipotesi è la criminologa e autrice di romanzi Patricia Cornwell, la quale, dopo anni di studi relativi all’identità del famoso serial killer, ha pubblicato la sua tesi intitolata “Ritratto di un assassino: Jack lo squartatore – Caso chiuso”, nella quale spiega la sua teoria riguardo all’immagine di Jack lo squartatore celata nel pittore inglese.” (come si legge su Wikipedia).

L’identificazione di Hyde con questo pittore del Camden Town Group giustifica e avvalora la scelta dell’autore di illustrare il volume con numerosi disegni a colori realizzati dalla brava Roberta Guardascione, di fatto una sorta di seconda autrice di questo volume.

Le tre parti, che si immaginano scritte in diverse epoche storiche e da diverse penne, presentano di conseguenza anche caratteristiche stilistiche e narrative diverse tra loro.

In particolare, l’ultimo testo appare come un alternarsi di resoconti di sedute psicoanalitiche, pagine di diario e articoli di giornale.

L’intero libro poi presenta, tra un romanzo e l’altro alcune parti finto-saggistiche che in gran parte si richiamano a reali dati storici e letterari ma in parte reinventano le vicende letterarie di Hyde e cronachistiche di Jack Lo Squartatore o biografiche di Sickert. Una grande lavoro di ricostruzione storica e decostruzione ucronica da parte di Gazzola.

Ne nasce un volume ricco e intenso, graficamente elegante, cupo nei suoi rossi e neri prevalenti, originale nella costruzione, dark e pulp nel risultato. Di nuovo un’ottima prova per Mario Gazzola che già avevo apprezzato con il cupo romanzo teatral-carcerario “Buio in scena” e altri racconti, tra cui la sua partecipazione all’antologia di prossima pubblicazione “Psicomondo”.

Un plauso particolare all’illustratrice Roberta Guardascione.

L’UOMO CHE AMA LE PAROLE ESSENZIALI

Se volete farvi un’idea della poetica di Roberto Mosi, non potete che leggere il volume “Amo le parole”, sottotitolo “Poesie 2017-2023”, edito da Giuliano Ladolfi, che raccoglie versi di Roberto Mosi tratti dai volumi:

Si tratta quindi di una rassegna assai significativa della più recente produzione poetica di questo autore.

Avevo a suo tempo già letto e commentato “Navicello etrusco” e “Prometheus. Il dono del fuoco” oltre ad altre opere di questo autore fiorentino, membro del Gruppo Scrittori Firenze e della Camerata dei Poeti di Firenze, quali “Concerto”, “I barbari” ed  “Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone” ma anche i  racconti nelle antologie del GSF “Le immaginate”, “Le sconfinate”, “Gente di Dante” e “Accadeva in Firenze capitale”.

Che tipo di scrittura vi troviamo? Come scopriremo assieme, sono versi diretti ed essenziali che mirano al cuore delle cose, che parlano di gente e sentimenti reali ma senza sentimentalismi, di luoghi e della loro storia che è soprattutto narrazione di vite passate. Uno sguardo alla memoria e ai ricordi, soprattutto collettivi, ma anche tanta attenzione per il presente e anche un pensiero preoccupato per il futuro.

Nella Prefazione, Carmelo Consoli, Presidente della Camerata dei Poeti di Firenze, esordisce con parole che non posso non condividere:

Tutta la poesia di Roberto Mosi è innestata su un’instancabile attraversata di territori e immagini di un tempo che dal contemporaneo sconfina nel passato e nell’antico, collegandosi con disinvoltura al mito che ne sorregge e nobilita tutta l’architettura costruttiva”.

Mosi è, infatti, “appassionato seguace del mondo del mito”.

Il Profumo dell’Iris” si apre con una serie di versi sulle piazze fiorentine. Mosi è autore, infatti, assai radicato nel territorio che ben conosce. Quella su Santa Croce ne coglie le molteplici geometrie poetiche. “L’annunziata” quando conta “trenta le colonne, otto i bambini” ci fa quasi pensare alla magia di una filastrocca. In “Santo spirito” sentiamo in ogni verso lo spirare potente del vento. Parlando de “La Stazione” non poteva che parlarci degli extracomunitari che vi stazionano: “uccelli migratori”. Ne “Le Murate” emergono prepotente la storia ma anche i primi segnali di un ambiente malsano: “il fiume bussò / alle porte del carcere / il mese di novembre/ e volle le sue vittime” poi “venne il tempo della città / che divorò il carcere”. L’amore per il colore di questo fotografo dell’animo domina i versi sullo storico caffè “Le Giubbe Rosse”. “Il Casone dei Poveri” ci parla di un non-castello di antenati che non paiono principi. Ne “L’anello dei viali” con “la polizia in assetto di guerra” scorgiamo tensioni sociali. L’otto marzo della “Manifattura tabacchi” ci parla del popolo femminile di Firenze.

Andrebbe fatto un volume fotografico con gli incredibili (spesso orribili) monumenti che adornano le rotatorie delle piazze italiane. “L’omino della pioggia” ci parla di uno di questi, a Firenze sud, quasi magrittiano. “Le bombe sulle officine di Porta al Prato” creano una sorta di loop nei versi a testimoniare l’assurdo ripetersi della violenza.

Mosi sembra amare i numeri, forse perché in fondo la poesia è anche matematica in parole (metrica e ritmo non lo sono?). In “Le Cure”, però contiamo solo sessanta olive e sei cucchiai d’olio. Per parlarci di Palazzo Vecchio cita Pablo Neruda. Nel “Piazzale degli Uffizi” le figure della galleria escono dai quadri e il poeta conclude con versi che leggerei quasi come un proprio manifesto: “Oggi c’è bisogno / di bellezza, di simboli / sereni del bello”. Bellezza, sì, ma anche serenità e non fini a loro stesse ma per essere simboli e, direi, esempi.

Se in “Vicolo delle brache” facciamo l’incontro soprannaturale con un angelo bianco e uno nero (che forse tanto angelo non è), in “Via del Canto Rivolto”, protagoniste sono le persone, come spesso nei versi del Mosi, gente, però, che scompare “D’agosto” lasciando “l’ascensore immobile / gli appartamenti vuoti”. Con “Le rificolone” sono i ragazzi e i bambini a popolare di nuovo le strade in questa festa tutta fiorentina.

Quando si arriva “Allo Stadio” la gente si fa folla e l’autore dice “mi perdo nella banalità / delle parole di Vasco” ma questa banalità non deve essere poi così negativa visto che si trova anche lui a cantare.

“Campo di Marte” con la sua stazione non può che essere luogo d’incontri e anche del quartiere di “Rifredi” dipinge il passare dei treni. Quanta storia e quanta vita riesce a scoprire in un quartiere all’apparenza nuovo, come Novoli, “fra monconi di cemento” “dove fiorivano / d’inverno rose scarlatte”.

Come non ricordare l’attentato di “Via dei Georgofili”, ma in questi versi l’esplosione anziché allontanare pare unire, ravvicinando questa via del centro fiorentino con “Il Gigante dalla collina di Pratolino” che maledice questa ferita ingiuriosa.

Ed ecco comparire Rosai, Cajkovsji, Vinicio Berti mentre persino “Peretola” pare avere una storia da raccontare con “sui tavoli lattine di Coca Cola”. In un “Quartiere popolare” “il cortile ha il respiro / della gente che dorme”: Firenze città di persone, di storia e di storie.

Mentre “s’intrecciano mani di ogni colore” tra la gente si fa largo il mito e “Dal Pratomagno spunta la luna / fauni e ninfe escono dai boschi”. Eppure, a “Fiesole”, anche una “immobile lucertola” può essere protagonista davanti alla Cupola.

Roberto Mosi

Sovente i popoli restano legati alle loro origini storiche per quanto remote. Questo vale di certo anche per i Toscani, che ricordano con nostalgia i momenti di maggior gloria del proprio passato da, andando a ritroso, gli anni in cui Firenze fu capitale del regno d’Italia, ai tempi del Granducato di Toscana per arrivare sino ai fasti del popolo etrusco. Le origini etrusche sono anzi quelle di cui vanno più fieri, se non altro perché non rappresentano un fugace momento di gloria passeggera ma appunto l’origine della propria cultura.

Il poeta Roberto Mosi sembra ben conoscere e immedesimarsi in questa passione per i tempi precedenti la dominazione romana.

Ciò traspare, in particolare, in “Navicello etrusco”, titolo che prosegue quasi nel sottotitolo “per il mare di Piombino” (Edizioni Il Foglio, 2018).

Che etruschi fossero alcuni dei primi re di Roma è cosa se non certa, almeno probabile. Che anche etrusco fosse quel Dardano che fondò Troia, dalla quale partì poi Enea per una sorta di viaggio di ritorno verso la nostra penisola e per porre le basi di Roma forse è solo leggenda.

Per i Greci, per esempio, questo figlio di Zeus ed Elettra nacque in Arcadia e da lì si spostò in Dardania, poi ridenominata Teucria per suo nipote Troo, terra dove sorse poi Troia.

Fu piuttosto Virgilio a narrare che Dardano venisse dall’etrusca Corythus ed è lì che il poeta latino fa tornare Enea, alla ricerca della terra degli avi.

Questa versione sposa il fiorentino Mosi quando scrive “Dardano partì dall’Etruria / per fondare la città di Troia”, ma questa è per lui occasione per suggerirci con levità l’immagine di moderni viaggi per la medesima rotta, quelli dei “migranti in fuga” di oggi.

E già, perché Mosi, con uno sguardo alla storia antica, tiene però i piedi saldi nella quotidianità e non la dimentica mai, con la sua vita e i suoi drammi.

La sua Toscana è una “terra che ha smesso / le vesti proletarie per i vestiti / raffinati della cultura”, che, però, mai può dimenticare le proprie basi contadine. Mosi alla cultura del suo popolo è sempre attento, così come ai miti antichi, come ha mostrato anche nel suo “Prometheus”, che ci parla, per brevi fotografie poetiche, dei tanti muri di ogni tempo.

Come può far intuire il titolo, “Navicello etrusco” non ci canta solo della terra ma anche e soprattutto del mare. Quello tra Populonia e Piombino in particolare, la rotta del ferro degli antichi avi.

E questa raccolta di versi è un viaggio attraverso queste acque ma anche attraverso il mare della Storia.

La raccolta è divisa in due parti, l’una dedicata a Turan, la dea etrusca dell’amore che, come Narciso, ama specchiarsi, l’altra richiama l’immagine della statuetta votiva denominata da D’Annunzio “L’Ombra della Sera” (facile per il lettore non comprenderne il riferimento, che pare solo una poetica descrizione dello scorrere del tempo). Due parti ma un unico viaggio nel tempo che ci porta ad assistere, per velocissimi accenni, piccoli flash fotografici, alle invasioni barbariche, all’attraversata del Mediterraneo di Rutilio Namaziano, alle invasioni dei Goti e San Cerbone, alla caccia alle streghe, a Napoleone all’Elba con Maria Walewska, alla Seconda Guerra Mondiale con la batteria di Punta Falcone, ai disoccupati dell’era industriale, ai migranti di oggi.

Scorgo poi in questi versi il passo dello stesso Roberto Mosi sulle spiagge del litorale toscano, Baratti, Populonia, Vada.

Le onde mormorano alla spiaggia/ bianca, la luna invade / il silenzio della camera”.

Mi lascio andare alle onde, il fresco / dell’acqua accarezza il mio nuoto leggero”.

Eccolo mentre osserva “Marta e Anna” che “sono / padrone della spiaggia. // Marta compone un tappeto / di ciottoli”. Eccolo mentre affronta le fatiche dei vacanzieri, “il serpente di macchine. / Una striscia ininterrotta / di lamiere scintillanti”. Eccolo che “Dalla terrazza dell’albergo” respira “l’aria del mare”.

Eccolo attento osservatore della natura, delle “Zone libere / zone che sfuggono al nostro controllo, / meritano rispetto per la loro verginità / per la loro disposizione naturale all’indecisione. / La diversità / trova rifugio su il ciglio della strada”.

Èrato (Ερατώ), figlia di Zeus e di Mnemosine, è per i Greci una delle Muse, quella del canto corale e della poesia amorosa.

Roberto Mosi intitola un suo volume, qui ripreso, “Eratoterapia”: la poesia come cura per l’anima.

Il capitolo decolla con una corsa di una coppia in bicicletta che canta come “un’orchestra volante”: un video-clip in parole.

In Piazza Duomo, davanti a “La Cupola” una bambina, quasi come un autistico, conta ogni cosa, ma in quella conta c’è tutta la sua vitalità infantile.

Può essere la poesia un mestiere? Una bambina lo crede, pensando a “Il nonno poeta”. Beata lei.

I bambini sembrano dunque protagonisti di questa cura in versi anche in “Passi sulla neve” dove “I miei passi pesanti / seguono i tuoi leggeri” se come mi pare le “impronte innamorate” sono quelle di un adulto e un bambino.

Già s’è detto dell’uso frequente del colore nei versi di Mosi. In “Parola – poesia” ne abbiamo un altro esempio: celeste, rosso, bianco. Sono, come qui, spesso colori essenziali, netti, decisi, senza sfumature. Quasi matematici, come certi conteggi che talora incontriamo nella sua poetica: non soggetti a dubbi.

La memoria! Mosi è poeta di visione ma anche di ricordo. Di pensiero e di riflessione. Eppure quando “si mette in moto il motore / della mente” vorrebbe poterlo fermare, come fosse un computer da resettare o spegnere.

Il capitolo si conclude con i versi che hanno dato il nome alla raccolta “Amo le parole”: “Amo le parole / che si sollevano dalle strade / con il respiro della poesia”. Già, le strade, le piazze, i luoghi, vera fonte d’ispirazione di questo poeta.

Dopo questi versi un intermezzo non poetico, la “Lettera a Marta” che è però un altro piccolo manifesto di ciò che Mosi intende per poesia: “Fai in modo che il tuo comporre sia una voce essenziale, senza fronzoli, che navighi in mezzo al vero della vita, giocando, a volte, se credi, con i riflessi che brillano dagli specchi del mito.” “Evita, poi, i cascami ammuffiti dele vecchie stagioni della poesia, che hanno fatto il loro tempo”. “Crea percorsi coinvolgenti per te e per gli altri”. E non è forse così che scrive Mosi? Non ho scorto mai toni pomposi ed epici o lirismi sdolcinati: narra la vita e la storia (che è vita del passato) come tratti veloci e netti, essenziali, come scrive lui stesso.

Il successivo capitolo è “Orfeo in Fonte Santa”. Ci narra di un luogo toccato più volte dalla storia. Fu rifugio dei partigiani presso l’Antella di Firenze ma anche, trecento anni prima, luogo dove una “allegra brigata di letterati, scienziati e amanti della bella vita” la scelsero come luogo dei loro incontri, chiamandolo anche Fonte di Baci o Fonte Castalia, creando il movimento letterario dell’Arcadia.

Alla Fonte Santa “brilla il vortice del silenzio” e il poeta può gridare al mondo “io sono”, mentre “angeli migranti danzano / leggeri come il vento che giunge / dal Mediterraneo”, finché a spezzare l’incantesimo del luogo non v’è “sangue, sangue sul verde / delle foglie, sul pavimento/ della Cattedrale”. Luogo di poeti, partigiani ma anche “Migranti giunti dall’Africa / dalla Siria”. “Ogni sera un riparo diverso”.

I “Dialoghi con Marcel Proust” ci parlano dell’opera di Giotto e riprendono le parole di Proust su Ponte Vecchio.

La follia dei manicomi, la follia della loro esistenza e quella racchiusa in loro sono in “Sinfonia per San Salvi” su questo luogo di cura psichiatrico fiorentino, che parla de “la nave dei folli dal padiglione / delle Agitate”. Qui la gente di Firenze è divisa tra “Tranquilli, Infermi / Paralitici, Semi Agitati ed Epilettici / Agitati” che si deve “Sorvegliare Contare Proteggere”, in un tempo in cui è “Elettricità cura prima del cervello / delle Agitate”.

Promethèus” ci parla di muri di ogni parte del mondo, ma si capisce che il poeta è di Firenze, città orfana delle mura di cinta, sin dal “risanamento” del Poggi che voleva mutarla in capitale d’Italia, ma ricca di “muri privati” onnipresenti. Mura di ville che cingono le strette viuzze collinari tra piccoli bastioni che celano la vista dei giardini retrostanti, case dalle mura di pietra e dalle alte finestre. Una città troppo fortificata per poterci ambientare una storia di zombie, quelle creature semi-vive che nei film americani dilagano ovunque abbattendo fragili porte-finestre e vetrate senza imposte o inferriate.

Una città priva delle grandi periferie delle metropoli ma non per questo orfana del tocco irriverente dei writer, che lasciano i propri graffiti in sottopassi, lungo i binari della ferrovia o su edifici che sono quasi archeologia industriale.

Lo sguardo poetico dell’autore va, infatti, spesso proprio alle opere di questi artisti di strada.

Il titolo “Promethèus” rimanda alla mitica figura che diede il fuoco all’uomo, ma anche “l’idea del calcolo” e “il sistema dei segni tracciati”. Padre, quindi, dell’energia, della tecnologia ma anche della scrittura e, perché no, dei graffiti, della “fantasia dei colori” che riempiono “strade periferiche/ muri della ferrovia / sottopassi nell’ombra / saracinesche abbassate” in queste nostre “Città a misura d’automobile”. Sono quadri che “vivono dell’aria / delle strade, dei muri bagnati”.

Di quali muri ci parla?

Oltre a quelli di Firenze, quelli di Gerusalemme, di Berlino, del Messico, di Melbourne, di Rio de Janeiro.

E chi si muove tra questi muri?

Ecco i pugili che “combattono miserie”, ecco “l’omino magro” che “esce dalla fogna”, “un grappolo di palloni in mano”, ecco che “il Giullare s’intrufola, follia / dei segnali / lo spray nella mano / la freccia stradale infilza un cuore / il Cristo pende dall’incrocio”.

Ecco i malati dei manicomi dipingere i muri delle loro case-prigione.

Ecco gli antenati dei writer all’opera nelle grotte di Lascaux.

Brevi poesie di grande forza visiva che sono fotografie. Del resto, si sente, il Mosi non è solo poeta, ma anche fotografo.

La sensibilità ecologica e ambientale di Roberto Mosi affiora nel capitoloIl nostro giardino globale”: cita Giorgio Caproni “L’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore”.

Scrive invece Mosi stesso: “Il nostro giardino viaggia / nello spazio infinito” mentre “L’esercito di plastica” “trascina / l’artiglieria pesante, tronchi / bidoni, misteriose carcasse”, “inseguite da nere / placide, strisce di olio”, in un mondo in cui “misurano la ricchezza / dai rifiuti di ogni giorno”.

E mentre crollano ghiacciai e montagne e la siccità miete vittime, “gli orsi polari hanno / imparato a strisciare / per non rompere lo strato / sottile del ghiaccio”.

Mentre il caldo aumenta e i mari si alzano l’autore si chiede se “I pesci nuoteranno per le strade / di Viareggio, di Livorno?” Pare immagine assurda ma, ormai, difficilmente potrà avere risposta negativa.

I nostri giorni” riunisce versi pubblicati sulla pluridecennale rivista “L’Area di Broca” di cui è anche redattore, ormai, temo, prossima alla chiusura. Parlano di stranieri, pandemie, vita e morte, conflitti, futuri, rivoluzioni digitali e intelligenze artificiali.

Completa il volume la postfazione di Giuliano Ladolfi che sottolinea l’importanza nei versi di Mosi dell’eratoterapia: la poesia come cura, forse non solo dell’anima del poeta o del lettore ma anche del mondo intero di cui Mosi denuncia le fragilità, i pericoli. Ladolfi nota anche che il poeta “assegna la scrittura in versi alla dimensione umana e non a quella puramente intellettuale e linguistica.” “Se «la poesia prende il posto dei sogni», è fondamentale che a tutti sia concesso di sognare tramite quest’arte.”

LA MAGIA DELLE SOSTANZE PSICOATTIVE

Gli allucinogeni nel mito” di Giorgio Samorini è un saggio piuttosto unico per il tema trattato. Riunisce,

infatti, in un solo volume svariati miti legati a varie sostanze psicoattive: yajé (ayahuasca), cannabis, solanacee (datura, mandragora, tabacco), polveri da fiuto, iboga, San Pedro, jurema, kava, funghi (amanita muscaria, altri funghi), piante eccitanti (coca, caffè, tè, cola), piante e bevande alcoliche (vite e vino, maguey e pulque). A ciascuna di queste è dedicato un capitolo.
Ne emerge che numerosi miti di molte delle culture umane testimoniano un uso antico delle sostanze allucinogene. Se molti dei miti elencati riguardano soprattutto le origini (creazione o scoperta) di tali sostanze, spesso i miti delle origini delle piante psicoattive appaiono collegati con quelli delle origini dell’uomo.
Sebbene, a caldo, possa sorprendere scoprire l’esistenza di così numerose leggende legate alle sostanze psicoattive, questo razionalmente non ci stupisce giacche le proprietà di queste dovevano apparire alle culture antiche chiaramente come magiche, favorendo quindi la nascita di simili narrazioni.
Il sovrapporsi del cristianesimo sulle culture antiche fa sì che molte fedi sudamericane e africane si siano mescolate in modo sincretico con questa religione trasferendovi i propri miti sulle sostanze psicotrope.

Giorgio Samorini

FANTASCIENZA UCRONICA FEMMINISTA

Mary Robinette Kowal (Raleigh, 8 febbraio 1969).

The calculating Stars” della statunitense Mary Robinette Kowal (Raleigh, 8 febbraio 1969) è un romanzo ucronico di fantascienza piuttosto peculiare.

È, infatti, ambientato negli anni ’50, dal 1952 in poi, ma è stato pubblicato nel 2018. Immagina, che un meteorite colpisca la Terra in tale anno, innescando un’estinzione di massa, che induce gli americani (ma non solo) ad accelerare il programma spaziale per raggiungere la Luna e Marte, portando a una serie di successi quali nella realtà non si videro, essendo stati gli americani quasi sempre superati dai russi nella corsa allo spazio.

Gli effetti della caduta di un meteorite sulla Terra, come tutti ben sanno, ha effetti devastanti. Quando ne cadde uno 65 milioni di anni fa, probabilmente causò una delle cinque grandi estinzioni di massa, quella che vide la fine dei dinosauri.

In quel caso però, pare, cadde sul terreno. Mary Robinette Kowal immagina, invece, che cada nel mare. Immagina quindi che a una prima breve glaciazione, segua un forte surriscaldamento per effetto del vapor acqueo disperso nell’atmosfera.

Non ho la competenza per valutarlo, ma non mi tornano per nulla i tempi in cui questo avviene. Mi sono sempre immaginato un inverno meteoritico, dovuto all’oscuramento del cielo nel giro di pochi mesi, mentre nel 1956 (quattro anni dopo l’impatto) ancora siamo ben lontani dall’apocalisse e la vita continua, seppur con migranti climatici e disordini. Certo, qui non ci sono polveri ma vapore, ma perché il surriscaldamento non è più veloce?

Se lo avessi scritto io avrei fatto partire l’allarme anni prima dal momento dell’avvistamento del meteorite

sebbene, forse, l’ottimistico scetticismo dell’umanità avrebbe impedito di far partire il modo altrettanto massiccio un piano di esodo. L’autrice, invece, fa partire il programma spaziale subito dopo la caduta del meteorite, rendendo i tempi per l’esodo a mio avviso troppo dilatati rispetto ai tempi della catastrofe, che avrei immaginato assai più veloci.

Mi chiedo poi, a quanto possa mai servire arrivare su mondi sterili come la Luna e Marte per salvare un ecosistema al collasso! È vero, che negli anni ’50 la conoscenza di Marte era piuttosto modesta e ancora c’erano illusioni sulla sua abitabilità, ma nello spazio immaginerei si possa solo portare una sorta di arca, con delle banche genetiche per ricostruire le specie sulla Terra dopo l’apocalisse, non certo popolare Luna e Marte. Peraltro, gli obiettivi di lungo termine del piano spaziale non sono chiariti nel romanzo.

Il tema principale è. Piuttosto, la discriminazione verso donne e persone di colore negli anni cinquanta. La protagonista è una pilota americana, che lotta per includere le donne tra gli astronauti in partenza.

Questo spiega la scelta di ambientare negli anni ’50 l’apocalisse: la tematica oggi si sarebbe dovuta affrontare diversamente e non si poteva mostrare tutta la perplessità e l’ipocrisia dei maschi bianchi verso donne e neri. La vera trama ruota, infatti, attorno alla difficoltà per una donna di far valere il suo valore in un campo maschile come l’astronautica.

Ne nasce quindi un romanzo scritto da una donna su una donna e sui diritti e i potenziali di queste.

Un altro aspetto affrontato dal romanzo è come andare nello spazio senza una tecnologia adeguata (come in realtà fu per il programma Apollo, che fece veri miracoli, in assenza di un’informatica evoluta come quella attuale).

Si usano quindi ingombranti calcolatori IBM, soggetti a frequenti errori, ma soprattutto regoli calcolatori e quelle “macchine umane” che in quegli anni erano le “donne calcolatrici” (credo vi fossero pochi uomini), che effettuavano calcoli complessi a mano se non a mente. Esisteva, infatti, nella realtà, tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, un gruppo di ricercatrici ingaggiate dallo Harvard Observatory come “calcolatrici umane” per volontà del direttore dell’Osservatorio, Edward Pickering. Non sono certo che esistesse ancora qualcosa del genere negli anni ’50 e mi chiedo se l’autrice non si sia presa una libertà storica.

Peraltro, a leggere la sfilza di autorevoli nomi ringraziati alla fine del volume si dovrebbe credere che ogni aspetto tecnico-scientifico del romanzo sia stato ben analizzato, in particolare i vari dettagli tecnici di volo che hanno un peso importante.

La lettura nel complesso è piacevole e coinvolgente anche se alcuni passaggi tecnici sugli aerei li avrei saltati.

Pare ci sia un seguito. Il romanzo fa parte della saga di “Lady Astronaut” ed è il prequel  racconto del 2012 “The Lady Astronaut of Mars”.

Nel 2019 ha vinto il Premio Hugo per il miglior romanzo, il Premio Nebula per il miglior romanzo, il Premio Locus per il miglior romanzo di fantascienza e il Premio Sidewise per la storia alternativa, nello stesso anno è stato finalista al John W. Campbell Memorial Award.

LE SCHIZOFRENIE CHIMICHE DEL DOTTOR JEKYLL

Robert Louis Stevenson

Mentre leggo il recente “Hyde in time” di Mario Gazzola, che rivede l’opera originaria, ho voluto leggere “Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde” (1886) di Robert Louis Stevenson (Edimburgo, 13 novembre 1850 – Vailima, 3 dicembre 1894), romanzo che non necessita di grandi presentazioni, essendo uno dei grandi capolavori della letteratura fantastica e tra i più noti. Ne ricordo anche delle versioni cinematografiche, ma mi piaceva, però, cogliere meglio le variazioni apportate alla storia dal nostro Gazzola, rileggendolo.

La vicenda è narrata dal punto di vista di un avvocato, Utterson, amico dello scienziato, fino a quando Jekyll prende la parola tramite una lettera indirizzata a costui, nel quale spiega la vicenda. L’impostazione è quindi in parte quella del giallo, con un mistero da svelare.

È, peraltro, opera principe sulla schizofrenia, sulla compresenza di bene e male in ciascuno di noi. Capolavoro anticipatore della psicanalisi e della psichiatria. Immagina che con un farmaco si possa separare la parte buona da quella cattiva, ma anche, lombrosianamente, che questo incida sulle fattezze fisiche.

Il dottor Jekyll (unione di bene e male, ma raffigurazione del bene) è, infatti, di bell’aspetto, ma quando si trasforma in Hyde (nel male), il suo aspetto si deforma, rendendolo inquietante alla vista, al punto che diventa persino più basso e tozzo!

Il male appare come una droga di cui Hyde non può fare a meno e che lo spinge alla violenza per il puro

gusto della violenza, come in tante storie di vampiri, ma senza neanche lo stimolo della necessità di nutrirsi di sangue umano: pura brutalità.

Il dottore passa così da una sembianza all’altra faticando a celare la sua doppia natura ai domestici, agli amici e alla polizia, fino a quando Hyde riesce a prendere il sopravvento su di lui. Hyde viene considerato dai domestici uno strano amico del padrone e Jekyll, temendo di non riuscire a tornare nel pieno possesso del proprio corpo consegna persino un testamento a favore di Hyde all’amico Utterson.

Opera fondamentale, insomma, tra quelle che esplorano l’ambiguità dell’animo umano e base di partenza per tutta la letteratura e la cinematografia successiva sui doppi, gli avatar e le schizofrenie.